Forza

XIX Domenica T.O.

I sentimenti espressi dal salmo responsoriale possono aiutarci ad entrare nell’atmosfera e nel messaggio che la Parola di Dio ci offre in questa domenica: <Ho cercato il Signore: mi ha risposto e da ogni paura mi ha liberato> (Sal 33, 5) e ancora <Questo povero grida e il Signore lo ascolta, lo salva da tutte le sue angosce> (33, 7). Proprio quest’ultimo versetto può offrirci la chiave per leggere più in profondità l’esperienza vissuta dal profeta Elia che, in realtà, attraversa un vero e proprio momento di depressione. Dopo aver trucidato i sacerdoti di Baal sul monte Carmelo ed essersi così inimicata la regina Gezabele che ha deciso di fargli fare la stessa fine, il profeta di fuoco fugge nel deserto. Nella solitudine, celebra la sua paura e attraversa quella sottile angoscia che segue i momenti di grande tensione. In questi momenti gloriosi ci sembra di poter spaccare o cambiare il mondo agendo con forza e persino con violenza sulle situazioni esterne senza toccare, illuminare e trasformare il nostro vissuto interiore. Per due volte, nel breve testo della prima lettura, troviamo che il profeta <si coricò e si addormentò sotto la ginestra> (1Re 19, 5) e ancora <mangiò e bevve, quindi di nuovo si coricò> (19, 6). Se per due volte Elia si lascia andare a questo dormire in cui si manifesta un senso di frustrazione e di disgusto della vita che sono i sintomi della depressione, per ben due volte il Signore – attraverso il suo angelo – scuote Elia dal suo senso di fallimento. Il senso di sconfitta induce il profeta a rinchiudersi in sé stesso, mentre il Signore cerca in tutti i modi – e quasi contro la sua stessa volontà – di rimetterlo in piedi: <Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb> (1Re 19, 8). La scelta di questo testo come lettura che prepara alla continuazione della meditazione del Discorso di Gesù sul Pane che è egli stesso, ci permette di comprendere in modo orientato non solo il senso della diatriba in corso tra il Signore e i Giudei che <si misero a mormorare> (Gv 6, 41). Questo testo illumina soprattutto il nostro personale rapporto con il Signore e, in particolare, del nostro modo di vivere l’Eucaristia. Ogni volta che comunichiamo alla vita di Cristo, attraverso la preghiera intima e la celebrazione dei sacramenti, in realtà attingiamo quella <forza> (1Re 19, 8) che ci permette di continuare il viaggio. Con questa forza diventiamo capaci di raggiungere la meta del nostro prossimo appuntamento con Dio in cui possiamo fare il punto del nostro cammino di uomini e donne davanti a Dio e davanti agli uomini. Se Elia si fosse fermato per strada, non avrebbe incontrato il Signore nel <sussurro di una brezza leggera> (19, 12) una volta giunto – dopo quaranta giorni e quaranta notti di cammino – <al monte di Dio, l’Oreb>. 

Force

XIX Dimanche du T.O. 

Les sentiments exprimés par le psaume responsorial peuvent nous aider à entrer dans l’atmosphère et le message que la Parole de Dieu nous offre en ce dimanche : ” J’ai cherché le Seigneur : il m’a répondu et libéré de toute peur ” ( Ps 33, 5 ) et encore : ” Le pauvre crie et le Seigneur l’écoute, il le sauve de toutes ses angoisses ” ( 33, 7 ). C’est justement ce dernier verset qui peut nous offrir la clé pour lire plus profondément l’expérience vécue par le prophète Elie qui, en réalité, traverse un véritable moment de dépression. Après avec tuer les sacerdotes de Baal sur le mont Carmel et s’être ainsi  fâché avec la reine Jézabel qui a décidé de lui appliquer la même fin, le prophète de feu fuit dans le désert. Dans la solitude, il célèbre sa peur et traverse cette légère angoisse qui suit les moments de grande tension. En ces moments glorieux, il nous semble pouvoir échapper ou changer le monde en agissant avec force et même avec violence dans les situations extérieures, sans toucher, illuminer et transformer notre vécu intérieur. Par deux fois, dans le bref texte de la première lecture, nous trouvons que le prophète ” s’allongea et s’endormit sous le genêt ” ( 1 R 19, 5 ) et encore ” il mangea et but et de nouveau s’allongea  ” ( 19, 6 ). Si, par deux fois, Elie se laisse aller à cet assoupissement qui manifeste un sens de frustration et de dégoût de la vie, symptômes de la dépression, par deux fois aussi, le Seigneur – par son ange – secoue Elie de son sentiment d’échec. Le sens de la défaite induit le prophète à se renfermer en lui-même, alors que le Seigneur cherche de toutes les manières possibles – et presque contre sa propre volonté – à le remettre sur pieds : ” Avec la force de cet aliment, il marcha quarante jours et quarante nuits jusqu’à la montagne de Dieu, l’Oreb ” ( 1 R 19, 8 ). Le choix de ce texte comme lecture  préparant à la continuation de la méditation du Discours de Jésus sur le Pain qu’Il est lui-même, nous permet de comprendre aussi de façon orientée, le sens de la diatribe en cours entre le Seigneur let les Juifs, qui ” se mirent à murmurer ” ( Jn 6, 41 ). Ce texte illumine surtout notre rapport personnel avec le Seigneur et, en particulier, notre façon de vivre l’Eucharistie. Chaque fois que nous nous relions à la vie du Christ, par la prière intime et la célébration des sacrements, nous atteignons, en réalité, cette ” force ” ( 1 R 19, 8 ) qui nous permet de continuer le voyage. Avec cette force nous devenons capables de rejoindre le but de notre prochain rendez-vous avec Dieu où nous pouvons faire le point de notre chemin d’hommes et de femmes face à Dieu et face aux hommes. Si Elie s’était arrêté en route, il n’aurait pas rencontré le Seigneur ” dans le chuchotement d’une brise légère ” ( 19, 12 ) après avoir rejoint – après quarante jours et quarante nuits de marche – ” la montagne de Dieu, l’Oreb “.

Cadere

San Lorenzo

Troppo spesso pensiamo alla nostra vita e alla nostra vita cristiana come ad un’arrampicata. Troppo facilmente pensiamo ad imitare i santi lanciandoci con entusiasmo in una sorta di arrampicata, di gimcana o di maratona in cui lo sforzo dimostrerebbe la nostra decisione e la nostra risolutezza. La festa di san Lorenzo sembra invece riportarci ad un modo diverso persino di concepire l’estrema testimonianza del martirio cruento letto come un semplice modo di cadere: come un seme nella terra, come una stella sulla terra. Le parole del Signore Gesù non solo accompagnano questa festa, ma in certo modo, rettificano tutte le possibili derive persino del martirio: <se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto> (Gv 12, 24). Non è stato sempre facile nella storia e non è facile neppure oggi distinguere l’eroismo dal martirio! Eppure, la differenza c’è ed è fondamentale per non cadere in atteggiamenti che se sono assolutamente ammirabili quanto ad eroismo rischiano di essere poco evangelici.

La parola dell’apostolo Paolo ci riporta il criterio di discernimento irrinunciabile: <tenete sempre questo: chi semina scarsamente, scarsamente raccoglierà e chi semina con larghezza, con larghezza raccoglierà> (2Cor 9, 6). Proprio mentre l’apostolo offre questo criterio di discernimento sente il bisogno di aggiungere: <Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia> (9, 7). La gioia è un criterio che rivela lo stato di libertà del proprio cuore senza la quale nessun dono, anche il più generoso e il più eroico rischia di non essere secondo il cuore di Cristo. Ancora oggi ci sono situazioni che richiedono una generosità estrema nella fedeltà al Vangelo e non è raro che alcuni debbano pagare questa fedeltà con la propria vita. Eppure, il Vangelo sembra tenerci in un atteggiamento non eroico, ma sereno ed umile che custodisce e mantiene la memoria delle ragioni altrui anche quando queste richiedono il sacrificio stesso della vita.

La testimonianza dei martiri di ieri e di oggi, sono per ciascuno di noi uno stimolo a rimanere fedeli <nell’amore di Cristo e dei fratelli> (Colletta) senza indulgere a forme di autoesaltazione o di autocelebrazione nella certezza che <Se uno serve me, il Padre lo onorerà> (Gv 12, 26). Lasciarsi ammaestrare e guidare dalla parabola del seme significa non solo acconsentire alle morti che la fedeltà al nostro cuore ci richiede, ma ritenere tutto ciò non solo come la cosa più naturale di questo mondo, ma anche come la cosa più desiderabile come per il seme è poter finalmente ritornare alla terra per produrre <molto frutto> (Gv 12, 24). 

Rispondere

Santa Teresa Benedetta della Croce

La scelta della Liturgia ci aiuta non solo a contestualizzare, ma pure ad aprire nuovi orizzonti di comprensione all’esperienza umana e spirituale di Teresa Benedetta della Croce che non ha mai smesso, nonostante l’assunzione del nome monastico, di essere fino in fondo Edith Stein. Il testo del profeta Osea è una chiave di lettura per intuire il mistero di una vita travagliata e di una ricerca intellettuale tanto rigorosa quanto capace di rinunciare a se stessa per amore non servile ma sponsale della verità: <Ecco, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. Là mi risponderà come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d’Egitto> (Os 2, 16-17). Sicuramente questa parola è stata vissuta in pienezza dalla martire Edith Stein nel momento della sua immolazione condivisa con milioni di ebrei saliti verso il Signore attraverso le ciminiere dei forni crematori. Chissà se il fumo di questi forni di disumanità saliva diritto verso il cielo senza subire tentennamenti dovuti ai venti come avveniva per l’olocausto perenne offerto nel Tempio? È più probabile che il fumo dei forni crematori salisse al cielo in modo assai più vorticoso di quello del Tempio.

Eppure ogni martirio, ogni testimonianza di vita piena e consapevole, non può mai essere improvvisato come non s’improvvisa mai l’amore, ma lo si prepara remotamente. Allora possiamo ben immaginarci Teresa Benedetta della Croce come una delle cinque vergini sagge che <insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi> (Mt 25, 4). Non si può improvvisare l’amore, non si può improvvisare la vita, non si può improvvisare la “martyrìa” se non vogliamo rimanere fuori dalla <porta> (25, 10). Tutta la nostra vita è una lenta crescita nella capacità di fare della nostra esistenza una risposta esistenziale alla chiamata di Dio. Il primo passo perché questo possa avvenire è, certamente, la disponibilità piena a lasciarsi interrogare autenticamente senza sottacere nessuna domanda che viene posta dentro e fuori di noi. La filosofa autentica che fu Edith Stein fu la remota e degna preparazione della discepola Teresa Benedetta della Croce fedele a se stessa, a Dio, al suo popolo e all’umanità… fino alla fine.Come ricorda Giovanni Paolo II: <L’incontro di Edith Stein col cristianesimo non la portò a ripudiare le sue radici ebraiche, ma piuttosto gliele fece riscoprire in pienezza. In realtà, tutto il suo cammino di perfezione cristiana si svolse all’insegna non solo della solidarietà umana con il suo popolo d’origine, ma anche di una vera condivisione spirituale con la vocazione dei figli di Abramo, segnati dal mistero della chiamata e dei “doni irrevocabili” di Dio (cfr Rm 11, 29)>1. Ciò che è stato vissuto da questa donna, pienamente donna che seppe fare del pensiero un luogo di conversione, siamo chiamati a viverlo anche noi facendoci sensibili all’appello del Signore che ci scuote dal nostro sonno dogmatico-esistenziale: <Vegliate, dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora> (25, 13).


1. GIOVANNI PAOLO II, Spes aedificandi, § 9

Da dentro

XVIII settimana T.O.

Tre testi di rara bellezza che accompagnano spesso il cammino del credente nel suo pellegrinaggio di fede: Geremia, Davide e Gesù… infine Pietro. Sembra che ci siano tutti e, cosa ancora più essenziale, al livello più importante: quello del cuore. Nel salmo responsoriale ripetiamo ancora una volta le parole di Davide che sono la preghiera di ogni uomo e donna con un minimo di consapevolezza: <Crea in me, o Dio un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo> (Sal 50, 12). Ripetendo la preghiera di Davide in uno dei momenti più difficili e significativi del suo percorso di uomo, di credente e di re siamo invitati non solo a chiedere la purificazione del nostro cuore e della nostra vita intera ma ad impetrarla come rafforzamento del nostro essere persone. Nessuna purezza angelicata, dis-incarnata o de-storicizzata. Al contrario siamo di fronte ad una santità che affonda le sue radici nel reale concreto e si eleva al di sopra di ogni tentazione di ripiegamento o – peggio ancora – di “impietrimento” spirituale. La preghiera di Davide è come la regola sempre <nuova> (Gr 31, 31) del nostro rapportarci al desiderio di Dio: <porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò nel loro cuore> (31, 33).

Un versetto sicuramente conosciuto, ruminato e particolarmente amato dal Signore Gesù. Questo versetto di Geremia è uno dei capisaldi del rinnovamento spirituale in seno ad Israele di cui il Signore Gesù fu dapprima discepolo e poi insigne e autorevole maestro. L’eterno conflitto tra religione esteriore, fatta di pratiche e di convenzioni, e vita di fede interiore tutta centrata sull’adesione del cuore a un Dio che si comporta come uno sposo amante di ogni sua creatura… è sempre sotto i nostri occhi e nelle intime pieghe della nostra intima ricerca spirituale. Un raggio di questo conflitto lo possiamo cogliere nella domanda che il Signore Gesù pone ai suoi discepoli a <Cesarea di Filippo> (Mt 16, 13). Una domanda con cui lo stesso <Maestro e Signore> (Gv 13, 13) chiede, in realtà, ai suoi discepoli-amici per comprendere se stesso e abbracciare fino in fondo la sua vocazione e la sua missione. Alla prima domanda circa quello che dice <la gente> (16, 13) segue una domanda assai più impegnativa: <Voi chi dite che io sia?> (16, 15). Il Signore ha bisogno di una risposta che venga “da dentro”, dal cuore dei suoi discepoli e che sia il frutto della loro esperienza di intimità. La risposta di Pietro è importante e fondamentale, non perché “dogmaticamente” esatta, ma perché spontanea, immediata, di cuore: <Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente> (16, 16). Si potrebbe parafrasare senza tradire: “Tu sei tutto!”.

Con il linguaggio dei nostri giovani si potrebbe trascrivere: “Sei grande” e con ancora più effetto “Sei un Mito”. Su <questa pietra> (16, 18) si fonda la Chiesa! Sono queste le <chiavi del regno> (16, 19) con cui possiamo aprire tutto e mettere così a disposizione dell’umanità la totalità dei doni di Dio per ogni uomo e donna: la nostra adesione di cuore e la nostra risposta da dentro al mistero di Gesù come rivelazione di Dio. Naturalmente, come per Pietro, anche per ciascuno di noi dopo questo passo di adesione “di cuore” è necessario fare un altro passo, quello di accettare tutte le conseguenze dell’intimità imparando a pensare <secondo Dio> e non <secondo gli uomini> (16, 23). Non basta <riconoscere il Signore> (Gr 31, 34), bisogna anche imitare il Signore cominciando a pensare con il cuore senza timore e <apertamente> (Mt 16, 21).

Silenzio

XVIII settimana T.O.

Il silenzio con cui il Signore Gesù reagisce alla supplica accorata di questa donna cananea in così grande pena per sua figlia ci stupisce! Stupisce noi, ma stupisce anche i discepoli che reagiscono chiedendo al Maestro di fare qualcosa: <Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!> (Mt 15, 23). La richiesta dei discepoli ci permette di comprendere ancora meglio la situazione: se è vero che il Cristo non risponde alla supplica di questa donna, rimane altresì vero che neppure la redarguisce, ma le permette di esprimere il suo bisogno secondo il suo modo e le sue esigenze. Sono i discepoli a trattare questa donna come se fosse un cane da cui bisogna liberarsi: <ci viene dietro>! Nel testo alcune immagini animali si susseguono e, per molti aspetti, si contrappongono. Mentre i discepoli chiedono a Gesù di liberarli dall’incomodo di questa donna che sembra incalzarli come un cane affamato o arrabbiato, il Signore risponde attirando la loro attenzione che riguarda le <pecore perdute della casa di Israele> (15, 24).

Subito dopo sarà lo stesso Maestro a dire una parola assai dura a questa donna con cui cerca di spiegarle la sua reazione silenziosa e apparentemente così insensibile: <Non è bene prendere il pane dei figli e darlo ai cagnolini> (15, 26). Una parola da parte di Cristo Gesù che apre la possibilità a questa donna di dichiarare il suo modo di porsi davanti al mistero della salvezza e che scioglierà la situazione di imbarazzo nell’ammirazione: <Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri> (15, 28). Nella zona di Tiro e Sidone, non lontano dal mare, avviene qualcosa che assume tutta la sua profondità di senso se messo in relazione con quanto avvenuto appena prima sul lago increspato con Simon Pietro. Questi chiede e ottiene di camminare sulle acque e, proprio mentre sta procedendo, si impaurisce e comincia ad affondare fino a meritare non l’elogio, ma il rimprovero di Gesù: <Uomo di poca fede, perché hai dubitato?> (14, 31).

Questa donna, al contrario, continua a mantenere viva la sua grande fede anche dinanzi al silenzio e all’apparente chiusura di Gesù nella coscienza di non avere diritto a nulla; eppure, nella consapevolezza di avere bisogno di aiuto per la guarigione di sua figlia. Laddove i discepoli guardano a questa donna con supponenza e la considerano come un fastidio di cui liberarsi, il Maestro dapprima fa il gioco dei suoi discepoli, per poi metterli di fronte al mistero di una fede che non solo li supera, ma pure l’interroga. Quante donne cananee ci sono ancora sulla nostra strada di discepoli che sembrano interrogare il Signore e che, in realtà, interrogano fino a smascherare la nostra poca fede… la nostra fede di facciata e di comodo? Si avvera la parola del profeta Geremia: <Ti ho amato di amore eterno, per questo continuo ad esserti fedele> (Gr 31, 3). Ma è lo stesso profeta a sottolineare come questa rivelazione avviene <da lontano>! Non bisogna mai dimenticare che nella fede c’è sempre un elemento di imprevedibilità che rischia di sfuggire proprio a chi si ritiene più vicino.

Cambiare

Trasfigurazione del Signore

Contemplare il mistero della Trasfigurazione significa sempre aprirsi al mistero necessario per sperimentare una vita piena: il cambiamento. Se è vero che senza cambiamento e senza crescita non c’è vita questo vale anche a livello della vita interiore. Prima della sua passione il Signore Gesù si trasfigura davanti ai suoi discepoli e, in questo modo, li aiuta a comprendere che non bisogna avere paura di nessun cambiamento, neppure dei più tenebrosi come sarà la defigurazione pasquale del Figlio dell’Uomo. Dobbiamo saper cambiare più volte portando nel cuore un’attenzione radicale ad una domanda: <Chi voglio diventare?> per fare ogni giorno la verifica di ciò che stiamo realmente diventando. L’evangelista Matteo annota con stupore e soddisfazione che <il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce> (Mt 17, 2). Non si può non pensare all’esperienza di Mosè costretto a porre un velo sopra il suo viso per evitare che la luce che lo inondava abbagliasse troppo i suoi fratelli in cammino verso la libertà del cuore.

Celebrare il mistero della Trasfigurazione al cuore dell’estate è un modo sottile per ricordare a noi stessi che ogni cambiamento, ogni cammino, ogni esodo della nostra vita può e deve diventare una tappa del nostro viaggio interiore verso la felicità. Non si tratta di una felicità qualunque e sicuramente non si tratta di una gioia a basso prezzo. Come i discepoli anche noi rischiamo di cedere all’estetismo della bellezza che ci viene rivelata e offerta: <è bello per noi essere qui!> (17, 4). Ma non basta percepire la bellezza, bisogna che la luce sia capace di toccarci fino a cambiarci veramente e radicalmente. Pietro porta nel cuore la memoria di questo momento che ha segnato la sua vita e l’ha come preparata a sopportare il mistero pasquale: <Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte> (2Pt 1, 18).

Sul <santo monte> evocato dall’apostolo, Pietro ha condiviso con il Maestro un cammino interiore attraverso cui la luce ha inglobato la necessaria <ombra> (Mt 17, 5) senza la quale non c’è nessuna possibilità di vivere fino in fondo. Per i discepoli intravedere il mistero del destino di Gesù riconosciuto dal Padre come <il Figlio mio> ha significato dover intuire il mistero pasquale già prefigurato su un altro monte, il Moria (Gen 22). Il Signore Gesù aiuta i suoi discepoli ad aprirsi alla totalità del mistero della vita senza cedere alla paura di camminare e di cambiare: <Alzatevi e non temete> (Mt 17, 7). Come ricorda Arturo Paoli con la sua sapienza letteralmente secolare: <Il “non temete” che affiora spesso sulle labbra di Gesù viene dall’abisso oscuro, viene dalla morte. Questo “Non temete” può ancora essere stillante di paura, può essere detto per scongiurare più la propria paura che quella degli altri, ma sulla bocca di Gesù il comando crea la speranza e la prospettiva di un mondo nuovo>1.


1. A. PAOLI, La pazienza del nulla, Chiarelettere 2012, p. 33.

Giogo

XVIII settimana T.O.

Nella prima lettura assistiamo ad una sorta di singolar tenzone tra il profeta Geremia e il sedicente profeta <Ananìa figlio di Azzur> (Gr 28, 1). Nel corso del testo si fa riferimento, per ben sette volte, al <giogo> (28, 2.4.10.11.12.13.14.) che il falso profeta dice sarà presto spezzato e Geremia, invece, ritiene sia ancora da portare e da assumere per compiere quel cammino di purificazione e di conversione senza il quale non si può ritrovare l’amicizia con Dio e ristabilire l’Alleanza. I sette riferimenti al <giogo> con la durissima replica del profeta Geremia portano ad un’amara conclusione: <Il quello stesso anno, nel settimo mese, il profeta Ananìa morì> (28, 17). Questo epilogo non ci può e non ci deve lasciare indifferenti: cosa significa questa morte che il profeta Ananìa deve subire come rivelazione del suo non essere stato <mandato> (28, 15) dal Signore?

Certamente ci sono delle questioni di genere letterario e di contesto culturale da cui non è esente la stessa sensibilità religiosa, nondimeno questo testo ha un messaggio che vale per ciascuno di noi e per la nostra comunità di fede, per la Chiesa. Il discernimento degli spiriti esige la capacità di non lasciarsi ammaliare da annunci troppo facili e un segno della loro provenienza, divina o umana, è il grado e la qualità del coinvolgimento in quello che si annuncia e che si tende a promettere in nome di Dio. Alla fine, Ananìa muore – nel tempo indicato dal profeta Geremia – in questo modo – sub contrario – viene rivelato un dato di fondamentale importanza: la predicazione del <profeta di Gabaon> (28, 1) era falsa perché, in realtà, non gli costava il prezzo di un coinvolgimento reale. In ogni tempo, anche nel nostro, e ciascuno di noi può cadere nella trappola di essere troppo sensibile ad annunci di facili e “provvidenzialiste” soluzioni, ma che, in realtà, non richiedono nulla in termini di dedizione e di perdita personali. La Parola di Dio si realizza sempre attraverso la nostra capacità di entrare in prima persona nel disegno di Dio. Per essere autenticamente profeti del Signore non basta essere dei semplici banditori, ma bisogna che la salvezza si offra attraverso il dono – talora assai oneroso – della nostra vita fatta in prima persona.

Alla luce della prima lettura ci risulta più facile capire cosa avviene nel mare del cuore dei discepoli del Signore mentre si trovano di nuovo soli in mezzo a quel lago che pure dovrebbero conoscere meglio del loro Maestro. Eppure, non basta né conoscere le insidie di un lago sulle sponde del quale si è nati e vissuti da sempre, né tantomeno basta l’esperienza di tante notti passate a pescare. Quando diventiamo capaci di osare un passo in più, come quello che Pietro chiede di essere in grado di fare al Signore Gesù, è necessaria una misura più ampia e profonda di fede. Questa presuppone una fiducia nell’altro più grande di quella che possiamo avere in noi stessi. Allora non ci resta che gridare: <Signore salvami> (Mt 14, 30). Non è mai facile portare il giogo di una libertà conquistata con la rinuncia alla conservazione di se stessi e in continua apertura verso modi nuovi e più ampi di sentire e di sperare.

Cibo

XVIII Domenica T.O.

Il salmista, riflettendo sul cammino del popolo attraverso il deserto e facendo memoria del dono della manna, si lascia andare ad una conclusione più ampia: <L’uomo mangiò il pane dei forti> (Sal 77, 25). È proprio questo cibo che rafforza e fa crescere fino a rendere adulti. È un pane che il Signore, dopo averne saziato la fame immediata, vuole dare come un di più alla folla. Questa, in realtà, si dimostra capace non solo di lanciarsi <alla ricerca di Gesù> (Gv 6, 24), ma anche di lasciarsi condurre da Lui fino a maturare un grado di consapevolezza più adeguato. Esso si riflette e si esprime in una nuova domanda: <Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?> (6, 28). In un tempo assai breve e con rara efficacia, il Signore Gesù è capace di portare la folla, che lo segue e si aspetta da lui quasi di essere “mantenuta” in vita, alla capacità di sottrarsi alla tentazione della mormorazione. Non bisogna comunque dimenticare che questo lavoro di superamento non è mai fatto una volta per sempre e continuamente si può riproporre come avvenne nel deserto. Là il popolo, che aveva ancora gli occhi pieni delle opere meravigliose compiute da Dio nel farlo uscire dall’Egitto, si lascia andare – a stomaco vuoto – al peggiore dei mali: la mormorazione. Infatti, in una delle pagine più toccanti dell’Esodo, leggiamo che <nel deserto, tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro il Signore> (Es 16, 2). Davanti a questa tendenza quasi connaturale di mormorare, possiamo accogliere pure l’esortazione dell’apostolo: <vi dico e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani con i loro vani pensieri> (Ef 4, 17). E cosa di più che un vano pensiero può essere il discorso che viene fatto dalla comunità di Israele all’indomani della sua liberazione: <Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatti uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine> (Es 16, 3). La reazione del Signore Dio è immediata: <ho inteso la mormorazione degli Israeliti> (16, 12). Per quanto questo possa ferire il cuore del Signore che ha liberato il suo popolo con <braccio potente> (13, 16), la mormorazione non chiude né il suo cuore né la sua mano provvidente e dona al popolo carne alla sera e pane al mattino con una piccola consegna: <il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina o no secondo la mia legge> (16, 11). Come già nell’Eden la consegna fu quella di poter <mangiare di tutti gli alberi del giardino> (Gn 2, 16) ma non quelli di un solo albero, quello della <conoscenza> (2, 17), così anche nel deserto la prova che Dio richiede al suo popolo non è quella di saper digiunare – visto che questo produce <vani pensieri> (Ef 4, 17).

Nourriture

XVIII Dimanche du T.O. 

Le psalmiste, en réfléchissant sur le chemin du peuple dans le désert et en faisant mémoire du don de la manne, se laisse aller à une conclusion plus large : ” l’homme mangea le pain des forts ” ( Ps 77, 25 ). C’est vraiment cette nourriture qui renforce et fait grandir jusqu’à  nous rendre adultes. C’est un pain que le Seigneur, après avoir rassasié la faim immédiate, veut donner en surplus à la foule. Celle-ci, en réalité, se montre capable, non seulement de se lancer ” à la recherche de Jésus ” ( Jn 6, 24 ), mais aussi de se laisser conduire à Lui, jusqu’à mûrir d’un degré de conscience plus adapté. Cela se reflète et s’exprime dans une nouvelle question : ” Que devons-nous accomplir pour faire les oeuvres de Dieu ? ” ( 6, 28 ). En un temps assez bref et avec une rare efficacité, le Seigneur Jésus est capable de porter la foule qui le suit  attendant presque de sa part d’être ” maintenue ” en vie, à la capacité de se soustraire à la tentation de murmurer. Il ne faut toutefois pas oublier que ce travail de dépassement n’est jamais fait une fois pour toute, il peut se reproduire continuellement comme cela se passa au désert. Là, le peuple qui avait encore les yeux pleins des oeuvres merveilleuses accomplies par Dieu à travers la sortie d’Egypte, se laisse aller – l’estomac vide – au pire des maux : le murmure. En effet, dans l’une des pages les plus touchantes de l’Exode, nous lisons que ” dans le désert, toute la communauté des Israélites murmurait contre Moïse et contre le Seigneur ” ( Ex 16, 2 ). Face à cette tendance, presque naturelle de murmurer, nous pouvons accueillir l’exhortation de l’apôtre : ” Je vous le dis et vous conjure dans le Seigneur : ne vous comportez plus comme les païens et leurs vaines pensées ” ( Eph 4, 17  ). Et  qu’y a-t-il comme plus vaine pensée que le discours fait par la communauté d’Israël le lendemain de sa libération : ” Nous aurions préféré périr par la main du Seigneur dans la terre d’Egypte, lorsque nous étions assis près de la casserole de viande, mangeant du pain à satiété ! Mais, au contraire, vous nous avez fait aller dans ce désert pour  faire mourir de faim toute cette multitude ” ( Ex 16, 3 ). La réaction du Seigneur Dieu est immédiate : ” J’ai entendu le murmure des Israélites ” ( 16, 12 ). Autant que cela puisse blesser le coeur du Seigneur qui a libéré son peuple par son ” bras puissant ” ( 13, 16 ), le murmure ne ferme ni son coeur, ni sa main providentielle et il donne de la viande le soir et du pain le matin, avec une petite consigne : ” le peuple sortira et recueillera chaque jour la ration journalière, car je le mettrai à l’épreuve pour voir s’il marche ou non selon ma loi ” ( 16, 11 ).Comme déjà au jardin de l’Eden, la consigne fut celle de pouvoir ” manger de tous les arbres du jardin ” ( Gn 2, 16 ), sauf des fruits d’un seul arbre, celui de la ” connaissance ” ( 2, 17 ), dans le désert aussi, la preuve que Dieu demande à son peuple, n’est pas celle de savoir jeûner, vu que cela produit ” de vaines pensées ” ( Eph 4, 17 ).