Soglia

Dedicazione del Laterano

La parola di Dio ci fa entrare in questa festa della Dedicazione della basilica del Laterano con un’immagine liminare: <Un uomo, il cui aspetto era come di bronzo, mi condusse all’ingresso del tempio e vidi che sotto la soglia del tempio usciva acqua verso oriente> (Ez 47, 1). Sembra che il tempio non serva per quello che avviene dentro di esso, ma per ciò che a partire da esso si può vivere il più ampiamente e il più lontano possibile. La visione di Ezechiele continua, facendo del tempio un elemento di orientamento e non di accentramento. Per questo il profeta viene ancora condotto da quell’uomo <fuori dalla porta settentrionale e mi fece girare all’esterno> (47, 2). L’immagine del tempio se si mantiene in continuità con gli usi e le sensibilità dei popoli e delle culture vicine, nella sensibilità – in particolare quella mediata e ravvivata dai profeti di Israele – si discosta da ogni rischio di automatica identificazione del luogo sacro con una relazione autentica con Dio. Il tempio sta in mezzo al popolo come memoria di un’assenza che si fa presente non in modo magico e autoreferenziale, ma in modo eccentrico: <Queste acque scorrono verso la regione orientale, scendono nell’araba ed entrano nel mare: sfociate nel mare, ne risanano le acque…> (47, 8).

Alla luce di questa visione, in cui si invera il modo di sentire la presenza di Dio, possiamo avvertire il grande peso di responsabilità che provengono dalla consapevolezza di cui si fa interprete l’apostolo Paolo: <Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio che siete voi> (1Cor 3, 16-17). Sembra che un modo di distruggere il tempio, come luogo di presenza continuamente in osmosi con la realtà della vita, è quello di chiuderne le porte tanto da non permettere più alla <soglia> di fungere da luogo di comunicazione e di scambio tra l’interno e l’esterno. Il malinteso che si crea tra il Signore Gesù e i Giudei riguarda proprio quest’attitudine di apertura che rifugge da ogni ripiegamento comodo, egoistico, commerciale, mascherato di devozione. La nota dell’evangelista Giovanni ci emoziona sempre: <Ma egli parlava del tempio del suo corpo> (Gv 2, 21). Come discepoli del Signore ogni volta che entriamo in un luogo di preghiera siamo chiamati a rammentarci a fare del nostro corpo quale spazio in cui ciò che portiamo dentro incontra ciò che sta fuori di noi e attende da noi un <segno> (2, 18), dobbiamo fare memoria che siamo tempio e siamo tempio aperto da cui la vita e l’amore fluiscono e vanno lontano.

La formula con cui il Vescovo di Roma, Francesco, si è assiso sulla cattedra di Pietro ha dato un respiro nuovo al modo di concepire il servizio di carità della Chiesa di Roma ripristinando il modo antico e originale di immaginarlo e di proporlo: <Questo è il luogo eletto e benedetto, dal quale, fedelmente nello scorrere dei secoli, la roccia su cui è fondata la Chiesa, conferma nella verità della fede tutti i fratelli, presiede nella carità tutte le Chiese e con ferma dolcezza tutti guida sulle vie della santità>. La Chiesa diventa una soglia verso la vita e la gioia per tutta l’umanità!

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