Simile

XXX settimana T.O.

Per parlare del regno di Dio, il Signore Gesù non trova di meglio che usare la duplice immagine del <granello di senape> (Lc 13, 19) cui accosta immediatamente quella del <lievito> (13, 20). Giovanni Crisostomo si interroga sul senso di queste immagini e si premura di aiutare i suoi ascoltatori a ricordare che è lo stesso Signore Gesù che dà a queste immagini tutto il loro senso: <E’ Cristo che dà una simile forza a questo lievito. Non rimproverategli dunque il piccolo numero di discepoli: è la potenza del messaggio che è grande. Basta una scintilla per trasformare in brace qualche ramo secco di legno, che poi brucia anche tutto il legno verde d’intorno>1. Accettare di entrare nella logica del regno di Dio significa assumere la capacità di vivere in una piccolezza, in una marginalità, in un nascondimento che non ha niente a che vedere con la dimissione dalla responsabilità di portare un annuncio e di vivere una testimonianza, ma, al contrario, è sapersi penetrare così profondamente dalla sapienza del Vangelo da essere totalmente conformi non solo al suo contenuto, ma, prima di tutto, al suo stile.

Il Signore Gesù sembra aprire i nostri occhi sulla duplici e inscindibile realtà della piccolezza e del nascondimento che permettono al seme e al lievito del Vangelo di fecondate la storia e di rendere i discepoli come un buon pane posto sulla tavola dell’umanità perché ciascuno possa serenamente placare la sua fame. La promessa del Maestro suona così: <crebbe, divenne un albero e gli uccelli del cielo vennero a fare il nido fra i suoi rami> (13, 19). Questa promessa non riguarda direttamente noi cui compete il destino e la missione del seme che rimane non solo piccolo, ma che accetta di marcire fino a scomparire nella terra per fare spazio ad un germoglio che se è parte di sé pure lo trascende infinitamente proprio come avviene tra la Chiesa e il regno di Dio: la prima rimanda e prepara l’avvento generoso e infinitamente più fecondo dell’altro.

In questo contesto possiamo forzare ulteriormente l’immagine usata da Paolo: <Così anche voi: ciascuno da parte sua ami la propria moglie come se stesso, e la moglie sia rispettosa verso il marito> (Ef 5, 33). Si tratta di una nota di vita familiare che l’apostolo rende immagine della relazione tra Cristo e la Chiesa in cui si nasconde la rivelazione del <mistero grande> (5, 32) della <cura> (5, 29) con cui Dio accompagna il cammino di ognuno dei suoi figli. Se il nostro compito di discepoli è simile al granello di senape e al pugno di lievito, ciò che ci permette di acconsentire a questo cammino non sempre facile, è proprio la coscienza di essere oggetto di una <cura> che è tanto più amorosa ed efficace quanto è invisibile agli occhi del mondo che ammira il grande albero e gusta il buon pane appena sfornato spesso dimenticandosi della sorte del seme e dell’invisibile presenza del lievito. In ogni modo non dimentichiamo mai che ci vuole tempo perché un seme si trasformi in un albero, come pure bisogna saper aspettare il tempo necessario perché la pasta sia <tutta lievitata>… armiamoci di pazienza e di fiducia.


1. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie su Matteo, 46, 2.

Anche

Ss. Simone e Giuda

La festa dei santi Simone e Giuda ci riporta, ancora una volta, a sostare sul mistero della Chiesa che fa tutt’uno con il ministero della Chiesa. La scelta dei Dodici cui il Signore Gesù <diede anche il nome di apostoli> (Lc 6, 13) i quali più che un gruppo scelto di gente privilegiata è una realtà in costruzione per <essere tempio santo del Signore> (Ef 2, 21). Un tempio, di qualsiasi tradizione religiosa, è posto in mezzo alla vita ordinaria della gente come memoria e come appello, ed è un luogo da cui si passa, ma dove non si rimane. Così è la Chiesa: un ambito di esperienza della grazia da cui si può e si deve continuamente ripartire per essere testimoni e collaboratori di una salvezza possibile. L’elenco dei nomi degli apostoli evoca personalità, caratteri, storie e sogni assai diversi. Si potrebbe dire che già il modo con cui è composto il gruppo degli apostoli dice tutta la complessità e la sfida di essere Chiesa e di esserlo non per se stessi, ma per quella <gran moltitudine di gente> (Lc 6, 17) che aspetta e vive in quel <luogo pianeggiante> ove si consuma la fatica quotidiana di continuare a sperare. Si potrebbe per questo dire che: <La Chiesa è l’espansione di Gesù, il suo gratuito e volontario dilatarsi nel tempo e nello spazio. La Chiesa sgorga da Cristo e nasce dalle sue fatiche, dalle sue angosce con quella che possiamo a ragione definire come fecondità cattolica>1.

Il gruppo che si costituisce attorno al Signore Gesù è <anche> di apostoli, ma la vita dei Dodici è anche la vita di uomini che conoscono il combattimento e le tentazioni di tutti gli altri. Per questo più che un gruppo scelto per gli altri nel senso di una eccellenza modellare, è un piccolo laboratorio di Vangelo che possa dare speranza a tutti di poterne accogliere il seme nella propria vita. I Dodici hanno vissuto con Gesù per essere il segno di una speranza per tutti di poter diventare <santi e familiari di Dio> (Ef 2, 19). La vita e la missione della Chiesa è quella di creare uno spazio di vivibilità per tutti. Perché questo possa realmente avvenire sembra che il primo passo sia quello di presentare la comunità degli apostoli come una realtà difficile, complessa, persino ambigua in modo che nessuno si senta escluso né tantomeno inadeguato. Anzi, al contrario, la Chiesa nasce più sotto il segno di un ospedale che non sotto quello dell’accademia. 

Uno degli apostoli che festeggiamo oggi è caratterizzato da una nota assai chiara e un po’ inquietante: <Simone, detto Zelota> (Lc 6, 15). Si assicura così uno spazio all’interno della Chiesa anche per gli spiriti forti e un po’ focosi. Eppure, ciascuno, all’interno della Chiesa che è ancora in <costruzione> (Ef 2, 21) è chiamato a trovare un luogo in cui crescere e in cui fare crescere. Taddeo un appellativo derivato dall’aramaico taddajja (petto)e Lebbeo da libba, cioè cuore. Equivarrebbe in entrambi i casi a “uomo dal grande cuore” cioè coraggioso. Se questo coraggio fosse una caratteristica del temperamento del santo non c’è dato saperlo poiché gli evangelisti usano questo appellativo solo per evidenziare la differenza fra il Giuda “dal grande cuore” e il Giuda traditore. Patrono delle cause perse. Celebrando la festa di Simone e Giuda siamo invitati a fare un piccolo esame del nostro cuore per fare il punto del nostro cammino discepolare.


1. Ch. GAY, Fleurs de doctrine et de piété, Paris 1909, frammento XVIII.

Ciechi

XXX Domenica T.O.

Con la pericope che la liturgia ci offre in questa domenica, concludiamo la lettura del capitolo decimo di Marco. Ci troviamo così di fronte al cieco Bartimeo con cui l’evangelista-catechista vuole che ogni battezzato si confronti. Allora non ci resta che sostare su questa splendida figura di cieco in cui possiamo ben vedere noi stessi e con cui ciascuno di noi come discepolo è chiamato non solo ad identificarsi ma, ancor di più a lasciarsi guidare ed accompagnare. Clemente di Alessandria nella sua Esortazione ai Greci dice: <Ricevi il Cristo, ricevi la facoltà di vedere, ricevi la luce, affinché tu conosca bene Dio e l’uomo. Il Verbo che ci ha illuminati è più prezioso dell’oro, più dolce del miele e di un favo stillante> e aggiunge <come non sarebbe, infatti, desiderabile colui che ha illuminato lo spirito sepolto nelle tenebre e conferito acutezza agli occhi dell’anima portatori di luce?>. Anche noi sul ciglio della strada della nostra vita possiamo sentire l’approssimarsi della luce di Cristo attraverso il sentore profondo del calore che emana dal suo passare. Egli è come un raggio di sole percepito ad occhi chiusi che ci sembra più visibile perché di molto più sensibile. Prima dell’ingresso del Signore Gesù a Gerusalemme questo episodio, che avviene esattamente sulla strada che va da <Gerico> (Mc 10, 46) a Gerusalemme (11, 1), esige non solo una sosta, ma un momento di verifica del nostro cammino discepolare. Siamo chiamati a divenire come il Signore Gesù riconosciuto e adorato, ben prima della sua Pasqua (cfr Gv 20, 16), che questo cieco, che nell’intuizione della fede, lo proclama: <Rabbunì/maestro mio> (Mc 10, 51). Questo povero cieco che <sedeva lungo la strada a mendicare> (10, 46) conclude e, in certo modo risolve, i tanti problemi affrontati nel capitolo del Vangelo che ci ha accompagnato per qualche domenica. L’ultimo di questi episodi riletto domenica scorsa evocava la richiesta di Giacomo e Giovanni <di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nella tua gloria> (10, 37). Bartimeo, da parte sua, se ne sta, invece, in disparte e proprio dal terribile e temibile posto che la vita gli ha imposto riconosce con un grido – lui <cieco> – quel <figlio> (Eb 5, 6) che <chiamato da Dio come Aronne> (5, 4) <non si attribuì> ma ricevette <la gloria di sommo sacerdote> (5, 5). Proprio dal ciglio della <strada>, Bartimeo sarà visto e chiamato dal Signore Gesù. Si compie così il sogno e la profezia di Geremia: <Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto di Israele> (Ger 31, 7). Solo in condizioni disperate il Signore può chiedere: <Che vuoi che io faccia per te?> (Mc 10, 51) avendo una risposta adeguata, vera, pertinente: <Rabbunì, che io veda di nuovo> (10, 52) … “Rabbunì, che io riabbia la vita”. Speriamo anche noi di ricevere per noi la parola che segue: <Va’, la tua fede ti ha salvato>. Se ricominciamo a vedere non ci resta che vivere ormai <lungo la strada> che da Gerico sale… sale a Gerusalemme!

Aveugles

XXX Dimanche du T.O. 

Avec la péricope que la liturgie nous offre ce dimanche, nous concluons la lecture du dixième chapitre de Marc. Nous sommes ainsi face à l’aveugle Bartimée, à qui, l’évangéliste-catéchiste veut que chaque baptisé soit confronté. Il ne nous reste alors qu’à nous arrêter sur cette splendide figure d’aveugle où nous pouvons nous reconnaître et avec qui, chaque disciple est appelé, non seulement à s’identifier, mais plus encore, à se laisser guider et accompagner. Clément d’Alexandrie dans son Exhortation aux grecs  dit : ” Reçois le Christ, reçois la faculté de voir, reçois la lumière, afin que tu connaisses bien Dieu et l’homme. Le Verbe qui nous a illuminés est plus précieux que l’or, plus doux que le miel ruisselant d’un nid d’abeille” et, il ajoute ” en effet, comment ne serait-il pas désirable celui qui a illuminé l’esprit  enseveli dans les ténèbres et conféré l’acuité aux yeux de l’âme porteurs de lumière ? “. Nous aussi, au bord de la route de notre vie, nous pouvons sentir l’approche de la lumière du Christ à travers la sensation profonde de la chaleur qui émane de son passage. Il est comme un rayon de soleil perçu à travers les yeux fermés qui nous semble visible car beaucoup plus sensible. Avant l’entrée du Seigneur Jésus à Jérusalem, cet épisode qui advient exactement sur la route qui va de ” Jéricho ” ( Mc 10, 46 ) à Jérusalem ( 11, 1 ), exige non seulement, un arrêt, mais un moment de vérification de notre cheminement de disciple. Nous sommes en devenir, comme le Seigneur Jésus reconnu et adoré, bien avant sa Pâque ( cfr Jn 20, 16 ), que cet aveugle, par l’intuition de la foi, appela : ” Rabbouni/mon Maître ” ( Mc 10, 51 ). Ce pauvre aveugle ” assis et mendiant au bord de la route ” ( 10, 46 ) conclut et, d’une certaine façon résout, les nombreux problèmes rencontrés dans le chapitre de l’Evangile qui nous a accompagnés plusieurs dimanches. L’ultime épisode relu dimanche dernier évoquait la demande de Jacques et Jean ” d’être assis, dans ta gloire, l’un à ta droite et l’autre à la gauche de ta gloire ” ( 10, 37 ). Bartimée, de son côté, reste, au contraire, à l’écart, et, du fond de la terrible place que la vie lui à imposer, il reconnaît, dans un cri – lui ” l’aveugle – ce ” fils” ( He 5, 6 ) qui, ” appelé par Dieu comme Aaron” ( 5, 4 ) ” ne s’attribua pas”, mais reçut ” la gloire du Grand Prêtre ” ( 5,5 ). Juste au bord de la ” route “, Bartimée sera vu et appelé par le Seigneur Jésus. Ainsi s’accomplit le rêve et la prophétie de Jérémie ” Le Seigneur a sauvé son peuple, le reste d’Israël ” ( Jr 31, 7 ). C’est seulement dans les conditions de désespoir que le Seigneur peut demander ” Que veux-tu que je fasse pour toi ? ” ( Mc 10, 51 ) ayant une réponse adéquate, vraie, pertinente : ” Rabbouni, que je voie de nouveau ” ( 10, 52 )… ” Rabbouni, que je retrouve la vie “. Nous espérons, nous aussi, recevoir la parole suivante : ” Vas, ta foi t’a sauvé “. Si nous recommençons à voir, il ne nous reste plus désormais qu’à vivre ” le long de la route ” qui de Jéricho monte…monte à Jérusalem !

Pienezza

XXIX settimana T.O.

In pochi versetti l’apostolo Paolo per due volte parla del mistero di Cristo Signore come un dono di <pienezza di tutte le cose> (Ef 4, 10) che si riversa, in modo del tutto particolare ed efficace, nella nostra vita di discepoli. È questo dono di partecipazione divina che è capace di permettere a ciascuno di <raggiungere la misura della pienezza di Cristo> (4, 13). La pienezza di cui ci parla l’apostolo Paolo come segno di una presenza efficace del mistero di Cristo Signore nella vita di tutti è una realtà che non solo si dona e si esprime in modo diverso in ciascuno, ma è capace di <edificare il corpo di Cristo> (4, 12) in una diversità che è essenziale. Questa multiforme espressione del dono della grazia è stata resa possibile dal mistero di quell’incarnazione che, nella prima lettura, viene evocata in termini non di elevazione, ma di assoluta condivisione: <Ma cosa significa ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli> (4, 9-10).

La nostra vita di discepoli è così chiamata a fare tutt’uno con questo dinamismo di estrema compromissione che permette alla salvezza di essere dono per tutti in modo unico, tanto da generare non solo dei ministeri diversi, ma, ben più profondamente, dei volti diversi di quello che è l’unica realtà che proprio perché ci accomuna radicalmente è capace di darci la possibilità di avere un volto sempre più unico e raro: <Egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri…> (4, 11).

In queste crescita verso la pienezza di ciascuno ecco che siamo difesi da ogni giudizio e pregiudizio e accompagnati da una pazienza che ci difende ad oltranza: <Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutto per l’avvenire; se no lo taglierai> (Lc 13, 8-9). Tutti noi siamo chiamati a vivere questo tempo della pazienza che ci permette non solo di invocare la pienezza, ma pure di prepararla per noi e per tutti. Un testo di papa Francesco può aiutarci ad inverare e incarnare le esigenze della Parola di Dio: <Il tutto è più della parte, ed è anche più della loro semplice somma. Bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi. Però occorre farlo senza evadere, senza sradicamenti. È necessario affondare le radici nella terra fertile e nella storia del proprio luogo, che è un dono di Dio. Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però con una prospettiva più ampia>1. Così assumiamo anche noi l’atteggiamento del contadino che si mette a zappare, a concimare, a sperare non in modo teorico ma concreto e fattivo senza omettere di dare il contributo della propria personale fatica.


1. Evangelii Gaudium, 235.

Evitare

XXIX settimana T.O.

La parabola del Signore Gesù che concerne la meteorologia oggi sarebbe di certo ancora più efficace. Quando si decide di fare una scampagnata andiamo a guardare le previsioni del tempo per confermare o cambiare il nostro programma o, almeno, per attrezzarci al meglio per evitare di rovinarci la giornata. La prima parola che il Signore rivolge ai suoi interlocutori è un sincero apprezzamento: <sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo> (Lc 12, 56). Questa parola ammirativa del Signore Gesù potrebbe essere ulteriormente radicalizzata: sì, in realtà, noi sappiamo valutare non solo l’aspetto della terra e del cielo, ma pure sappiamo percepire che cosa sia in gioco nelle nostre relazioni personali. Eppure, talora preferiamo non fare caso a ciò che è evidente tanto da far finta di non vedere e di non sapere per il semplice motivo che non vogliamo cambiare. A questo punto la parola del Signore non lascia scampo: <E perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?> (12, 57).

Non possiamo in nessun modo evitare di dare una risposta seria a questa domanda. Soprattutto non possiamo aspettarci che qualcuno o qualcosa ci eviti la fatica di trovare una risposta che non può venire se non da dentro di noi ove siamo chiamati ad esercitare un’intelligenza sul reale senza la quale la realtà rischia di schiacciarci fino ad annientare o almeno impoverire quelle che sono le possibilità di una vita che sia degna di questo nome. Il consiglio che il Signore ci dà è un consiglio che riguarda tutta la nostra vita e tocca tutte le sue dimensioni: <Quando vai con il tuo avversario davanti al magistrato, lungo la strada cerca di trovare un accordo con lui, per evitare che ti trascini davanti al giudice> (12, 58). In una parola, sembra che il Maestro ci consigli almeno di prendere l’ombrello o l’impermeabile senza dimenticare la sciarpa e il cappello se le previsioni del tempo sono chiaramente brutte.

L’apostolo Paolo ci permette di uscire dalla parabola e di dare un nome più preciso e ciò che ci serve per evitare che la nostra vita sia rovinata dal maltempo. Sembra che ci venga detto di uscire ogni mattina di casa ben equipaggiati e preparati per evitare il peggio e cercare di spianare la strada al meglio: <con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace> (Ef 4, 2). Se accogliamo fino in fondo la parola del Signore non si tratta soltanto di <evitare> il peggio, ma di avere a cuore di sperare sempre nel meglio e questa speranza si fonda sulla certezza che, ben aldilà delle nuvole portate avanti e indietro dal vento e possono essere cariche di pioggia o, al contrario, pesanti di caldo vi è un sole che rimane al suo posto: <un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti> (Ef 4, 6).

Accendici

XXIX settimana T.O.

L’apostolo Paolo continua ad insistere con la sua parola appassionata per aprire un varco nel cuore dei fedeli cui scrive per invitarlo a ricevere il dono della fede. Ieri l’apostolo evocava e offriva come un dono di condivisione la sua personale <comprensione> del mistero di Cristo sottolineando come esso sia l’esplicitazione della volontà salvifica del Padre che è donata veramente a tutti. Oggi si fa viva esortazione a <comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità> così da <conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio> (Ef 3, 18-19). Il Signore Gesù con una parola che rischia di destare una certa apprensione e preoccupazione per la sua forza, in realtà, ci ricorda come la <pienezza> evocata da Paolo sia necessariamente legata alla nostra capacità di fare vuoto nella nostra vita. Solo la rinuncia a tutto ciò che ci conferma nelle nostre strutture abituali può aprire un varco alla relazione con il Signore che è capace di dare alla nostra vita una pienezza di tutt’altro segno e di tutt’altro sapore.

La parola del Signore Gesù esprime con immagini forti il desiderio del suo cuore e l’ardente anelito di comunicare a ciascuno di noi il fuoco che brucia la sua vita nell’anelito di permettere a tutti di partecipare al progetto e al disegno del Padre che è stato evocato ieri nella prima lettura: <Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quando vorrei che fosse già acceso!> (Lc 12, 49). Se questo è il desiderio del Signore, possiamo chiederci in che misura siamo disponibili a lasciarci inondare da questo fuoco e in che misura invece lo spegniamo con le secchiate dell’autoconservazione di quelle che sono le nostre abitudini e dei nostri comodi. L’immagine affettiva usata dal Signore Gesù non tende a demonizzare i rapporti più cari che fanno il tessuto necessario della nostra vita in relazione, ma è il modo più efficace per mettere in evidenza quanto sia necessario aprirsi ad una novità che non può che essere anche destabilizzante e richiede non la conservazione, bensì la rifondazione radicale degli affetti di sempre, delle prospettive di sempre, delle attese di sempre.

La domanda è percuotente: <Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra?> e la risposta è ancora più inquietante: <No, io vi dico, ma divisione> (12, 51). Sembra che questa parola del Signore Gesù contraddica radicalmente quella dell’apostolo Paolo che insiste in modo appassionato sul mistero di ricapitolazione e di comunione assoluta cui tutti sono chiamati. In realtà, il Signore Gesù ci ricorda come nessuna comunione autentica sia possibile e duratura senza una chiarificazione limpida della gerarchia interiore di ciò che sta al centro della nostra vita a motivo e come conseguenza delle nostre scelte più intime e decisive. La comunione non ci esime dal compito di essere fino in fondo persone, anzi ci obbliga a questo passaggio interiore che ha tutto il sapore di un vero e proprio <battesimo> (12, 50) non tanto di acqua, ma propriamente di <fuoco> (12, 49). Non bisogna mai dimenticare come la pienezza sia direttamente proporzionale al vuoto che facciamo dentro di noi di noi stessi.

Favorite

XXIX settimana T.O.

La parola dell’apostolo Paolo è di rara intensità e mette in evidenza in modo assai particolare quella che potremmo definire l’essenza stessa dell’annuncio del Vangelo che è radicalmente legato ad una condizione di fondo indispensabile espressa nella figura dell’essere <a vostro favore> (Ef 3, 2). Quando si entra in una casa del Meridione e la famiglia si trova a tavola, l’ospite di passaggio oppure ben conosciuto viene accolto sempre con lo stesso invito: <Favorite!>. Significa che l’ospite è invitato a servirsi con libertà di quello che c’è sulla tavola e gli viene chiesto di sentirsi non più un estraneo, bensì parte della famiglia. Tutto il discorso di Paolo tende a presentare ai cristiani di Efeso quella che è la sua <comprensione> del <mistero di Cristo> (3, 4) che è presentato esattamente come un mistero di assoluta comunione e condivisione che è di tutti e per tutti tanto che <le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo> (3, 6).

La riflessione di Paolo tende a condividere con tutti la rivelazione del <progetto eterno> (3,11) di Dio che non è assolutamente un disegno riservato a pochi, ma è un pensiero che riguarda veramente tutti. Lo sguardo che l’apostolo pone sul mistero di Cristo è illuminato da una comprensione di assoluta inclusività che permette a tutti di sentirsi a casa e di favorire con semplicità alla stessa tavola. In Cristo infatti <abbiamo la libertà di accedere a Dio in piena fiducia> (3, 12). Questa fiducia, che è il segno distintivo del Vangelo, è un dono che riceviamo e che esige da parte nostra l’esercizio di una grande vigilanza per non cedere alla tentazione di privatizzare un dono che ci viene affidato proprio per essere generosamente condiviso. Potremmo anche noi cadere nella trappola di quel servo di cui il Signore Gesù parla nella seconda parte del Vangelo. Anche se il padrone <tarda a venire> (Lc 12, 45), in nessun modo possiamo abusare della fiducia che è stata riposta in noi sottraendoci al compito della comunione e della condivisione.

Il Signore Gesù è particolarmente severo: <A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più> (12, 48). Tenersi pronti diventa per i discepoli il modo più adeguato per non sottrarsi al compito di favorire l’avvicinamento di tutti alla tavola della misericordia e dell’amore di Dio che, nel suo progetto, non solo non esclude nessuno, ma desidera ardentemente che tutti possano partecipare in pienezza al suo dono di vita piena. L’apostolo Paolo ricorda che <per mezzo della Chiesa> (Ef 3, 9) deve rivelarsi a tutti il mistero di quella grazia che permette a tutti e a ciascuno di fare della propria vita un vero luogo di rivelazione e di glorificazione di Dio. Il compito e la mediazione della Chiesa sembra essere quella di favorire la libertà e la fiducia che sono la porta d’ingresso in quella logica del Regno di Dio che è per tutti senza escludere non solo nessuno, ma nessuna delle situazioni in cui la nostra umanità può venirsi a trovare. Per rispondere all’appello di questa parola possiamo chiederci chi siano i <lontani> di oggi in cui siamo chiamati a ritrovare i lontani di sempre per offrire loro il pane dell’accoglienza e dell’assoluta condivisione.

Dalle nozze

XXIX settimana T.O.

Troviamo nel Vangelo una particolare rivelazione che riguarda il Signore Gesù. Tutta la vita cristiana è, sin dagli inizi dell’esperienza di fede della comunità credente, l’attesa fervida e amorosa di un ritorno. Esso veniva attesto dai primi cristiani in modo imminente tanto da far dire a Paolo mentre scrive ai Tessalonicesi che <noi che viviamo e che saremo ancora in vita alla venuta del Signore, non avremo alcuna precedenza su quelli che sono morti> (1Ts 4, 15). Gradualmente la parusia è stata collocata sempre più nel futuro senza togliere che uno dei cardini dell’esperienza della fede professata e celebrata nel sacramento dell’Eucaristia sia proprio l’attesa della sua venuta come attestiamo subito dopo la consacrazione del pane e del vino. La parola del Signore Gesù non ci soccorre dandoci dei ragguagli su quelli che sono i tempi e i modi della parusia, ma ci rivela da dove il Signore sta tornando: <dalle nozze> (12, 36).

Per rimanere nella parabola, dobbiamo sottolineare che il cammino della storia si orienta verso il suo compimento aprendosi all’accoglienza del Signore nelle vesti dello sposo che torna a casa… non torna da un funerale, bensì dalla festa nuziale che diventa così la cifra con cui siamo chiamati continuamente a interpretare la storia senza cedere a tentazioni di lettura troppo pessimiste e tristi. Al contrario: <Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli> (12, 37). Come si potrebbe mai dormire in una gioia così profonda e contagiosa come sono le feste nuziali. Il Signore ci chiede di partecipare alla sua gioia e di lasciarci contagiare dal senso di pienezza e di bellezza. Non solo, ci ricorda che il suo ritorno non sarà per noi un tempo amaro di giudizio e di rendiconto, bensì il tempo del sollievo: <in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli>!

Per commentare e comprendere sempre più profondamente questa parola del Signore, possiamo rileggere con calma – frase dopo frase – la cascata di magnifiche affermazioni che fanno della prima lettura un mosaico di pace e di gioia: <Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo> (Ef 2, 13). Questo sangue non è prima di tutto il sangue sacrificale della riparazione e dell’olocausto compensatorio delle colpe, è prima di tutto il sangue dell’alleanza, come quello che si fa tra amici del cuore mescolando il proprio sangue per sentirsi fratelli non solo per sempre, ma anche da sempre: <Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne> (2, 14). Alla luce di questa parola possiamo sentire tutta la forza e la consolazione delle ultime parole del Vangelo: <E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!> (Lc 12, 38). Il salmista sembra non stare più nella pelle: <Certo, il Signore donerà il suo bene e la nostra terra darà il suo frutto… i suoi passi tracceranno il cammino> (Sal 84, 13-14). È il cammino dello sposo che torna a passi danzanti e ci invita ad unirci pienamente alla sua gioia per essere <insieme> nientemeno che <abitazione di Dio per mezzo dello Spirito> (Ef 2, 22).

Di-vertiti!

XXIX settimana T.O.

Al Signore Gesù non restano molte possibilità e ricorre ancora una volta all’uso di una parabola per aiutare il suo interlocutore ad andare un poco più lontano dalla propria ristretta visione della vita che, in realtà, meriterebbe l’aggettivo di una “povera vita”. Come quando Natan racconta a Davide la parabola di quel tale che ha una sola pecorella che gli viene sottratta dal potente di turno, così il Signore Gesù aiuta questo tale a guardarsi allo specchio, a sentirsi finalmente parlare in verità così da avere finalmente l’occasione di rendersi conto di ciò che veramente gli sta a cuore. Il possidente della parabola arriva a fare un bel discorso non solo dentro di sé, ma persino a se stesso: <Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni, riposati, mangia, bevi e divertiti> (Lc 12, 19). Sembrerebbe il giusto discorso di chi, dopo aver lavorato per tutta una vita, riconosce a se stesso il diritto di potersi finalmente riposare e persino – dopo i tanti sacrifici della vita – potersi anche un po’ divertire.

Non possiamo non riconoscere quanto questo modo di ragionare e di sentire la vita, sia in realtà, assai più vicino ai nostri pensieri di quanto siamo disposti realmente ad accettare. Così pure non possiamo nascondere a noi stessi di sentirci sempre abbastanza in diritto di reclamare la nostra parte di <eredità> (12, 13). Il Signore Gesù non vuole affatto ledere le esigenze e i processi propri della giustizia, come coglie l’occasione di questa domanda per aiutare il suo interlocutore ad andare un po’ oltre e un po’ più in profondità. Prima di tutto il Signore non si sostituisce ai meccanismi e ai processi della giustizia non ritenendo di dover neppure seguire l’esempio di Mosè (Es 2), ma di rispettare i consueti canali con una frase netta: <O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?> (Lc 12, 14). Detto questo il Maestro coglie l’occasione per porre, attraverso il linguaggio della parabola, una domanda che invece di rispondere ad una situazione esterna di potenziale ingiustizia, invita a chiedersi nel profondo del cuore a che cosa mai servirebbe questa ricchezza. Il rischio, infatti, che la giustizia rischi di mascherare il nostro bisogno di “di-vertimento” a scapito di un processo più lungo e laborioso che è quello della “con-versione”.

L’uomo della parabola, in realtà, dimostra alla fine della sua esistenza di non avere compreso che il dono della vita e di tutto ciò che la rende più vivibile e persino più piacevole, non è una realtà che si possa godere da soli, ma che andrebbe condivisa per una gioia che sia degna di questo nome. L’apostolo Paolo esprimerebbe tutto ciò con un’immagina altrettanto eloquente: <eravate morti per le vostre colpe e i vostri peccati, nei quali viveste, alla maniera di questo mondo> (Ef 2, 1-2). Ciò che mondanizza, secondo la riflessione e la parenesi di Paolo, è esattamente ciò che il Signore Gesù stigmatizza raccontando una parabola. La difficoltà che può divenire una vera e propria cecità di fronte alla realtà del dono che esige sempre la capacità del perdono: <Per grazia infatti siete stati salvati mediante la fede e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio> (2, 8).

Tutto il peso del discorso di Paolo è sul <Ma> che divide la prima lettura in due parti. Quei <tutti> della prima parte che sono segnati dal peccato, diventano i <tutti> della seconda parte toccati e raggiunti dalla grazia.