Mandati

XXVI settimana T.O.

La liturgia della Parola di oggi mette sotto i nostri occhi due figure: Giobbe e il discepolo mandato da Gesù <avanti a sé in ogni luogo dove stava per recarsi> (Lc 10, 1). Nel terribile lamento/protesta di Giobbe possiamo scorgere il grande coraggio di dire senza tema: <Io!> (Gb 19, 25.27). Nel dolore e attraverso il dolore, Giobbe diventa una persona che può prendere la parola e osare di prendere posizione davanti a Dio e davanti alla vita. Quest’uomo, che ha perso tutto e non può più contare su quei beni che gli davano sicurezza e prestigio e – ancora più duramente – non può più contare su nessuno, arriva ad implorare: <Pietà, pietà di me almeno voi miei amici> (Gb 19, 21). Un’implorazione che, a giudicare dall’atteggiamento saccente di quanti vengono a trovarlo, rischia di cadere miseramente nel vuoto. Nella tribolazione persino gli amici di un tempo sembrano spargere il sale della loro presuntuosa sapienza sulle brucianti ferite di un uomo su cui si abbatte la sventura da ogni parte. Eppure, Giobbe mostra di conservare la sua dignità persino in un momento in cui tutto sembra remare contro la sua vita. Questa dignità si manifesta nella forza di sperare e di gridare a dispetto di tutto e di tutti: <Io lo vedrò, io stesso!> (19, 27). Un testo che la tradizione liturgica e spirituale usa nel contesto della proclamazione della propria speranza nella risurrezione al momento delle esequie. Un’audacia a cui dobbiamo conformare il nostro stesso cuore ogni volta che anche noi possiamo dire come un grido di protesta: <perché vi accanite contro di me, come Dio, e non siete mai sazi della mia carne?> (Gb 19, 22). Questo grido di protesta e di speranza può accompagnare le nostre esequie del quotidiano, quei momenti di cui l’intera vita è costellata e in cui siamo costretti a vedere morire qualcosa di noi: illusioni, sogni, rapporti…! Nonostante queste morti dobbiamo essere ancora e sempre capaci di vivere la cosa più importante: vivere anche le nostre morti in prima persona, senza delegare e senza ripiegarci. Giobbe, che pure si sente non solo abbandonato da Dio ma pure ingiustamente perseguitato da Lui, riesce a non perdere il contatto con se stesso, riesce malgrado tutto e attraverso tutto a non deporre e a non abdicare alla propria speranza: <Questa mia speranza è riposta nel mio seno> (19, 27). Noi tutti siamo come dei “Giobbe” che il Signore invia davanti a sé per preparare la strada all’evangelo. Come i <settantadue discepoli> (Lc 10, 1) siamo inviati e invitati a non perderci in chiacchiere, ma a tirare diritto per la strada della testimonianza: <non salutate nessuno lungo la strada> (10, 4) e ancora <non passate di casa in casa> (10, 7). La via dell’evangelo la si spiana con la capacità di non perdersi in chiacchiere e convenevoli, ma nella disponibilità e nella decisione di mostrare fino in fondo il proprio “Io” libero e spoglio da ogni inutile accessorio: <non portate né borsa, né bisaccia, né sandali> (10, 4). Questa povertà di fondo è la garanzia per essere accolti non per quello che portiamo con noi, ma, eventualmente, mettendo in conto di essere decisamente rifiutati per quello che portiamo dentro noi stessi, infitto nella nostra carne e sul nostro volto, impresso <con stilo di ferro sul piombo> (Gb 19, 24) e che si riassume in un solo annuncio testimoniato con la nostra stessa vita: <il regno di Dio è vicino> (Lc 10, 11). Questa vicinanza/prossimità del Regno ha un prezzo: la disponibilità ad attraversare con forza l’esperienza della lontananza “accanita” di Dio. Fino a che non si sperimenta la morsa dei <lupi> (10, 3) i quali cercano di convincerci del valore della forza e fino a quando non sappiamo – fattivamente – contrapporre la natura risorta di <agnelli> non potremo vedere il Regno di Dio, non potremo dire in verità e fino in fondo senza paura alcuna e in piena, splendida e fiera nudità: <Io> (Gb 19, 10).

Trasgressione

Santi Angeli custodi

Il Catechismo della Chiesa Cattolica non dimentica di parlare degli angeli e lo fa in questi termini: <Gli angeli, come gli uomini, creature intelligenti e libere, devono camminare verso il loro destino per una libera scelta e un amore di preferenza>1. Il Concilio Vaticano II, parlando della Chiesa, a sua volta non dimentica di evocare queste figure e lo fa con queste parole: <in comunione con tutta la Chiesa pellegrinante veneriamo gli angeli e innalziamo lodi a Dio che ci conceda il loro potere di intercessione>2. Sembra dunque che gli angeli non siano poi così distanti da noi e che non siano poi così diversi da noi per quelle realtà essenziali che fanno la nostra umana avventura. Come loro, dobbiamo camminare verso una capacità sempre più matura di scegliere e costruire il nostro destino, perché sia segnato da <un amore di preferenza> che non può mai e in nessun modo venire imposto, ma ha bisogno di essere continuamente riscelto. Inoltre, la loro intercessione ci assicura della loro comprensione. Gli angeli comprendono il nostro cammino e la nostra fatica di fedeltà e di amore e si offrono a noi non solo come esempi, ma come alleati e complici del nostro pellegrinaggio di fede, di speranza e di amore. In una parola ci sostengono nel travaglio di corrispondere alla nostra vocazione fondamentale di creature capaci di conservare la memoria del loro Creatore e di vivere secondo la logica del dono di creazione. Questo dono esige l’impegno personale per tutto ciò che ha bisogno di attenzione, di cura, di comprensione… in una parola di custodia.

Nell’Esodo troviamo una parola forte che ci permette di comprendere il senso profondo di questa relazione invisibile e al contempo così sensibile: <Abbi rispetto della sua presenza, dà ascolto alla sua voce e non ribellarti a lui; egli infatti non perdonerebbe la vostra trasgressione, perché il mio nome è in lui> (Es 23, 21). Il Signore Gesù conferma questa parola rivolta dall’Altissimo al suo popolo mentre è in cammino nel deserto e diventa un invito chiaro ad evitare con sommo impegno la più terribile delle trasgressioni: quella di voler primeggiare e di non prendersi cura di ciò che è più piccolo. Con una parola così solenne, il Signore Gesù sembra ricordarci che bisogna stare sempre dalla parte dei più piccoli: <Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli> (Mt 18, 10). Questo stare dalla parte di ciò che è piccolo significa impegnarsi in un cammino di continua conversione per evitare di cadere nella trasgressione madre di tutte le trasgressioni che si esprime in quella domanda dei discepoli che abita pure il nostro cuore di discepoli: <Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?> (Mt 18, 1). La memoria degli angeli ci aiuta a non proiettare sul cielo le nostre domande e le nostre angosce, ma ad accogliere sulla terra delle nostre relazioni la logica di cui gli angeli vivono in cielo partecipando così alla loro serenità e alla loro gioia.


1. Catechismo della Chiesa Cattolica, 311.

2. Lumen Gentium, 49.

Preparare

XXVI settimana T.O.

Ciò che il Signore chiede ai suoi discepoli è ciò che chieda ancora alla sua Chiesa nell’oggi della storia: <preparargli l’ingresso> (Lc 9, 52). Perché questo possa realmente ed efficacemente avvenire bisogna che i discepoli si lascino ispirare dal Maestro che <Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme> (9, 51). Il Signore decide di camminare decisamente verso il compimento della sua missione nel mistero pasquale che si sarebbe consumato a Gerusalemme. Come discepoli dobbiamo ogni giorno investire il meglio delle nostre energie nel preparare la strada perché la rivelazione di un così grande amore non cada nel vuoto, ma penetri la terra della nostra umanità fino a radicarsi per germogliare e fruttificare. Per questo – verrebbe da dire solo per questo – la Chiesa è ancora in cammino nella storia ed è chiamata, giorno dopo giorno, a preparare il passaggio del Signore nella vita degli uomini che consuma il tempo dell’attesa e lo apre a quello del compimento.

In questo lavoro di preparazione, Giobbe si fa maestro di sapienza perché modello di pazienza capace di affrontare con decisione le esigenze del proprio cammino di vita non accusando mai nessuno se non se stesso fino a dire: <Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: “E’ stato concepito un maschio”> (Gb 3, 3). L’atteggiamento di Giobbe rende ancora più facile cogliere la differenza radicale tra lo stile del Signore e la reazione dei discepoli: <Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?> (Lc 9, 54). Alcuni antichi manoscritti completano la reazione del Signore al bisogno di Giacomo e Giovanni di punire i samaritani con una parola che suona così: <Voi non sapete di quale spirito siete perché il Figlio dell’uomo non è venuto per perdere le vite degli uomini, ma per salvarle>. Questa salvezza che i discepoli sono chiamati a preparare e ad accompagnare viene vissuta in prima persona dal Signore Gesù con la sua disponibilità ad essere <elevato in alto> (9, 51) con la sua crocifissione. Ciò che il Signore ha appena insegnato ai suoi apostoli lo vive in prima persona e con assoluta intensità: non bisogna sospettare, ma scusare e dare tempo! L’evangelista Luca parla di <ferma decisione> e in questo modo mette in evidenza, attraverso la sacralità del viaggio di Gesù a Gerusalemme, la profondità del suo orientarsi verso il compimento della sua Pasqua che rappresenta l’inizio e l’indizio di ogni possibile esperienza di salvezza. In tal modo l’evangelista pensa alla croce e alla risurrezione/ascensione come unico atto del medesimo amore che si abbassa e si fa servo. 

In conclusione, potremmo dire che il Signore ha portato a compimento il suo cammino fino a dare la sua vita come atto d’amore gratuito e unilaterale che non ammette né discussione né comparazioni. Ora tocca a noi come discepoli e come Chiesa: preparare sì, ma con delicatezza e senza colpi di testa ma con decisione e con stile… naturalmente stile evangelico.

Vicino

XXVI settimana T.O.

La reazione del Signore Gesù alla <discussione> (Lc 9, 46) avvenuta tra i suoi discepoli i quali pensavano e forse speravano che il Maestro non se ne accorgesse, prima di essere una parola è un gesto: <prese un bambino, se lo mise vicino> (9, 47). Questo gesto, in realtà, è duplice perché se è vero che questo bambino si ritrova ad essere così vicino a Gesù è anche vero che Gesù vuole ritrovarsi così vicino a questo bambino che sembra preso dalla folla senza nessuna particolare segnalazione né selezione. Con questo gesto cui segue una parola tra le più importanti per il nostro cammino di discepoli e di Chiesa, il Signore Gesù prima di tutto accoglie il bisogno che ciascuno dei suoi discepoli ha di essere <più grande> che, per loro, significava riuscire a dirsi chi era più vicino al Maestro e chi, forse, era destinato a succedergli nella guida del gruppo. A quest’ansia di prestazione e a questo comprensibile bisogno di riconoscimento, il Cristo risponde con una sorta di semplificazione assoluta: <Chi accoglierà questo bambino nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Chi infatti è il più piccolo fra tutti voi, questi è grande> (9, 48).

La liturgia ci obbliga a leggere queste parole del Signore Gesù dopo aver cominciato la lettura del libro di Giobbe che si conclude quest’oggi con una frase portentosa: <In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di ingiusto> (Gb 1, 22). Giobbe è sicuramente un uomo che corrisponde al modello proposto dal Signore Gesù ai suoi discepoli proprio perché accetta di farsi interpellare dalla vita nei suoi momenti più gradevoli come in quelli più dolorosi e incomprensibili con una semplicità che gli permette di subire la prova senza essere disumanizzato dal dolore. Davanti alla sequenza di terribili drammi che avrebbero reso comprensibile almeno un minimo di rivolta, Giobbe dice così: <Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore> (1, 21).

La prova più grande che Giobbe dovrà affrontare sembra non essere quella della sofferenza, bensì la resistenza che dovrà opporre ai suoi tre amici e al saccente Eliu che cercheranno in tutti i modi di indurlo a dubitare di se stesso e di strapparlo così alla sua semplicità che gli permette di accogliere nella vita i momenti più belli unitamente a quelli più dolorosi con quella serenità con cui si accetta di vincere o di perdere in un gioco. Il Signore Gesù cerca di aiutare i suoi discepoli a rettificare il loro modo di pensare alla vita. Invece di essere continuamente preoccupati di come saremo accolti e stimati, siamo chiamati ad accogliere così da imparare a lasciarci accogliere. Giovanni tenta di cambiare discorso forse per superare il rossore della vergogna e cita la questione di questi esorcisti che si fanno forti del nome di Gesù senza essere formalmente suoi discepoli e rischiando così di allargare in numero dei concorrenti. La risposta del Signore è, ancora una volta, chiara, serena, semplificante: <Non lo impedite, perché chi non è contro di voi, è per voi> (Lc 9, 50). Come spiega Ermes Ronchi: <Gesù, uomo senza frontiere, ci ripropone il sogno di un mondo di uomini le cui mani sanno solo donare, i cui piedi percorrono i sentieri degli amici, un mondo dove fioriscono occhi più luminosi del giorno, dove tutti sono dei nostri, tutti amici del genere umano, e per questo tutti amici di Dio>.

Semi

XXVI Domenica T.O.

La reazione di Mosè è un’indicazione e un orientamento per ciascuno di noi e per la Chiesa tutta: <Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito?> (Nm 11, 29). La reazione di Mosè alla presa di posizione di Giosuè può illuminare il cammino della nostra Chiesa in relazione ai “semi del Verbo” – come amavano dire i santi Padri – che sono disseminati nel cuore di tutti gli uomini. Questi semi producono i loro fiori nelle religioni, nelle credenze, nelle culture e negli aneliti di bellezza che attraversano, come un filone d’oro sotterraneo, la storia dell’umanità attraverso le storie degli uomini e delle donne di ogni luogo e di ogni tempo. Non si tratta in nessun modo di relativizzare la verità o di omologare ogni effluvio della verità con la sua essenza: talora il vento porta lontano profumi e aromi la cui origine remota resta segreta. Se non bisogna relativizzare, nondimeno sembra proprio che il Signore ci inviti a non assolutizzare noi stessi identificando l’essenza con l’esperienza. Per questo il Signore reagisce energicamente: <Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi> (Mc 9, 39-40). Naturalmente, non è facile distinguere il limite tra il relativizzare e l’assolutizzare. Per questo il Signore stesso sembra darci un criterio di discernimento che non è teorico, ma assai concreto: <Chiunque, infatti, vi darà un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità, io vi dico, non perderà la sua ricompensa> (9, 41). Mentre Giovanni chiede al suo Maestro di impedire ad altri di appropriarsi del suo nome <perché non ci seguiva> (9, 38), il Signore Gesù risponde dando un criterio di discernimento circa l’appartenenza alla cerchia dei suoi discepoli. Esso non è affatto ideologico, ma la condivisione profonda di atteggiamenti inequivocabili per la loro qualità di umanità e di carità. Il nostro è un <Dio geloso> nella sua infinita misericordia e nel suo immenso amore per ogni creatura: <Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita. Poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose> (Sap 11, 26). Allora la preghiera di ogni discepolo del Maestro Gesù non può che essere l’umile richiesta di essere capaci di ammirato stupore per essere liberato da ogni forma di gelosia che è un <grave peccato> quello – imperdonabile – di voler dirigere lo Spirito dell’Altissimo. Si rende necessario apprendere la gelosia di Dio che difende sempre e ad ogni costo l’autonomia, la libertà, la creatività e la crescita delle sue creature create <a sua immagine e somiglianza>. Non ci capiti di dimenticare il proverbio: <Chi ha raccolto il vento nel suo pugno?> (Pr 30, 4). 

Semences

XXVI Dimanche du T.O. 

La réaction de Moïse est une indication et une orientation pour chacun de nous et pour toute l’Eglise : ” Es-tu donc jaloux pour moi ? Plût à Dieu que tout le peuple fût prophète et que le Seigneur mît son esprit sur eux ! ” ( Nm 11, 29 ). La réaction de Moïse face à la prise de position de Josué peut illuminer le chemin de notre Eglise en relation aux ” semences du Verbe ” – comme aimait le dire les saints Pères – qui sont disséminées dans le coeur de tous les hommes. Ces semences produisent leurs fleurs dans les religions, les croyances, les cultures et les désirs de beauté qui , comme un filon souterrain d’or, traversent l’histoire de l’humanité, à travers les histoires des hommes et des femmes de tous lieux et de tous temps. Il ne s’agit d’aucune façon de relativiser la vérité ou d’homologuer chaque effluve de la vérité avec son essence : le vent alors emporte au loin les parfums et les arômes dont l’origine lointaine reste secrète. S’il ne faut pas relativiser, il semble pourtant que le Seigneur nous invite à ne pas absolutiser en identifiant l’essence avec l’expérience. Pour cela, le Seigneur réagit énergiquement : ” Ne le lui interdisez pas, car personne ne fait un miracle en mon nom et, aussitôt après parle mal de moi : qui n’est pas contre nous est pour nous ” ( Mc 9, 39-40 ). Naturellement, il n’est pas facile de distinguer la limite entre relativiser et absolutiser. Pour cela, le Seigneur lui-même semble nous donner un critère de discernement qui n’est pas théorique, mais assez concret : ” Car quiconque vous donnera un verre d’eau en mon nom, parce que vous êtes du Christ, je vous le dis en vérité, il ne perdra pas sa récompense ” ( 9, 41 ). Pendant que Jean demande à son Maître d’empêcher les autres de s’approprier son nom  ” car ils ne nous suivaient pas ” ( 9, 38 ), le Seigneur Jésus répond en donnant un critère de discernement concernant l’appartenance au cercle de ses disciples. Ceci n’est pas un fait idéologique, mais le partage profond d’attachement irrévocables par leur qualité d’humanité et de charité. Notre Dieu est un ” Dieu jaloux ” dans son infinie miséricorde et dans son immense amour pour chaque créature : ” Tu es indulgent avec toute chose, car ce sont les tiennes, Seigneur, amoureux de la vie. Parce que ton esprit incorruptible est dans toute chose ” ( Sg 11, 26 ). Alors la prière de chaque disciple du Maître Jésus ne peut qu’être l’humble demande d’être capable d’un étonnement admirable pour être libérer de toute forme de jalousie qui est un ” péché grave “celui – impardonnable – de vouloir diriger l’Esprit du Très-Haut. Il est nécessaire d’apprendre la jalousie de Dieu qui défend toujours et à tous les coups l’autonomie, la liberté, la créativité et la croissance de ses créatures créees ” à son image et à sa ressemblance “. Qu’il ne nous arrive pas d’oublier le proverbe : ” Qui a rassemblé le vent dans le creux ses mains ? ” ( Pr 30, 4 ).

Timore

XXV settimana T.O.

È come se un doppio <timore> (Lc 9, 45) abitasse il nostro cuore. Il timore di dover seguire il Signore Gesù sulla via dell’umiliazione e del rifiuto e il timore di dover continuamente scegliere di acconsentire alle parole del Qoèlet che sembrano dire esattamente il contrario: <Godi, o giovane, nella tua giovinezza, e si rallegri il tuo cuore nei giorni della tua gioventù> (Qo 11, 9). Il testo del Qoèlet continua con una doviziosa descrizione di quello che è il disfacimento del corpo fino alla sua morte. Eppure, la memoria dei <giorni tristi> (12, 1) o, meglio ancora, il saper mettere in conto i tempi più difficili dell’esistenza, diventa per Qoèlet un motivo forte per saper vivere e bere fino in fondo il calice della giovinezza con gratitudine, senza mai anticipare la morte e non senza, però, dimenticare di prepararla saggiamente.

Nel Vangelo, il Signore Gesù proprio <mentre tutti erano ammirati di tutte le cose che faceva> (Lc 9, 43), invita i suoi discepoli a non cedere al fascino dei suoi gesti, ma ad aprirsi profondamente e veramente al loro significato più vero e profondo, maturando la capacità di accogliere ed assumere le conseguenze dei suoi gesti d’amore e di tenerezza, di predilezione per i più poveri e i più sfortunati: <Mettetevi bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini> (9, 44). Dietro questo grave annuncio si cela un annuncio ancora più grande: l’amore si consegna e sa godere e gioire fino in fondo della propria disponibilità e volontà di darsi. Tutto ciò non può non incutere timore, eppure tutto ciò dovrebbe far maturare in noi un desiderio e una capacità di amore sempre più grande, tanto da essere in grado di assumere le conseguenze più dure e difficili.

La nostra vita è un passaggio che, solo alla sequela del Signore Gesù, può trasformarsi in una vera Pasqua. Il primo passo è proprio quello di assumere la logica della Pasqua senza timore e nella libertà del cuore. Mentre i discepoli non <ne coglievano il senso e avevano timore di interrogarlo su questo argomento> (Lc 9, 45), a noi è richiesto di dialogare con Gesù – come fecero Mosè ed Elia sul monte della trasfigurazione – del suo e del nostro <esodo> (9, 31). La saggezza che propone il Signore non garantisce né il successo e neanche quella riconoscenza e riconoscimento che ci aspetteremmo giustamente dai nostri fratelli. Il Signore <ha fatto risplendere la vita per mezzo del Vangelo> (2Tm 1, 10 – Canto al Vangelo) e questo vangelo si riassume in una parola: <Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini> (9, 44). E noi con Lui se vogliamo essere come Lui siamo chiamati a superare anzi assumere quel <timore> (Lc 9, 45) che attraversa il cuore e la mente dei discepoli. Come loro siamo chiamati a confrontarci con la decisa presa di posizione del Signore Gesù davanti al mistero della propria vita offerta fino all’ultimo e senza nessun ripensamento.

I tempi di Gesù

XXV settimana T.O.

Il Signore Gesù ha bisogno di un <luogo solitario> dove metabolizzare in modo profondo e assolutamente nuovo la realtà che sta diventando per gli altri. L’evocazione della morte del Battista è particolarmente sobria nel Vangelo secondo Luca e senza che si scenda nei particolari che, invece, sembrano essere stati totalmente affidati al racconto della sua concezione e della sua nascita. Le parole atterrite di Erode: <Giovanni è risorto dai morti> (Lc 9, 7) sembrano trasformarsi nel cuore e nell’orante meditazione di Gesù fino a diventare una sorta di strada da percorrere. Il Signore si ritira in solitudine e da questa solitudine esce con una chiarezza e una consapevolezza tutta da sentire e tutta da condividere con i suoi discepoli: <Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno> (9, 22). Sembra che il Signore si conformi in tutto alla sapienza del Qoèlet e ripercorra – non nella forma del passato, ma in quella del futuro – ognuno dei passi che lo attende con una passione e una dedizione assolute.

Se è vero che <Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo>, questo diventa vero nella misura in cui sappiamo accogliere il mistero della nostra vita e ne accettiamo i tempi, i modi, gli incidenti, i fallimenti come pure le gioie e i successi. Sembra che il Signore Gesù senta il bisogno di raccontare – a se stesso e ai suoi discepoli – la scaletta del suo salire verso Gerusalemme. Questa salita è una vera ascensione che culmina in quel chiaro <risorgere il terzo giorno> che però non può darsi senza passare per i due giorni che lo precedono e lo preparano. Qoèlet lo ricorda come un’evidenza cui doversi necessariamente arrendersi: <C’è un tempo per nascere e un tempo per morire> (Qo, 3, 2). Tuttavia questo naturale avvicendarsi delle stagioni e degli stadi della vita non è solo un’evidenza, esige pure un’accoglienza e una scelta che libera dalla tentazione di subire, piuttosto che di acconsentire in modo consapevole e coraggioso.

Il Signore ha scelto di accogliere il dinamismo pasquale nella sua vita e vuole aiutare i suoi discepoli a fare altrettanto. Per fare questo il primo passo è porre loro una domanda, e il secondo è quello di illuminare la risposta che se è esatta, va comunque ben compresa e radicalmente purificata: <Ma voi, chi dite che io sia?> (Lc 9, 20). Certo la risposa degli apostoli ha la sua importanza soprattutto perché rende possibile quel necessario e fondamentale chiarimento del Signore sul suo cammino pasquale, ma la domanda di Gesù conserva tutta la sua preziosità perché rivela una relazione con i discepoli che non è unilaterale, ma veramente reciproca. Il Signore è un Maestro che ascolta, interroga, interpreta gli avvenimenti e si lascia interpellare persino dagli incidenti di percorso, tanto da rendere ancora più vera la parola del Qoèlet: <Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, inoltre ha posto nel loro cuore la durata dei tempi, senza però che gli uomini possano trovare la ragione di ciò che Dio compie dal principio alla fine> (Qo 3, 11).

Novità?

XXV settimana T.O.

Le parole del Qoèlet sembrano incontrovertibili e indiscutibili: <C’è forse qualcosa di cui si possa dire: “Ecco questa è una novità”?> (Qo 1, 10). Tra re forse ci si intende molto più di quanto si possa immaginare e desiderare, per cui forse un’affermazione come questa avrebbe incontrato il favore e l’approvazione del tetrarca Erode, tremendamente imbarazzato davanti a tutto ciò che sente dire di Gesù e ancor più ossessionato dal ricordo del suo modo infame di sbarazzarsi del Battista. Eppure, con buona pace di Salomone, possiamo dire che in Gesù, nella sua parola e nei suoi gesti, siamo posti veramente dinanzi al mistero di una <novità> che non ha niente a vedere con la curiosità, ma esige un rinnovamento radicale della nostra vita. L’evangelista Luca annota che Erode <non sapeva cosa pensare> (Lc 9, 7) e, in realtà, è proprio questo il dramma del re che continua ad immaginare il mondo a partire dal suo palazzo e dal suo trono, senza lasciarsi interpellare veramente da ciò che la vita gli richiede come scatto di consapevolezza e di conversione.

La nota con cui si conclude il Vangelo ha una sua bellezza: <E cercava di vederlo> (9, 9). Sarà la stessa cosa che starà a cuore a Zaccheo mentre si arrampica come un bambino sul sicomoro per vedere Gesù. La differenza tra Erode e Zaccheo sta nella disponibilità o meno a farsi vedere da Gesù, fino a lasciarsi cambiare dall’incontro con Lui. Chissà, forse, il Signore avrebbe persino accettato di incontrare il re Erode non essendosi mai sottratto a nessun invito con una capacità di sedere alla mensa della vita di chiunque. In realtà Erode cerca di vedere Gesù, ma senza maturare nel proprio cuore la disponibilità a perdere il controllo – peraltro così illusorio – della vita sua e del mondo che lo circonda. Questo bisogno di controllo e di autorassicurazione induce, suo malgrado, il re Erode a non immaginare e a non aspettarsi nulla di nuovo. Sulle sue labbra persino la risurrezione perde tutta la sua capacità di insurrezione contro la morte di ciò che è scontato e che è “déjà vù”. L’unica cosa di cui Erode è certo è che: <Giovanni, l’ho fatto decapitare io>!

Pertanto, il re dimentica che <decapitare> è una cosa ed eliminare è un’altra! In realtà, ciò che turba il cuore di Erode è una sottile consapevolezza che l’aver fatto giustiziare Giovanni non ha significato far tacere la sua voce, ma l’ha resa persino più inquietante, perché essa ormai disturba non più le stanze del palazzo ma quelle, ben più segrete, del suo cuore malato. Se tra re sempre un po’ ci si intende, allora la parola del Qoèlet può essere applicata benissimo a Erode: <Quale guadagno viene all’uomo per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole?> (Qo, 1, 3). Soprattutto quando questa fatica consiste nel cercare in tutti i modi di preservare il proprio mondo, condannandolo così a un fallimento certo. La <novità> (1, 10) che il Signore Gesù annuncia è proprio la possibilità per tutti di poter cambiare fino a dare alla propria vita un orientamento talmente nuovo da essere capace di guarirci fino alla radice della nostra personalità, liberandoci dalle catene del passato che rischia di diventare un incubo. Questo esige un assenso… non impossibile, ma forse troppo costoso per la nostra immagine! Eppure, questo è il prezzo della pace e della serenità. Il rischio è sempre quello di decapitare la verità per salvare un onore effimero.

Nulla

XXV settimana T.O.

La consegna del Signore Gesù ai Dodici è duplice: <diede loro forza e potere su tutti i demòni e di guarire le malattie> (Lc 9, 1). Per gli antichi ogni malattia – sia psichica che fisica – è legata all’azione devastante di un demonio ed è per questo che tutti sono consapevoli di avere bisogno di aiuto per poter essere liberati da ciò che turba e avvilisce la vita. Questo aiuto non può essere semplicemente un rimedio che tenti di guarire il male particolare che sperimentiamo, ma ogni volta che si cura un sintomo si ha di mira la guarigione di tutta la persona. Per questo il Vangelo continua così: <E li mandò ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi> (9, 2). Come ci ricorda la prima lettura: <Ogni parola di Dio è purificata nel fuoco; egli è scudo per chi in lui si rifugia> (Pr 30, 5). Questo vale per tutti e vale sempre ed è stata un’esperienza che gli stessi apostoli hanno dovuto assumere nel loro cammino di fede e, naturalmente, è un processo che ci riguarda personalmente e come Chiesa se vogliamo – realmente – continuare ad essere testimoni credibili e annunciatori accettabili del Vangelo.

Per questo il Signore Gesù invece di mettere nelle mani dei suoi apostoli un kit da pronto intervento o di iscriverli ad un corso paramedico, li spoglia ulteriormente rendendoli così ancora più liberi ed essenziali: <Non prendete nulla…> (Lc 9, 3). Non possiamo nasconderci che questo <nulla> ci spaventa non poco. Ciascuno di noi mettendosi in cammino o cominciando un viaggio per prima cosa prepara i bagagli o prende tutto ciò che gli può servire per portare a termine con successo una missione di lavoro o semplicemente per non fare brutta figura. Chi di noi non mette nel proprio zaino o nella propria borsetta quello che “potrebbe servire”, fosse anche una crema o qualche analgesico… naturalmente che potrebbe venire utile a qualcun altro! È difficile non attrezzarsi e non premunirsi.

Il Signore Gesù ci chiede di non attrezzarci e di non premunirci, ma di rischiare e di esporci tanto da permettere ai nostri fratelli e sorelle in umanità di lasciarsi toccare da quell’annuncio che prima di essere un contenuto è una forma di vita e una testimonianza. Solo così si può immaginare un modo possibile di stare al mondo, sottratto – guarito sarebbe meglio dire – dalle logiche mondane del successo, dell’autoaffermazione e della continua rassicurazione che può trasformarsi, inconsapevolmente, in una sorta di immunizzazione dalla vita. Il libro dei Proverbi ci esorta nella medesima direzione di essenzialità e di leggerezza: <Non aggiungere nulla alle sue parole> (Pr 30, 6). Al contempo mette sulle nostre labbra le parole giuste capaci di esprimere l’atteggiamento giusto nei confronti della vita: <non darmi né povertà né ricchezza> (30, 8). Naturalmente questo non vale solo a livello materiale, ma pure a livello esistenziale e spirituale. Il primo segno con cui siamo chiamati ad annunciare il Vangelo non è quello di dare e portare qualcosa, ma il fatto di presentarci serenamente poveri e bisognosi di essere accolti e accuditi. Questo dovrebbe infondere il coraggio anche agli altri di riconoscere i loro bisogni, fino ad essere guariti dalla terribile malattia dell’autosufficienza che isola fino ad uccidere. Così, paradossalmente, il <nulla> diventa la condizione del tutto!