Speranza

XXXIII Domenica T.O.

Mentre l’Anno Liturgico volge verso la sua conclusione la parola di Dio ci mette già in sintonia con la fine mediante il segno del compimento che passa sempre – senza esaurirsi – attraverso l’esperienza di una catastrofe. Nella prima lettura, il profeta Daniele non usa mezzi termini: <Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo>; e aggiunge <in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro> (Dn 12, 1). Da parte sua, il Signore Gesù non esita a parlare di <tribolazione> fino a dire che <le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte> (Mc 13, 24-25). La tentazione di passare dalla ricezione di una situazione di <catastrofe> ad un atteggiamento di catastrofismo è sempre accovacciata alla soglia del nostro cuore abitato – più o meno consciamente – da fobie. In realtà, non è al catastrofismo che la Parola di Dio vuole iniziarci, bensì alla speranza. Al cuore dell’annuncio di questa domenica si trova quella che potremmo definire la “parabola non detta” o solo accennata. Il Signore Gesù, infatti, al cuore del suo discorso escatologico pone una parola di esortazione così breve da essere quasi solo accennata. Questa parola di speranza suona così: <Dalla pianta del fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina> (13, 28). Cirillo di Gerusalemme si chiede: <D’inverno, gli alberi sono come morti: dove sono le foglie del fico?>. La risposta a questa domanda è che, nonostante le apparenze, le foglie sono già dentro l’apparente morte assoluta dell’albero di fico che, durante l’inverno, sembra veramente il fantasma di se stesso. Il fico che d’estate si ammanta di foglie così grandi da servire da vestito per i nostri progenitori (Gn 3, 7) e da piatti per alcune vivande, d’inverno è lo spettro di se stesso e, per giunta, la legna che si trarrebbe dal suo abbattimento non serve a niente: né a costruire né a scaldare. Eppure, il suo frutto ha una <dolcezza> (Gdc 9, 11) di grande gusto e possiede persino capacità mediche in forma di <impiastro> (Is 38, 21). Così pure quest’albero che, durante l’inverno, è l’ombra di se stesso non solo dà frutti abbondanti che si possono anche conservare per l’inverno, ma dà due raccolti all’anno: i primaticci (Ct 2, 13) e il frutto vero e proprio. Spesso abbiamo l’impressione di essere in un vicolo senza uscita o in un pozzo senza fondo. La parola del Signore Gesù ci dice che non è così e che la totalità della nostra esistenza – attraverso tutte le sue fasi – porta verso la <dolcezza> (Gdc 9, 11) che è segno di una maturità che esige i lunghi tempi della pazienza e dell’amore.

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