La vera natura

XXIX Domenica T.O.

La brama di potere, di supremazia, di privilegi non sono dei desideri, ma delle vere e proprie malattie. Questa bramosia non corrisponde alla nostra natura, bensì un vero e proprio s-naturamento di ciò che siamo in realtà. Infatti, noi tutti siamo creati ad immagine del <Servo del Signore> (Is 53, 2) i cui tratti sono – secondo la prima lettura – quelli della mansuetudine e del servizio come conferma lo stesso Signore-Servo: <il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti> (Mc 10, 45). Il Signore Gesù ci vuole guarire da quel male oscuro che si impadronisce di noi stessi fino a renderci ciechi su noi stessi. Infatti, la cosa essenziale non è paragonarci gli uni agli altri, ma di stare davanti alla rivelazione della <grazia> (Eb 4, 16) di colui che è <stato messo alla prova in ogni cosa> (4, 15) e che <ben conosce il patire> (Is 52, 3). Il più grande pericolo in cui potremmo incorrere come discepoli sarebbe proprio quello di <prendere gloria gli uni dagli altri> (Gv 5, 44) ritrovandoci infine non solo a mani vuote ma, ancor più gravemente, con il cuore pieno di amarezza. Il Signore Gesù ci convoca tutti insieme e ci invita a tenere <fisso lo sguardo> (Eb 12, 2) su di Lui per imparare da Lui <mite e umile di cuore> (Mt 11, 32). Infatti, questo sguardo pieno di compassione ci permette di guarire dalla paura della nostra nudità, della nostra povertà, della nostra vulnerabilità…del nostro essere ignoranti di noi stessi e, così spesso, della nostra stessa felicità. Il Signore Gesù non si scandalizza delle nostre richieste sconsiderate e neppure ci rimprovera. Anzi, quale <sommo sacerdote> (Eb 4, 14) egli sempre <si addosserà> le nostre <iniquità> (Is 53, 11) per restituirci alla nostra originale innocenza quando all’uomo – appena creato – Dio affidò lo splendido giardino del mondo perché lo <servisse e custodisse> (Gn 1, 28) come il sommo sacerdote fa nel Tempio. Accogliamo con gioia e con gratitudine l’evangelo che il Signore vuole che sia annunciato fino agli estremi confini della terra: <fra voi non è così> (Mc 10, 43). Se infatti guardiamo bene nel nostro cuore siamo, in realtà, più felici quando serviamo di quando siamo serviti. Questo perché siamo stati creati ad immagine del Figlio che <non ritenne un privilegio l’essere come Dio ma svuotò se stesso> (Fil 2, 6-7). Perciò imploriamo con fede il Signore, come ben presto farà il cieco Bartimeo, e con rinnovato coraggio, invece di arrampicarci mettiamoci ai piedi del Signore e cantiamo: <Su di noi sia il tuo amore, Signore, come da te noi speriamo> (Sal 32, 22). Una poesia può accompagnarci nella contemplazione lungo le ore di questa domenica: <Ha scelto il posto più umile, e la sua livrea non è quella di un re! Lasciategli il suo ruolo di schiavo, comprendete a quale legge obbedisce e quale amore lo divora>.

La vrai nature

XXIX Dimanche du T.O. 

La soif du pouvoir, de la suprématie, des privilèges, n’est pas un désir, mais une véritable maladie à part entière. Cette convoitise ne correspond pas à notre nature, mais plutôt à une vraie dé-naturation de ce que nous sommes en réalité. En effet, nous sommes tous crées à l’image du ” Serviteur du Seigneur ” ( Is 53, 2 ) dont les traits sont – selon la première lecture – ceux de la mansuétude et du service comme le confirme le Seigneur-Serviteur lui-même : ” Le Fils de l’homme en effet, n’est pas venu pour se faire servir, mais pour servir et donner sa propre vie en sacrifice pour tous ” ( Mc 10, 45 ). Le Seigneur Jésus veut nous guérir de ce mal obscur qui s’empare de nous jusqu’à nous rendre aveugles sur nous-mêmes. En effet, la chose essentielle n’est pas de nous comparer les uns aux autres, mais de rester face à la révélation de la ” grâce ” ( He 4, 16 ) de celui qui ” a été mis à l’épreuve en toute chose ” ( 4, 15 ) et qui connaît bien ” la souffrance ( Is 52, 3 ). Le plus grand danger que nous pourrions courir comme disciples, serait vraiment celui de ” prendre gloire les uns des autres ” ( Jn 5, 44 ) en nous retrouvant, à la fin, non seulement les mains vides, mais, plus gravement encore, avec le coeur plein d’amertume. Le Seigneur Jésus nous convoque tous ensemble et nous invite à garder ” le regard fixe ” ( He 12, 2 ) sur Lui pour apprendre de Lui ” doux et humble de coeur ” ( Mt 11, 32 ). En effet, ce regard plein de compassion nous permet de guérir de la peur de notre nudité, de notre pauvreté, de notre vulnérabilité…de notre manière d’être ignorants de nous-mêmes, et, si souvent, de notre bonheur même. Le Seigneur Jésus ne se scandalise pas de notre demande inconsidérée et il ne nous en veut pas. Et même, ce “grand Prêtre ” ( He 4, 14 ) ” endossera ” toujours nos ” iniquités ” ( Is 53, 11 ) pour nous  restituer l’innocence originale de l’homme – à peine crée -. Dieu confia le splendide jardin du monde pour que nous le ” servions et le protégions ” ( Gn 1, 28 ) comme le grand Prêtre le fait au Temple. Accueillons donc avec joie et gratitude l’évangile que le Seigneur veut que nous annoncions jusqu’aux extrémités de la terre, alors : “il ne doit pas en être  ainsi parmi vous ” ( Mc 10, 43 ). Pourtant, si nous regardons bien dans notre coeur, nous sommes, en réalité, plus heureux lorsque nous servons que lorsque nous sommes servis. Ceci parce que nous avons été créés à l’image du Fils qui ” ne considère pas comme un privilège d’être comme Dieu, mais Il s’anéantit lui-même ” ( Ph 2, 6-7 ). Implorons donc avec foi le Seigneur, comme le fera l’aveugle Bartimée avec un courage renouvelé, au lieu de nous hisser, mettons-nous aux pieds du Seigneur et chantons : ” Que ton Amour soit sur nous, Seigneur, comme notre espérance est en toi ” ( Ps 32, 22 ). Une poésie peut nous accompagner pour la contemplation pendant les heures de ce dimanche : ” Il a choisi la place la plus humble, et son vêtement n’est pas celui d’un roi ! Laissez-lui son rôle d’esclave, vous comprendrez à quelle loi il obéit et quel Amour le dévore “. 

Momento

XXVIII settimana T.O.

Il Signore Gesù fa una promessa solenne ai discepoli di ogni tempo: <lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire> (Lc 12, 12). La solennità della promessa che ci viene dal Signore per essere efficace deve sposarsi con la nostra disponibilità generosa e fiduciosa a vivere il momento presente senza troppo preoccuparci e, soprattutto, senza troppo premunirci. Il Maestro non ci promette di essere risparmiati dalle prove della vita e ancor meno da quelle della fede: <vi porteranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità> (12, 11). L’oggetto della promessa del Signore è di darci tutti i mezzi interiori per trovare le parole e i gesti adeguati per dare testimonianza fino in fondo al <Figlio dell’uomo> (12, 10). L’uso di questa immagine e di questo titolo da parte del Signore Gesù per parlare di se stesso ci porta direttamente al cuore del suo mistero pasquale in cui siamo chiamati a inabissarci e ad identificarci.

L’apostolo Paolo si rallegra profondamente <avendo avuto notizia della vostra fede nel Signore Gesù e dell’amore che avete verso tutti i santi> (Ef 1, 15). Dicendo questo siamo messi di fronte all’asse cartesiano della nostra vita di discepoli: la fede che si manifesta nell’amore. Questo ci aiuta a cogliere meglio che cosa significhi vivere il momento presente con fiducia e generosità. Infatti non c’è nessuna situazione, anche la peggiore che si possa immaginare, che ci possa realmente impedire di essere nella condizione di manifestare la nostra fede attraverso un amore adeguato alle circostanze e alle persone che quotidianamente incontriamo sulla nostra strada. La certezza più profonda che abita la nostra vita di credenti è di non avere bisogno né di preoccuparci né di discolparci (Lc 12, 11), ma solo di testimoniare la nostra fede in Dio attraverso una capacità sempre nuova di rinnovare la nostra fiduciosa alleanza con i nostri fratelli e le nostre sorelle.

Resistere a questo dinamismo interiore sarebbe come tagliare la radice della nostra fondamentale relazione con Dio non credendo alla sua promessa di essere dentro di noi per accompagnarci in ogni <momento> della nostra vita. Per il Signore Gesù questo sarebbe il peccato che <non sarà perdonato> (12, 10). Infatti, tutto può e deve essere perdonato, ma la via del perdono viene sbarrata se non crediamo più all’altro, non ci fidiamo più dell’Altro che vive e opera dentro il nostro cuore. La preghiera di Paolo può diventare la nostra stessa preghiera: <illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia della sua forza e del suo vigore> (Ef 1, 19). 

Però

XXVIII settimana T.O.

La prima lettura ci fa entrare con una tenerezza sofferta nella festa dell’evangelista Luca che, come discepolo dell’apostolo Paolo, è stato capace per così dire di mettere nero su bianco l’esperienza e il travaglio del suo maestro e iniziatore alla vita discepolare. In pochi versetti, siamo messi di fronte alle gioie e alla sofferenza della testimonianza al Vangelo che accompagna la vita di chiunque accetti con autenticità di fare della propria vita un servizio di annuncio. Paolo non ha timore nel dichiarare che <Dema mi ha abbandonato> (2Tm 4, 10) come pure che <Nella mia difesa in tribunale nessuno mi ha assistito tutti mi hanno abbandonato> (4, 16). Seppure l’apostolo con semplicità e chiarezza evochi i travagli del suo ministero non ne dimentica le gioie che sono rafforzate proprio da queste esperienze dure. Queste gli permettono di sentire in modo ancora più forte e sensibile la gioia della comunione nell’apostolato cui è sottesa una vera fraternità fatta di complicità pastorale, ma prima di tutto di autentico affetto umano che si esprime in quel toccante sussulto che gli fa dire: <Solo Luca è con me> (4, 11).

La conclusione della prima lettura di questa festa ci apre in modo del tutto naturale ad accogliere la sfida di essere discepoli capaci di riprendere ogni giorno la strada dell’annuncio e della testimonianza: <Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero> (4,17). In questo <però> così eloquente si esprime il travaglio di ogni discepolo di essere testimone generoso ed esigente senza mai essere petulante e colpevolizzante. Per questo la consegna del Signore a quanti invia davanti a sé per preparare il terreno all’accoglienza della sua parola suona in questi termini: <In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”> (Lc 10, 5). Si potrebbe riassumere così: però prima di annunciare il Vangelo bisogna saperne riconoscere la presenza della grazia che salva che è già là dove pensiamo di portarla.

Oggi facciamo memoria di questo discepolo che è stato in grado di farci percepire il volto di Cristo con pennellate di colori forti e dolci al contempo e capaci, comunque, di scaldare il cuore. L’evangelista della nascita di Cristo e della Chiesa si rivela capace di darci il gusto degli inizi facendoci sentire in modo densissimo il profumo terapeutico e rigenerante della fecondità degli inizi che possono ritrovare la loro freschezza attraverso la gioia di sperimentare il dono di un perdono sempre possibile. La penna di Luca traccia i contorni di un volto di Cristo che riconosce in ogni volto un riflesso amabile dello stesso volto del Padre. In compagnia e alla scuola di Luca impariamo non solo a contemplare il volto di Dio nei tratti dolcissimi e amabili del volto di Cristo, ma impariamo altresì a vedere noi stessi come Dio ci vede. In tal senso la lettura del vangelo è sempre una scuola di contemplazione che, secondo l’intuizione di Luca, non è mai contemplazione mistificata, ma è sempre mediata attraverso la capacità di porre il proprio sguardo sulla croce del Signore come icona di ogni umana sofferenza che richiede l’estrema compassione dell’amore.

Chiave

XXVIII settimana T.O.

Nei giorni che precedono immediatamente il Natale, la Liturgia ci fa invocare l’Avvento del Salvatore invocandolo come <chiave di Davide>! Quest’oggi, riascoltando l’amara invettiva del Signore contro la durezza ottusa dei farisei, possiamo veramente invocarlo come quella chiave che non abbiamo e che non siamo offrendoci a Lui come una misera serratura che ha bisogno di essere ora aperta e ora chiusa. Le parole del Signore non ci lasciano certo dormire in pace: <Guai a voi, dottore della Legge, che avete portato via la chiave della conoscenza; voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare voi l’avete impedito> (Lc 11, 52). Lasciamo dunque che la chiave della misericordia, dell’intelligenza, dell’amore che è Cristo divenga la chiave di volta e il segreto fondamento di tutta la nostra vita. Proprio come ricorda l’apostolo: <In lui, mediante il suo sangue, abbiamo al redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia> (Ef 1, 7). Siamo così invitati a renderci conto di come l’unica chiave che può aprire tutte le serrature è proprio la croce del Signore Gesù. Con questa chiave siamo chiamati a far saltare tutte le chiusure del nostro cuore per essere capaci di un’accoglienza generosa sconosciuta a quei farisei che lo trattano <in modo ostile… per sorprenderlo in qualche parola uscita dalla sua stessa bocca> (Lc 11, 53-54).

Un elemento “chiave” del nostro cammino spirituale è proprio quello di accettare di rompere con la logica che va avanti da <Abele> (11, 51) fino ai nostri giorni, tanto da non riuscire a sentire per l’altro, chiunque esso sia, un rispetto assoluto. Le parole di Gesù ci ripresentano sub contrario le stesse beatitudini e così ci obbligano ad aprire il nostro cuore alla stessa intelligenza di Dio che è infinita misericordia e amore senza fondo come ci ricorda poeticamene e con veemenza l’apostolo Paolo quando dice quasi cantando: <Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo…> (Ef 1, 3). Paolo ci fa entrare nella logica e nella follia del <mistero della sua volontà> (Ef 1, 9) che non è un concetto teologico astratto, bensì la realtà che sta alla base della vita come dono di infinita <benevolenza>. La sfida quotidiana per ogni discepolo è di comprendere come e quanto Dio tenga a noi tanto da accettare di abitare con noi per vivere dentro di noi.

Dire in modo così forte il mistero della gratuità del dono di Dio che ci rende <santi> significa riconoscere e credere che egli esiste per noi pur essendo senza di noi e che questo, cosa estranea al nostro modo onnipotente di concepire i privilegi della divinità, in certo modo lo condiziona radicalmente. Ciò che il Signore Gesù ci ha rivelato è il volto di un Dio che dilata sempre di più il suo essere amore come attenzione e ascolto dell’altro che noi siamo davanti a Lui. Mentre i farisei cercano in tutti i modi di salvaguardare i propri privilegi e di nutrire il proprio complesso di superiorità, la chiave della croce del Signore ci inonda con <la ricchezza della sua grazia> (Ef 1, 7).

Sepolcri

XXVIII settimana T.O.

Sembra che il discorso del Signore Gesù contro i farisei raggiunga il suo vertice di “offensività” proprio quando scatena la reazione indignata di un dottore della Legge: <Guai a voi, perché siete come quei sepolcri che non si vedono e la gente vi passa sopra senza saperlo> (Lc 11, 44). A questo punto si scatena la reazione: <Maestro, dicendo questo, tu offendi anche noi> (11, 45). Perché mai questo riferimento ai sepolcri invisibili su cui si passa senza rendersene conto tocca sul vivo fino ad offendere questo dottore della Legge? In realtà, questa figura usata dal Signore Gesù per indicare e disapprovare l’atteggiamento dei farisei è particolarmente eloquente perché mette in luce come il rischio di una certa religiosità che si fissa su alcune norme esteriori fino a idolatrarle non è altro che un modo per seppellire il dono di una relazione con Dio che sia realmente vivificante: <pagate la decima sulla menta, sulla ruta e su tutte le erbe, e lasciate da parte la giustizia e l’amore di Dio> (Lc 11, 42).

Le parole infuocate dell’apostolo Paolo non solo commentano, ma pure chiariscono ulteriormente questa parola del Signore Gesù: <se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge> (Gal 5, 18). La Legge, infatti, è sempre un’arma a doppio taglio! Essa può ispirare ed animare un dinamismo vitale capace di rinnovare e animare continuamente la vita, oppure può diventare la tomba in cui ogni desiderio e ogni processo di crescita vengono bloccati e seppelliti per sempre. Il Signore Gesù non invita nessuno e neppure noi a diventare liberali o, peggio ancora, libertini. Il suo invito è a vigilare continuamente sulla nostra condotta perché sia in grado di custodire e incrementare l’essenziale: <Queste invece erano le cose da fare, senza trascurare quelle> (Lc 11, 42). Il pericolo più grande, secondo la parola e l’esempio del Signore Gesù, è la confusione dei piani e il ribaltamento dell’ordine in cui prima di tutto c’è la giustizia e l’amore di Dio.

Qualunque osservanza oggettivamente buona e lodevole va vissuta come un’espressione dell’amore di Dio che si fa, necessariamente, cura e attenzione per la giustizia. Ciò che l’apostolo, nel suo linguaggio, evoca come <opere della carne> (Gal 5, 19) sono in realtà tutti quegli atteggiamenti che si oppongono all’amore di Dio che si fa attenzione per i bisogni e le necessità di tutti. Paolo continua offrendo un elenco accurato, ma non esaustivo, di quelli che sono i frutti dello Spirito: <amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé> e conclude dicendo solennemente che <contro queste cose non c’è Legge> (5, 22-23). La cosa più terribile che può avvenire ancora oggi nel nostro cammino spirituale e nella nostra ricerca sincera di essere discepoli del Signore è di creare una contrapposizione tra l’amore e la Legge che è sempre l’espressione di una fatica ad entrare nella logica dello Spirito. Lo Spirito è dentro di noi il garante e l’animatore del giusto ordine dei valori e della capacità di incarnarli concretamente nel vissuto quotidiano senza mai indulgere alla tentazione di rinchiudere la vita in schemi talmente rigidi da somigliare troppo a <sepolcri> o a <pesi insopportabili>.

A pranzo!

XXVIII settimana T.O.

Normalmente un invito a <pranzo> (Lc 11, 37) fa presagire un momento di distensione e di piacevole comunione. Nel caso che ci viene riportato dal Vangelo, invece, proprio l’occasione di un momento che si immaginerebbe condito di cortese fraternità e di amabile compagnia, si trasforma in occasione di malumore e di conflitto. Che cosa scatena questa sorta di ribaltamento della situazione tanto da trasformare un momento che doveva essere piacevole in una situazione imbarazzante per chi ha invitato e per chi è stato invitato? Penso che la risposta a questa domanda possa essere l’incapacità di questo <fariseo> che sembra invitare Gesù nella sua casa per continuare ad ascoltarlo, di non riuscire ad andare oltre la sua abitudine che lo induce piuttosto a giudicare che a lasciarsi toccare e interpellare. Luca ci dice che <mentre Gesù stava parlando un fariseo lo invitò a pranzo>. L’evangelista ci mostra come il Signore Gesù non oppone nessuna resistenza, ma sembra accogliere volentieri e immediatamente questo invito: <Egli andò e si mise a tavola>.

Ed è a questo punto che si fa la verità di questo invito che, sebbene sia stato fatto, sinceramente, nondimeno non è capace di accogliere fino in fondo l’invitato nella sua differenza e, soprattutto, nella sua libertà di onorare un invito senza sentirsi obbligato a sottomettersi a tutte le convenzioni e a tutti gli obblighi. Quando la macchina del giudizio si mette inesorabilmente in moto ciò che è pensato e desiderato per creare comunione e serenità riesce, invece, a creare turbamento e conflitto. Allora il Signore gli disse: <Voi farisei pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma il vostro interno è pieno di avidità e di cattiveria. Stolti!> (7, 9). A questa parola più chiara che dura pronunciata dal Maestro fa eco la parola altrettanto chiara dell’apostolo: <Perché in Cristo Gesù non è la circoncisione che vale o la non circoncisione, ma la fede che si rende operosa per mezzo della carità> (Gal 5, 6).

La parola dell’apostolo ci permette di penetrare efficacemente all’<interno> del nostro cuore e alla sfida continua di mantenerci puri non nel senso farisaico dell’apparenza che è sempre una forma di acquiescente allineamento per evitare problemi, ma nella linea della libertà che è sempre il modo più autentico per servire all’altro sul piatto della fiducia la verità e la diversità di se stessi. Se immaginassimo la vita come un grande banchetto, allora risulta abbastanza chiaro quanto sia essenziale perché un banchetto sia degno di questo nome, la diversità delle portate e la capacità di gustarne i gusti e le sfumature diverse. Sembra che la Liturgia senta il bisogno di ribadire fortemente una delle parole più forti e coraggiose di Paolo perché la nostra vita di discepoli ne sia quotidianamente segnata: <Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù> (Gal 5, 1). Andiamo al pranzo della libertà!

Per la libertà!

XXVIII settimana T.O.

L’affermazione di Paolo è lapidaria: <Cristo ci ha liberati per la libertà!> (Gal 5, 1). Quando il Signore Gesù definisce come <malvagia> la sua <generazione> che continua a cercare un <segno> (Lc 11, 29) forse si riferisce proprio a ciò che potremmo definire una resistenza alla libertà. E allora la parola dell’apostolo si fa tagliente e sommamente esigente: <State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù> (Gal 5, 1). Il giogo cui si riferisce l’apostolo è quello che il Signore Gesù, in un altro passo del Vangelo, evoca come superamento delle pesantezze insopportabili delle consuetudini e delle osservanze che se pure si fondano sulla Parola di Dio talora rischiano di stravolgerle: <il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggere> (Mt 11, 30). Sembra proprio che questa spasmodica ricerca di segni, che spesso ritroviamo pure ai nostri giorni, corrisponda ad un bisogno di sicurezze e di rassicurazione che rischiano di scontrarsi con quel dono di libertà che rimanda necessariamente al dovere di ciascuno di trovare la propria strada per corrispondere alla verità cui è interiormente chiamato.

Quasi sfinito dalle inutili controversie con i farisei e dalle pressioni della folla che cerca una sorta di evidenza messianica nella testimonianza di Gesù, l’evocazione di Giona e della regina del sud sono l’unico modo per rimandare al mistero di un modo diverso di attraversare la porta della salvezza. Gli abitanti di Ninive accolgono l’invito alla conversione del reticente Giona con una semplicità e una naturalezza che talora sembrano lontanissime dalle nostre complicazioni religiose. La regina del sud risponde ad un bisogno del suo cuore stupendamente curioso e si reca a Gerusalemme per conoscere Salomone mettendosi decisamente e incondizionatamente in cammino. Quanti ascoltano Gesù, non solo i suo contemporanei, sembrano temere di imbarcarsi veramente nella sua logica e sembrano rimandare continuamente la scelta di una compromissione esistenziale con il suo messaggio.

Si potrebbe definire questa fatica a decidersi nascondendosi dietro la maschera di devoti ragionamenti come una sottile paura di quella libertà che il Cristo ci offre ogni giorno. Questa libertà che il Grande Inquisitore di Dostoevskij ritiene troppo pesante per le fragili spalle della nostra umanità è un atto di fiducia da parte del Creatore che conferma, nell’esperienza personale di ciascuno, il dono fatto al mondo con la creazione. Siamo così continuamente consegnati a noi stessi e alle nostre scelte che devono essere non solo libere teoricamente, ma pure capaci di correre concretamente il rischio della libertà. La parola del Signore Gesù è talora violenta, ma non è mai oppressiva! Al contrario i gesti e le parole del Signore Gesù continuamente ci aiutano a non cedere alla tentazione di cercare un nuovo padrone cedendo alla tentazione di <schiavitù> apparentemente nuove, ma che sono sempre la stessa catena che non ci permette di vivere pienamente.

Amato

XXVIII Domenica T.O.

Dopo avere letto – domenica scorsa – quanto il Signore Gesù ci insegna circa il modo di rapportarci agli altri e, in particolare, con quanti avremmo la tentazione di trattare con sufficienza e poca delicatezza – le donne e i bambini -, oggi il Maestro ci insegna a rapportarci in modo giusto con le <ricchezze> (Mc 10, 23). Sotto questo nome non bisogna intendere semplicemente i beni materiali, ma persino i beni spirituali che quel <tale> (10, 17), dopo l’elenco rammemorato dallo stesso Signore Gesù, è in grado di identificare in modo preciso: <Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre> (10, 19). Dopo che il Signore Gesù ha fatto l’elenco di ciò che questo tale sicuramente conosce, questi non ha nessun problema e – bisogna riconoscerlo, nessuna falsa modestia come noi – nel dire con giusta fierezza: <Maestro, tutte queste cose lo ho osservate fin dalla giovinezza> (10, 20). A questo punto del dialogo si rende necessario un momento di pausa quasi per prendere un attimo respiro e misurare, intuitivamente, la posta in gioco tra Gesù e questo tale, tra Gesù e noi. Mentre ci si aspetterebbe una presa di distanza da parte del Signore o almeno l’esplicitazione immediata delle esigenze della sequela l’evangelista Marco chiosa con una nota indimenticabile: <Allora Gesù fissò lo sguardo su lui e lo amò…> (10, 21). Una nota principale, come il tema ricorrente in una sinfonia, e che non si può in alcun modo sottovalutare o dimenticare. Il seguito della frase rivolta a questo tale di cui i Vangeli non ci riportano il nome – Matteo ci dice per due volte che si tratta di un <giovane> (Mt 19, 20. 22) – deve essere letto in quell’atmosfera umanamente forte, creata dallo sguardo fisso di Gesù su quest’uomo che potremmo chiamare con lo stesso nome che la tradizione greca riserva all’apostolo Giovanni: Amato! Così potremmo chiamare quell’uomo che normalmente tutti indichiamo come il “giovane ricco”. Come giustificare questo sguardo pieno di amore e di predilezione del Signore Gesù, se non a partire da un’affinità scorta dal Maestro in questo possibile discepolo? Egli, pur diventando un discepolo mancato, nondimeno ha potuto aggiungere ai suoi <molti beni> (Mc 10, 22) il sommo bene di quel verbo che traduce un dono incommensurabile e, nonostante il suo rifiuto, intramontabile. Di fatto quest’uomo viene folgorato dall’amore di Cristo per il quale è, in certo modo, preparato visto il suo atteggiamento pieno di ardente desiderio come lo siamo ciascuno almeno in certi momenti e in alcuni passaggi cruciali della nostra esistenza discepolare.

Aimé

XXVIII Dimanche du T.O. 

Après avoir lu – dimanche dernier – comment le Seigneur Jésus nous enseigne la façon de nous comporter avec les autres, et en particulier, avec ceux que nous avons la tentation de traiter avec suffisance et peu de délicatesse – les femmes et les enfants -, aujourd’hui, le Maître nous enseigne comment nous comporter de façon juste avec les ” richesses ” – ( Mc 10, 23 ). Sous ce nom, il ne faut pas comprendre simplement les biens matériels, mais aussi les biens spirituels  que ce “personnage ” ( 10, 17) après la liste remémorée par le Seigneur Jésus lui-même, est capable d’identifier de façon précise : ” Ne pas tuer, ne pas commettre d’adultère, ne pas voler, ne pas faire de faux témoignage, ne pas frauder, honorer son père et sa mère ” ( 10, 19 ). Après que le Seigneur Jésus ait énoncé la liste que cet individu connaît, celui-ci n’a aucun problème  et – il faut le reconnaître, aucune fausse modestie, comme nous – pour dire avec juste fierté : ” Maître, toutes ces choses, je les ai observées depuis ma jeunesse ” ( 10, 20 ). A ce point du dialogue, un moment de pause est nécessaire pour reprendre sa respiration et mesurer, intuitivement, les enjeux qui se jouent entre Jésus et ce personnage, entre Jésus et nous. Alors que l’on pourrait s’attendre à une prise de distance de la part du Seigneur ou, du moins à une explication immédiate des exigences pour le suivre, l’évangéliste Marc conclut par une remarque inoubliable : ” Alors, Jésus fixa son regard sur lui et l’aima…” ( 10, 21 ). Une remarque principale, comme le thème récurrent d’une symphonie que l’on ne peut d’aucune façon sous-évaluée ou oubliée. La suite de la phrase adressée à ce personnage dont les Evangiles ne nous communiquent pas le nom – Matthieu nous dit deux fois qu’il s’agit d’un ” jeune ” ( Mt 19, 20.22 ) – doit être lue dans cette atmosphère unanimement forte, crée par le regard fixe de Jésus sur cet homme que nous pourrions appeler par le même prénom que la tradition grecque réserve à l’apôtre Jean :  Aimé !  Nous pourrions nommer ainsi cet homme que tous surnomment normalement le ” jeune homme riche “. Comment justifier ce regard plein d’amour et de prédilection du Seigneur Jésus, sinon à partir d’une affinité découverte par le Maître en un possible disciple ? Celui-ci, même en devenant un disciple recalé, a pourtant pu ajouter à ses ” nombreux biens ” ( Mc 10, 22 ) le bien suprême de ce verbe qui traduit un don incommensurable et ceci, malgré son refus, intemporel. En effet, cet homme est foudroyé par l’amour du Christ pour lequel, d’une certaine manière, il est préparé au vu de son attachement plein d’un désir ardent comme nous le sommes, chacun d’entre nous, au moins certaines fois et dans certains passages cruciaux de notre existence de disciples.