Domande

XXIV Domenica T.O.

Domenica delle domande! Nelle tre letture di oggi ricorrono otto domande che potremmo riassumere nelle parole taglienti dell’apostolo Giacomo: <Quella fede può forse salvarlo?> (Gc 2, 14). La salvezza – dice Marco – non è legata alla capacità di dare la risposta giusta – come sembra fare Pietro – o quella più bella – come tenderemmo a fare noi. Si tratta, invece, di farci trasformare interiormente e radicalmente dalle risposte che diamo e che, inevitabilmente, creano domande sempre più profonde e sconvolgenti. Queste esigono una corrispondenza esistenziale tra ciò che proclamiamo a parole e la nostra conformazione a Cristo e alla logica del suo vangelo di servizio e di condivisione della vita. Ogni volta che il Signore ci pone una domanda, richiede da noi non una semplice risposta, ma un passo in più nella sua sequela. Pietro ha risposto bene: <Tu sei il Cristo!> (Mc 8, 29). Gli sembra di aver dato il massimo dei titoli possibili al suo amato Maestro, ma è come se questo riconoscimento sommo non risponda, in realtà, alla domanda posta dal Signore Gesù. Questo perché non corrisponde al cammino interiore di autocoscienza che il Signore sta compiendo dentro di sé camminando con i suoi discepoli, ma anche pellegrinando interiormente verso la comprensione piena della sua missione che è rivelazione di Dio. La reazione alla reazione di Pietro è chiara: <tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini> (8, 33). Il Signore Gesù prende sul serio le nostre risposte, ma ne dispiega il senso profondo, il senso vero, quello preannunciato dai profeti: <Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi> (Is 50, 6). La nostra fede, infatti, rischia di essere un modo per metterci al sicuro da pericoli, più o meno chiari, di cui però sentiamo come il remoto approssimarsi, per cui non ci resta che dire e augurare all’altro che non ci metta – in prima persona – in una situazione difficile da gestire per cui <Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo> (Mc 8, 32). Tutto ciò avviene proprio mentre il Signore Gesù <faceva questo discorso apertamente>. Aprirsi alla fede non significa parare i colpi e ancor meno mettersi al sicuro da possibili fallimenti e disfatte, bensì significa mettersi in cammino e quindi in pericolo: mettersi a rischio condividendo i rischi. Come Pietro, anche noi spesso ci comportiamo “al contrario”: invece di aderire rimproveriamo, invece di seguire vogliamo tracciare la strada, invece di imparare ci sembra di poter insegnare. È così che meritiamo con Pietro di essere chiamati nientedimeno che <Satana> (8, 33): colui che – come nel caso che ci viene narrato nel libro di Giobbe – racconta le cose al rovescio.  

Question

XXIV Dimanche du T.O. 

Dimanche des questions ! Dans les trois lectures d’aujourd’hui, nous trouvons huit questions que nous pourrions résumer par les paroles tranchantes de l’apôtre Jacques : ” Quelle foi peut donc le sauver ? ” ( Jc 2, 14 ). Le salut – nous dit Marc – n’est pas lié à la capacité de donner la bonne réponse – comme semble le faire Pierre – ou la plus belle – comme nous essayerions de le faire nous. Il s’agit, au contraire, de se laisser transformer intérieurement et radicalement par les réponses que nous donnons et qui, inévitablement, entraînent des réponses toujours plus profondes et déconcertantes. Celles-ci exigent une correspondance existentielle entre ce que nous proclamons à haute voix et notre conformité au Christ et  la logique de son évangile de service et de partage de la vie. Chaque fois que le Seigneur nous pose une question, cela demande de notre part, non seulement une simple réponse, mais un pas de plus à sa suite. Pierre a bien répondu : ” Tu es le Christ ! ” ( Mc 8, 29 ). Il pense avoir donner le titre maximum des noms possibles à son Maître bien-aimé, mais c’est comme si cette reconnaissance suprême ne correspondait pas, en réalité, à la question posée par le Seigneur Jésus. Et ceci parce que cela ne correspond pas au chemin intérieur  de prise de conscience que le Seigneur est en train d’accomplir en lui tout en marchant avec ses disciples, mais aussi en pérégrinant intérieurement vers la compréhension entière de sa mission qui est révélation de Dieu. La réaction  à la réaction de Pierre est claire : ” tu ne penses pas selon Dieu, mais selon les hommes ” ( 8, 33 ). Le Seigneur Jésus prend nos réponses au sérieux, mais il en déplie le sens profond, le sens véritable, celui prononcé par les prophètes : ” J’ai présenté mon dos aux flagellateurs, mes joues à ceux qui m’arrachaient la barbe ; je n’ai pas dérobé mon visage aux insultes et aux crachats ” ( Is 50, 6 ). Notre foi, en fait, risque d’être une façon de nous permettre à l’abri des dangers, plus ou moins clairs, mais dont nous sentons une approche lointaine et que nous espérons et souhaitons que cela ne nous concernera pas- personnellement – par une situation difficile comme celle de ” Pierre qui fut pris à l’écart et réprimandé ” ( Mc 8, 32 ). Tour cela arriva justement lorsque le Seigneur Jésus  ” fit ce discours ouvertement “. S’ouvrir à la foi, ne signifie pas éviter les coups et encore moins se mettre à l’abri de possibles échecs et risques. Comme Pierre, nous faisons souvent les choses “à l’envers” : au lieu d’adhérer, nous réprouvons, au lieu de suivre, nous voulons tracer la route, au lieu d’apprendre, nous avons le sentiment de pouvoir enseigner. C’est ainsi que nous méritons, comme Pierre d’être appelés pas moins que ” Satana ” ( 8, 33 ) :  celui qui  dans le livre de Job – raconte les choses à l’envers.

Il viaggio

Esaltazione della santa Croce

La liturgia della Parola ci conduce nel mistero della Croce come luogo di rivelazione ultima e piena del disegno di Dio sulla nostra vita e sul nostro destino. Questa riflessione comincia con un’immagine: <il popolo non sopportò il viaggio> (Nm 21, 4). Fa parte del nostro modo consueto di vivere la Liturgia che sia proprio la croce ad aprire le nostre processioni, da quelle più solenni a quelle più familiari com’è la processione al cimitero quando vi accompagniamo i nostri cari per il loro ultimo viaggio da questo mondo al Padre. Secondo quanto dicono i liturgisti, la croce precede sempre! E potremmo aggiungere: la croce accompagna sempre. Dire questo può, certo, significare l’evocazione di tutta quella serie di croci che segnano il cammino della nostra vita, tanto da essere ormai parte integrante del linguaggio comune anche di quelli che non credono in Cristo, quando ad esempio si dice di qualcuno o a qualcuno: <sei proprio una croce>!

Nondimeno dobbiamo tenere presente che ciò di cui oggi facciamo memoria non sono le nostre croci, ma siamo invitati a contemplare il mistero glorioso della croce di Cristo Signore nel cui fulgore possiamo trovare il senso profondo e vero delle nostre fatiche. Le parole che il Signore Gesù dice a Nicodemo sono sussurrate al cuore di ciascuno di noi soprattutto nei momenti in cui sentiamo il peso della sofferenza, del paradosso, della fatica: <Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui> (Gv 3, 17). Laddove noi sentiamo la “croce” come una potenziale condanna di tutto ciò che riteniamo essere per noi fonte di gioia e di soddisfazione, il Signore Gesù attira la nostra attenzione e ci esorta alla conversione dello sguardo interiore per cogliervi invece un senso più profondo e più vero. Quando il Signore Gesù dice a Nicodemo: <Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo> (3, 13) richiede a ciascuno di noi, come avvenne già per Giacobbe al momento del suo sogno e della sua visione della scala che congiungeva la terra al cielo, di contestualizzare in modo più preciso persino la nostra fatica di viaggiare nella vita in un orizzonte più ampio.

In tal senso la croce, con la sua simbologia così forte, diventa uno strumento di orientamento e una sorta di chiave di senso. La croce di Cristo si offre alla nostra contemplazione in ottica di simbolo tridimensionale. Lo raccogliamo nella dimensione verticale di questo legno innalzato al cielo, a Dio. La dimensione orizzontale, la parte più corta che Gesù carica sulle sue spalle e trascina nel salire, e da cui ci abbraccia e ci costituisce fratelli ai suoi piedi. Per significare la dimensione della profondità, la croce è piantata sulla nostra terra tanto da riconoscere noi stessi nell’uomo che sulla croce soffre e, nell’abbandono, ritrova il senso più profondo della vita nella relazione con il Padre, sperimentiamo già la speranza della realtà della risurrezione. L’apostolo Paolo sembra esultare: <Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome> (Fil 2, 9). Questo nome è <Gesù> che significa <salvezza> ma è anche <Cristo> che significa <unto del Signore> ed è pure <Signore> che indica la sua vittoria sui <serpenti brucianti> dell’egoismo i quali rischiano di trasformare il <viaggio> in una inutile odissea.

Ricompensa?

XXIII settimana T.O.

La domanda che si pone l’apostolo circa la <ricompensa> (1Cor 9, 17) di cui può sentirsi in diritto colui che mette tutta la propria vita al servizio del Vangelo, si fa sottilissima riguardo al nostro modo di porci gli uni di fronte agli altri. Tutti siamo animati da una sorta d’istinto a correggere gli errori altrui, un po’ per aiutarli nel loro cammino e molto di più per sentirci un po’ più sicuri di noi stessi tanto da essere come confortati, se così si può dire, dai limiti altrui. L’apostolo da una parte e il Signore Gesù dall’altra, ci richiamano, in modo assai esigente, ad una sorta di povertà interiore che ci permette di mettere in atto tutto quello che sentiamo di fare per il Vangelo con un senso profondo di soddisfazione che non ha bisogno di nessuna gratificazione ulteriore. L’apostolo Paolo si pone la domanda e si dà egli stesso la risposta: <Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo> (1Cor 9, 18).

Così pure, in questo senso di libertà interiore, possiamo finalmente camminare gli uni accanto agli altri senza sentirci in dovere di <guidare> (Lc 6, 39) o di correggere, ma semplicemente di condividere un pezzo di strada accogliendoci reciprocamente e senza alcuna pretesa di giudicare, valutare e definire il cammino e le scelte degli altri. Nel nostro percorso personale da ricominciare ogni giorno in obbedienza alla Parola di Dio, possiamo custodire nel cuore la domanda del Signore non per sentircene rimproverati e disapprovati, ma per sentircene liberati e sollevati: <Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello…?> (6, 41). Questa parola del Signore dovrebbe essere per noi prima di tutto un sollievo perché ci sgrava del peso – talora insopportabile – di dover incasellare e classificare gli altri fino a temere che gli altri facciano altrettanto nei nostri confronti. 

Il Signore ci chiede pure di togliere dal nostro occhio la trave che rende il nostro sguardo e la nostra visione delle cose – in particolare delle persone – così sfasate. Pertanto, come tutte le operazioni all’occhio, la cosa è assai delicata e se dobbiamo farlo da noi stessi la cosa si complica di più e, soprattutto, richiede un’attenzione e una delicatezza assolute per non rischiare di perdere l’occhio. Alla fine, si tratta di convertirsi profondamente accettando di lasciarsi guardare da Dio piuttosto che di occupare tempo ed energie a esaminarsi e ad esaminare. Molte volte ci sfreghiamo gli occhi fino ad arrossarli e a sentire male per togliere un granello di polvere che ci infastidisce fino ad innervosire… eppure, normalmente, basta avere la pazienza di aspettare un poco e tutto va a posto da solo. Cerchiamo di aiutarci a non cadere nel <fosso> (6, 39) del giudizio e della disapprovazione reciproca, ma diamoci tempo e serenità: <e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello> (6, 42). Ma chi può dire, in verità, di vederci così bene?!

Se!

XXIII settimana T.O.

Per una volta, si fa per dire, il Signore Gesù usa il <se> ipotetico che, normalmente, è il modo usato dal tentatore per farci entrare in una logica di illusione: <Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta?> (Lc 6, 32). Questa parola ci viene rivolta dal Signore non per tentarci, ma per farci uscire allo scoperto su quella che è o meno la nostra disponibilità a vivere “di” vangelo. Mentre il diavolo ci tenta continuamente con i <se> che gonfiano ulteriormente il nostro ego e ci ammalano di egoismo, la parola del Signore Gesù si muove in modo totalmente diverso e si fa esortazione chiara e decisa: <A voi che ascoltate, io dico: amate invece i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, pregate per coloro che vi trattano male> (6, 27-28). Il Maestro non ci invita a diventare degli eroi né, tantomeno, a lanciarci in un percorso da “superman” spirituali. Al contrario queste parole sono un modo efficace per aiutarci a passare dall’illusione che ci fa fantasticare continuamente su noi stessi e sugli altri, alla capacità di dare il nome concreto alle situazioni che viviamo, fino a saperle assumere serenamente.

L’apostolo Paolo offre una chiave ulteriore per entrare nella logica evangelica che ci viene annunciata dal Signore: <la conoscenza riempie di orgoglio, mentre l’amore edifica> (1Cor 8, 1). Anche questa frase non va accolta come un aforisma tanto bello quanto teorico, ma come un crogiolo, una sorta di imbuto o di passino attraverso cui dobbiamo continuamente fare la tara delle nostre fantasie e immaginazioni – persino quelle così devote e sante – per scendere al livello della realtà cui continuamente la relazione con i nostri fratelli e sorelle in umanità ci costringe, talora mortificandoci radicalmente. Laddove noi siamo tentati di calcolare e misurare quello che diamo e quello che riceviamo nella nostra condivisione di vita col nostro prossimo, il Signore Gesù ci chiede di elevare lo sguardo per assumere un punto di vista non solo completamente diverso, ma anche magnificamente liberante: <prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi> (Lc 6, 35).

Senza mai dimenticare che la compassione verso il fratello è sempre un atto di compassione verso se stessi, perché ci permette di rivelare a noi stessi chi stiamo diventando talora con quelle fatiche e quegli incidenti che possiamo ben più facilmente rilevare e talora denunciare, nel cammino dei nostri fratelli. La parola del Signore Gesù ci è data come uno specchio: <E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro> (6, 31). Se ogni mattino ricominciassimo a muoverci nel dedalo delle nostre occupazioni e, in particolare, delle nostre relazioni, con questo specchio che ci faccia da orientamento e da guida, forse, a sera, saremmo meno stanchi e, di certo, meno arrabbiati. Ciò che il Signore ci richiede non è di diventare ingenui, ma di assumere un atteggiamento realmente attento sulle situazioni e le persone, ma sempre rammemorando ciò che noi stessi ci aspettiamo dalla vita e speriamo nella vita. La misericordia assoluta non è un atteggiamento debole di resa per evitare il confronto e sottrarsi al conflitto. È, invece, un atto di speranza in quel frammento di divinità che abita ogni cuore… persino il nostro!

Fiducia

XXIII settimana T.O.

L’apostolo Paolo chiede per se stesso da parte della comunità cui si rivolge una sorta di attestato di <fiducia> (1Cor 7, 25). Se questa fiducia possiamo accordarla a Paolo, ancora di più possiamo dare fiducia al Signore Gesù che ci mette di fronte alle esigenze della fedeltà al Vangelo attraverso le parole delle beatitudini che sono necessariamente legate anche alle “guaititudini”. Per quattro volte il Signore Gesù ripete <Beati>, ma per quattro volte ripete pure <Guai>. In tal modo l’evangelista Luca ci fa cogliere come la sfida del Vangelo è una sfida non a senso unico, ma a senso alternato o a senso complesso. Così dicendo il Maestro ci ricorda e, in certo modo, rafforza la nostra responsabilità su quelli che sono gli scenari della nostra vita. Il primo passo sembra proprio essere quello dell’attenzione e della vigilanza per non perdere il contatto con ciò che in noi e attorno a noi è povero e piccolo… per ritornare a Paolo, potremmo dire con ciò che è <vergine>!

L’evocazione della verginità fa tutt’uno nelle parole di Paolo con l’evocazione della necessità e delle costrizioni proprie della vita, che vanno assunte e trasformate ogni giorno in un’occasione possibile di crescita nella verità e nella libertà. Lo sguardo e la parola di Gesù che si volge <verso i suoi discepoli> (Lc 6, 20) è uno sguardo che beatifica, felicita, congratula. Ogni giorno siamo chiamati a lasciarci toccare fino ad essere trasformati da questo sguardo che, oltre a beatificarci, pure smaschera tutto ciò che in noi si oppone alla logica del Vangelo. Mettendo insieme le raccomandazioni paoline <riguardo alle vergini> (1Cor 7, 25) e le parole roventi del Signore Gesù, possiamo dire che al discepolo che siamo e stiamo diventando è offerta la strada di una rinascita interiore capace di riportarci all’essenziale.

Come la verginità così pure lo stile delle beatitudini non sono affatto un impoverimento o una mortificazione delle nostre possibilità di crescita e di sviluppo. Al contrario siamo messi di fronte all’esigenza e alla possibilità di riprendere ogni giorno un atteggiamento di assoluta disponibilità verso ciò che la vita ci richiede e ci offre come possibilità per l’esercizio pieno e generoso della nostra volontà. Come vergini e come poveri siamo posti dalla parola del Signore davanti al mistero di una possibilità di rimettere ogni giorno ordine tra i nostri desideri, per maturare una libertà da noi stessi che ci renda curiosi e generosi verso la vita. Il Signore ce lo ricorda con cura: <Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti> (Lc 6, 26). Da parte sua l’apostolo Paolo ci svela una sorta di trucco per non cadere nella trappola di noi stessi: <d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano come se non possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente> (1Cor 7, 29-31). Non si tratta di una inutile mortificazione, ma di un atteggiamento terapeutico di libertà interiore che ci può rendere veramente e solidamente <Beati>.

NUOVO ABATE PRESIDENTE

Così diversi

XXIII settimana T.O.

La preghiera abitua a riconoscere e ad amare la diversità tanto da renderla una realtà su cui si fonda la vita della Chiesa a servizio di un’umanità in crescita, proprio perché abitata da un processo di differenziazione che arricchisce ed esalta il senso e la bellezza del vivere e del vivere insieme. Oggi contempliamo il Signore Gesù che <se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio> (Lc 6, 12). La preghiera del Signore non è un’evasione, ma prepara la strada all’invasione, per così dire, del disegno di Dio sulla nostra umanità che, attraverso la scelta del gruppo degli apostoli, segna e orienta il cammino di tutti. Come spiega Jean-Louis Souletie: <La fede è fondamentalmente ecclesiale. Credere in Dio significa entrare nel mistero di un’alleanza e prendere posto come membro del corpo di Cristo, membro del popolo santo redento dal suo sangue>1. La preghiera del Signore rende possibile l’instaurarsi di questa alleanza tra Dio e la nostra umanità su cui si fonda il superamento possibile di ogni <lite> (1Cor 6, 4). Nel silenzio crescono gli alberi, i fiori e l’erba ed è in un silenzio maestoso che gli astri si muovono nel cielo facendo danzare col loro fremito il nostro pianeta… ed è nel silenzio che siamo chiamati a far maturare le nostre scelte più importanti perché possiamo portare un frutto di pace per tutti.

Leggendo e meditando la pericope evangelica si rimane toccati dalla sequenza temporale in cui il Signore Gesù sembra porre uno dei momenti più delicati e importanti del suo ministero come è la scelta dei Dodici. Il testo dice che <Gesù se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione> e subito aggiunge <quando fu giorno…> (Lc 6, 12-13). Lungi dall’essere semplicemente un dato cronologico che ci rapporta la sequenza degli avvenimenti, il comportamento del Signore Gesù rappresenta un insegnamento per ciascuno di noi. Si potrebbe riassumere il messaggio che ci viene dall’esempio del Signore in questi termini: la notte prepara il giorno! Di fatto vi è un’ulteriore nota che si trova alla fine della “lista” dei nomi degli apostoli che sempre ci turba e ci lascia perplessi: <Giuda Iscariota, che fu il traditore> (6, 16). Laddove noi ci aspetteremmo una scelta fatta in base al merito e alla familiarità con il Signore e alla capacità di essergli fedeli fino alla fine, il vangelo ci invita ad entrare nel mistero dell’elezione divina che non è “puritana”, ma realista e totale. Non si tratta di avere delle truppe scelte di fedelissimi… il Signore Gesù si circonda di un ristretto gruppo di discepoli che non è esente dalle <malattie> di tutti e non è meno tormentato da quegli <spiriti immondi> (6, 18) di cui fa esperienza la folla e di cui fa esperienza sempre la Chiesa.

Se avessimo qualche dubbio basta ascoltare con attenzione la prima lettura in cui abbiamo una chiara visione di quella che è la vita concreta di una chiesa tanto entusiasta quanto fragile come quella di Corinto: <lo dico per vostra vergogna!> (1Cor 6, 5) conclude Paolo. Si tratta delle <liti per cose di questo mondo> (6, 4) per la cui soluzione i credenti chiedono l’arbitrato dei giudici pagani. E l’apostolo non esita a dire con chiarezza e in verità come sia <già una sconfitta avere liti vicendevoli> (6, 7). Eppure, nonostante tutto ciò sia evidente, chiaro, desiderato da tutti… le ombre convivono assieme alla luce nella comunità dei credenti persino nel suo nucleo di fondamento qual è il gruppo degli apostoli. Ma il fatto che il Signore abbia preparato il <giorno> (Lc 6, 13) della scelta degli <apostoli> con una <notte> passata <in orazione> (6, 12) ci fa sentire come nella sua preghiera e nel suo intimo colloquio con il Padre riguardo a ciascuno di noi, le nostre tenebre sono come comprese, già messe in conto e radicalmente già vinte perché già viste. La parola che l’apostolo rivolge ai Corinti dovrebbe penetrare il nostro cuore: <Non illudetevi> (1Cor 6, 9). Né per le nostre persone né per le nostre comunità possiamo cadere nell’illusione che la chiamata di Cristo ci esenti dal confronto con noi stessi e le nostre ombre… tutt’altro!

Per il Signore Gesù l’intento non è quello di mettere insieme i “migliori”, ma di tenere insieme degli uomini come tutti al fine di metterci di fronte al meglio, permettendo di manifestare la verità del cuore fino in fondo. Il meglio non è dentro di noi ma in quella <forza che sanava tutti> (Lc 6, 19) e di cui, forse, l’apostolo Giuda – che ben ci rappresenta – non ha saputo approfittare perché troppo sicuro della sua forza, troppo concentrato sulla sua luce tanto da rimanerne talmente accecato da cadere irrimediabilmente preda della <notte> (Gv 13, 30).


1. J-L. SOULETIE, Service nationale de la catéchèse, Ed. Bayard, Paris 2007, p. 57) 

XXI CAPITOLO GENERALE

Paura

Martirio di Giovanni Battista

Verrebbe proprio da compatire il profeta Geremia che, già all’inizio della sua vocazione e del suo ministero, è quasi minacciato da parte dell’Altissimo: <non spaventarti di fronte a loro, altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro> (Ger 1, 17). Ci giunge un po’ nuova il fatto che l’Altissimo possa usare l’arma della paura per costringere i suoi profeti a trasmettere esattamente e completamente il suo messaggio senza cedere a nessun timore e senza cadere in nessun tipo di ritrosia davanti al messaggio di cui sono portatori. In questo modo si rivela quanto stia a cuore al Signore Dio raggiungere i suoi figli – tutti i suoi figli – con la sua parola che illumina e libera. Una di queste parole è evocata come lo sfondo della tensione tra Giovanni Battista e la casa reale di Erode: <Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello> (Mc 6, 19).

In realtà con questa denuncia circa l’illecito matrimonio che unisce Erode a sua cognata e lo rende quasi stregato dalla danza della figlia di quest’ultima, vi è molto di più che l’invito a rompere un matrimonio illecito. Questo matrimonio diventa il simbolo di tutto ciò che Erode – come pure il piccolo erode che portiamo dentro di noi – presume di poter fare a proprio arbitrio ritenendo di poter agire secondo il proprio gusto senza misurarsi con niente e con nessuno. La parola dei profeti è una continua memoria dei limiti cui la vita di ciascuno è sottomessa perché non si cada in quell’abuso di se stessi che apre, quasi naturalmente, la porta ad abusare degli altri. Il primo passo di ogni abuso è ritenere di poter fare paura a qualcuno fino a ridurlo in nostro potere. Ma vi è un passo ancora più remoto, apparentemente non solo innocuo, ma persino generoso ed è quello di pensare di poter fare o dare più di quanto, in realtà, possiamo fare o dare: <Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno> (6, 23).

Erode si appropria delle parole che il re Assuero-Artaserse aveva rivolto ad Ester alla fine del secondo banchetto approntato dalla regina per svelare e sgominare l’iniquo progetto di Aman. Ma Erode non si rende conto di non avere davanti a sé la regina Ester, ma la figlia di colei che <odiava> (6, 19) quel profeta che egli <temeva> (6, 20) che lo avrebbe fatto passare dalla parte di Aman, mentre il re si crogiolava nell’impersonare il re Assuero-Artaserse. La reazione regale viene annotata accuratamente e quasi spietatamente dall’evangelista: <Il re, fattosi molto triste, a motivo del giuramento e dei commensali, non volle opporle un rifiuto> (6, 26). Il re non vuole “perdere la faccia” e piuttosto che riconoscere il suo limite e il fatto di averlo oltrepassato accetta da consegnare la <testa di Giovanni> (6, 27).

Conosciamo il seguito della storia: Erode passerà il resto dei suoi giorni nella paura di un ritorno di Giovanni Battista che gli sembra di riconoscere in Gesù. Si compie così per Erode la minaccia dell’Altissimo fatta al profeta Geremia: <sarò io a farti paura> (Ger 1, 17).