Mandati
XXVI settimana T.O. –
La liturgia della Parola di oggi mette sotto i nostri occhi due figure: Giobbe e il discepolo mandato da Gesù <avanti a sé in ogni luogo dove stava per recarsi> (Lc 10, 1). Nel terribile lamento/protesta di Giobbe possiamo scorgere il grande coraggio di dire senza tema: <Io!> (Gb 19, 25.27). Nel dolore e attraverso il dolore, Giobbe diventa una persona che può prendere la parola e osare di prendere posizione davanti a Dio e davanti alla vita. Quest’uomo, che ha perso tutto e non può più contare su quei beni che gli davano sicurezza e prestigio e – ancora più duramente – non può più contare su nessuno, arriva ad implorare: <Pietà, pietà di me almeno voi miei amici> (Gb 19, 21). Un’implorazione che, a giudicare dall’atteggiamento saccente di quanti vengono a trovarlo, rischia di cadere miseramente nel vuoto. Nella tribolazione persino gli amici di un tempo sembrano spargere il sale della loro presuntuosa sapienza sulle brucianti ferite di un uomo su cui si abbatte la sventura da ogni parte. Eppure, Giobbe mostra di conservare la sua dignità persino in un momento in cui tutto sembra remare contro la sua vita. Questa dignità si manifesta nella forza di sperare e di gridare a dispetto di tutto e di tutti: <Io lo vedrò, io stesso!> (19, 27). Un testo che la tradizione liturgica e spirituale usa nel contesto della proclamazione della propria speranza nella risurrezione al momento delle esequie. Un’audacia a cui dobbiamo conformare il nostro stesso cuore ogni volta che anche noi possiamo dire come un grido di protesta: <perché vi accanite contro di me, come Dio, e non siete mai sazi della mia carne?> (Gb 19, 22). Questo grido di protesta e di speranza può accompagnare le nostre esequie del quotidiano, quei momenti di cui l’intera vita è costellata e in cui siamo costretti a vedere morire qualcosa di noi: illusioni, sogni, rapporti…! Nonostante queste morti dobbiamo essere ancora e sempre capaci di vivere la cosa più importante: vivere anche le nostre morti in prima persona, senza delegare e senza ripiegarci. Giobbe, che pure si sente non solo abbandonato da Dio ma pure ingiustamente perseguitato da Lui, riesce a non perdere il contatto con se stesso, riesce malgrado tutto e attraverso tutto a non deporre e a non abdicare alla propria speranza: <Questa mia speranza è riposta nel mio seno> (19, 27). Noi tutti siamo come dei “Giobbe” che il Signore invia davanti a sé per preparare la strada all’evangelo. Come i <settantadue discepoli> (Lc 10, 1) siamo inviati e invitati a non perderci in chiacchiere, ma a tirare diritto per la strada della testimonianza: <non salutate nessuno lungo la strada> (10, 4) e ancora <non passate di casa in casa> (10, 7). La via dell’evangelo la si spiana con la capacità di non perdersi in chiacchiere e convenevoli, ma nella disponibilità e nella decisione di mostrare fino in fondo il proprio “Io” libero e spoglio da ogni inutile accessorio: <non portate né borsa, né bisaccia, né sandali> (10, 4). Questa povertà di fondo è la garanzia per essere accolti non per quello che portiamo con noi, ma, eventualmente, mettendo in conto di essere decisamente rifiutati per quello che portiamo dentro noi stessi, infitto nella nostra carne e sul nostro volto, impresso <con stilo di ferro sul piombo> (Gb 19, 24) e che si riassume in un solo annuncio testimoniato con la nostra stessa vita: <il regno di Dio è vicino> (Lc 10, 11). Questa vicinanza/prossimità del Regno ha un prezzo: la disponibilità ad attraversare con forza l’esperienza della lontananza “accanita” di Dio. Fino a che non si sperimenta la morsa dei <lupi> (10, 3) i quali cercano di convincerci del valore della forza e fino a quando non sappiamo – fattivamente – contrapporre la natura risorta di <agnelli> non potremo vedere il Regno di Dio, non potremo dire in verità e fino in fondo senza paura alcuna e in piena, splendida e fiera nudità: <Io> (Gb 19, 10).
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