Perdita

XXXI settimana T.O.

Le parole dell’apostolo Paolo starebbero veramente bene sulla bocca del Signore Gesù: <Anzi, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore> (Fil 3, 8). Possiamo immaginare, infatti, i sentimenti del pastore della parabola che si lancia alla ricerca della pecora <perduta> (Lc 15, 4). Così pure possiamo immaginare i sentimenti e la decisione di quella donna che mette a soqquadro la casa pur di trovare una delle <dieci monete> (15, 8) che ha smarrito. Per fare ciò è necessario da una parte sentire di non poter perdere una delle pecore del gregge né tantomeno smarrire una delle monete perché di queste si ha bisogno per vivere e non solo per sopravvivere. Questo perché se la ricerca è frutto di un bisogno è altresì l’espressione di una decisione in quanto non si accetta in alcun modo di smarrire ciò a cui si si tiene. 

Per lanciarsi in una ricerca così decisa ed audace è necessario nutrire un sentimento di fondo: non ritenere perduto ciò che si è smarrito e sentire, interiormente, di poterlo ritrovare. Prima di essere una questione di scelta è l’espressione di sentimento profondo. L’evangelista Luca ci ricorda il contesto preciso in cui il Signore Gesù racconta queste parabole ed è quello della mormorazione dei farisei benpensanti, i quali andavano dicendo: <Costui accoglie i peccatori e mangia con loro> (15, 2). Nella mentalità dei farisei coloro che considerano “peccatori” sono delle persone perdute per sempre che, secondo il loro pensiero, non possono essere più ritrovate. L’attitudine del Signore Gesù è assolutamente diversa in quanto non si concentra sulla disponibilità o meno dei peccatori di farsi ritrovare, ma sulla decisione di volerli cercare offrendo loro la possibilità di sentirsi comunque amati e desiderati così da rimettere in moto la loro stessa possibilità di scegliere.

Il gesto del pastore che, trovata la pecora, <la carica sulle spalle> (15, 5) e la reazione della donna che, una volta ritrovata la moneta, <chiama le amiche e le vicine> (15, 9) ci fanno sentire il palpito del Signore Gesù che non può rassegnarsi in nessuno modo all’idea che qualcuno sia smarrito e perduto per sempre. Il grande annuncio del Vangelo sta proprio nella coscienza che per quanto noi ci smarriamo e ci allontaniamo, il Signore non smetterà di cercarci e non si arrenderà fino a che non ci avrà ritrovati. Il nostro Dio <accoglie i peccatori e mangia con loro> (15, 2) e ci chiede di fare altrettanto ed è questo <il culto> che siamo chiamati a ad offrire ogni giorno <mossi dallo Spirito di Dio> (Fil 3, 3) senza più <porre fiducia nella carne> ma nell’amore. Prima di pensare agli altri e di adoperarci per gli altri, accettiamo di essere noi quella pecora smarrita che il pastore si carica sulle spalle e riconosciamo di essere noi quella moneta che, perduta, non serve più a niente. Solo così sarà possibile sottrarci alla trappola del fariseismo lasciando che si formi in noi un cuore misericordioso, accogliente, aperto, segnato dalla speranza audace che nulla è perduto finché sarà cercato.

Scremare

XXXI settimana T.O.

Non dobbiamo dimenticare il contesto in cui la parola del Signore Gesù viene pronunciata e che l’evangelista Luca esplicita chiaramente: <una folla numerosa andava con Gesù> (Lc 14, 25). Dinanzi a quello che, col nostro linguaggio e a partire dalla nostra sensibilità, potremmo definire un successo pastorale, il Signore Gesù sente il bisogno di chiarire quali sono le esigenze della sequela per evitare malintesi e rettificare i desideri e le attese. Per questo motivo il discorso si fa così duro da sembrare persino eccessivo fino a suonare come in contraddizione con lo spirito del Vangelo: <Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo> (14, 26). Il Signore Gesù davanti alla <folla numerosa>, che pende dalle sue labbra e continua a seguirlo sulle strade, sente il bisogno di chiarire le ragioni della sequela mettendone in chiaro le condizioni. Questo lo fa con la folla, ma lo fa persino con il gruppo dei suoi discepoli più intimi mettendoli persino dinanzi alla possibilità di non seguirlo più (cfr. Gv 6, 67). Per arrivare a questo chiarimento interiore il Signore Gesù cerca di aiutare ciascuno ad entrare nel santuario della propria interiorità per scremare, purificare, rettificare i desideri sempre congiunti alle paure che spingono a farsi suoi discepoli.

Per confermare e rincarare la dose di necessità imprescindibile di discernimento senza il quale nessuna scelta può essere duratura, il Signore ci racconta oggi due parabole. Le immagini della torre da costruire e di un’eventuale guerra in cui avventurarsi sono veramente efficaci per darci la misura del rischio che una sequela non troppo consapevole comporta. Il rischio è di essere ridicolizzati all’esterno e di essere frustrati all’interno del nostro cuore: <Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro> (14, 30). Questa parola prima ancora di venire dall’esterno ci abita profondamente dentro nel momento in cui ci rendiamo conto di non essere in grado di ordinare e riordinare continuamente tutti i nostri sentimenti e affetti attorno ad un nuovo centro che ha bisogno di essere ri-scelto ogni giorno: <Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo> (14, 33).

La <propria croce> (14, 27) da assumere ogni giorno è proprio questa quotidiana e non facile necessità di rimettere ordine nella nostra vita per orientare al meglio le nostre forze e le nostre energie cercando di rimettere al centro mai noi stessi e ciò che ci fortifica il nostro ego, ma la relazione a Cristo che ci permette di rimettere continuamente al centro della nostra vita l’attenzione agli altri. L’apostolo Paolo ci ricorda che <E’ Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo il suo disegno d’amore> (Fil 2, 13). Il Signore Dio non è contrario all’amore, tutt’altro, ma ci richiede ogni giorno di rifondare il nostro amore perché sia più vero. Vi è nell’apostolo una punta di soddisfazione: <Così nel giorno di Cristo io potrò vantarmi di non aver corso invano, né invano faticato> (2, 16). La stessa soddisfazione che potremmo provare noi stessi davanti ad una torre portata a compimento o ad una guerra conclusa con una vittoria. Perché questo avvenga è necessaria una buona dose di disciplina e di ascesi: l’amore ha, infatti, il suo rigore!

Servo

XXXI settimana T.O.

La liturgia della Parola di quest’oggi ci offre come prima lettura uno dei testi fondamentali ed emblematici di tutte le Scritture cristiane. L’Inno dei Filippesi ci porta al cuore stesso della rivelazione di Dio in Cristo Gesù il quale <pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini> (Fil 2, 6-7). Se il movimento del Verbo non è quello di preservare e difendere i privilegi della sua propria condizione, i primi invitati della parabola non fanno che rimarcare potentemente il privilegio di essere chiamati per primi tanto che <uno dopo l’altro, cominciarono a scusarsi> (Lc 14, 18). Le scuse di questi invitati nascono dalla presunzione di non avere bisogno di partecipare al banchetto preparato da questo tale che non può assolutamente sopportare l’idea di mangiare da solo. I primi invitati hanno tutta l’aria di chi non solo ha da pensare ad altro e ha da fare altro, ma persino di chi è sottilmente infastidito da questa insistenza nell’invito: <Venite, è pronto> (14,17). All’ultimo appello del padrone di casa, fanno riscontro le “scuse” dei suoi invitati.

La reazione del padrone di casa è duplice: lo vediamo <adirato> e, al contempo, deciso a celebrare comunque il suo banchetto: <Esci subito per le piazze e le vie della città e conduci qui i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi> (14, 21). Potremmo chiederci la ragione dell’essere così <adirato> da parte del padrone di casa! Una ragione può essere il fatto di dover far subire, contrariamente al suo modo di essere e di pensare, un’ulteriore umiliazione a quei poveri, storpi, ciechi e zoppi cui deve rivolgere il suo invito quasi come fossero dei semplici sostituti. Se i primi invitati avessero declinato fin da subito le cose non sarebbero andate così!

Nondimeno non dobbiamo dimenticare che la parabola – come spesso avviene – è la risposta ad una domanda precisa: <Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!> (14, 15). Raccontando questa parabola il Signore ribadisce e chiarisce due cose. La prima: nel regno di Dio c’è posto per tutti tanto da fa risuonare una sorta di amorevole pressione: <costringili ad entrare perché la mia casa si riempia> (14, 23). Con la seconda ci mette in guardia dal pericolo non di essere esclusi, ma di escluderci dalla grande festa organizzata con cura dal Padre per ciascuno dei suoi figli. Dal Signore Gesù siamo chiamati ad imparare a non considerare un <privilegio> l’essere invitati ad una comunione così profonda con il Padre, ma a sentire la gioia di una partecipazione possibile alla stessa vita di Dio che non può mai essere in antitesi con il modo proprio di essere di Dio. L’umiliazione del Verbo non è una mortificazione fine a se stessa, ma è, al contrario, la necessaria conseguenza e la stupenda rivelazione della verità del volto di Dio che non è quella del <privilegio> di <essere come Dio>, bensì dell’assomigliargli talmente da rinunciare ad ogni apparenza di privilegio per condividere sempre più fraternamente il banchetto della vita. Come in un pezzo teatrale, anche in questa parabola ecco che al <servo> (Lc 14, 22) che diventa icona del <servo> (Fil 2, 7) viene affidato il messaggio più importante, quello che deve raggiungere il nostro cuore: <Signore, è stato fatto come hai ordinato, ma c’è ancora posto> (Lc 14, 22).

Consolazione

XXXI settimana T.O.

L’apostolo Paolo sembra sentire il bisogno di ricevere e di dare <consolazione> (Fil 2, 1). In questa ricerca, che corrisponde all’anelito più naturale e continuo del cuore umano, la prima lettura ci aiuta a comprendere come ogni consolazione non può che nascere da una sincera condivisione di conforto e non semplicemente dal soddisfare il proprio personale bisogno di essere consolati. In una delle preghiere più toccanti di Francesco d’Assisi – la cosiddetta Preghiera Semplice – il santo invoca il suo amato Signore chiedendogli di essere capace di consolare piuttosto che cercare di essere consolato. Il Signore Gesù lo dice in un altro modo, invitando quel <capo dei farisei che l’aveva invitato> (Lc 14, 12) non solo ad invitare generosamente piuttosto che aspettare di essere onorato da qualche invito, ma ad andare ancora più oltre: <quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti> (14, 13-14). Quello del Signore Gesù sembra un invito a trovare tutta la propria consolazione nella capacità e nel desiderio di fare della propria vita un dono per gli altri piuttosto che una ricerca del proprio benessere. 

In questo modo siamo invitati ad un duplice salto di qualità nella nostra vita. Prima di tutto si tratta di superare ampiamente e a piè pari la logica del <contraccambio> (14, 12) per entrare così nella logica di quella gratuità che è capace, per quanto ci possa costare in termini di dedizione e di cura, di dare al nostro cuore il balsamo della consolazione. Le parole conclusive della prima lettura rappresentano una vera sfida: <Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri> (Fil 2, 4). Il Signore Gesù, con quelle parole rivolte al notabile che si è degnato di invitarlo a casa sua, sembra rincarare la dose: non cercare l’interesse proprio, ma prima di tutto e soprattutto quello degli altri. Per arrivare a vivere con questo atteggiamento di fondo è necessario un cammino di liberazione interiore che esige un profondo lavoro su se stessi per non vivere più nell’attesa di un riconoscimento che ci venga da fuori di noi, ma che sta al profondo di noi stessi. Solo un simile processo interiore può darci la piena libertà di invitare continuamente tutti a condividere ogni briciola di vita e di gioia della nostra umana avventura facendo così della nostra esistenza una tavola imbandita.

Perché tutto ciò possa concretizzarsi nella nostra vita e incarnarsi nelle nostre relazioni, ci viene indicato anche lo stile necessario: l’umiltà. Il salmo ci dona una grande speranza su noi stessi che è quella di giungere ad avere un cuore <quieto e sereno> (Sal 130, 2) capace di trovare pace e gioia nelle realtà quotidiane senza guardare troppo e inutilmente <in alto> (130, 1). Si tratta di non scegliere più i nostri interlocutori tra quanti progettano la loro esistenza sui nostri stessi valori e servendosi dei nostri stessi parametri tanto da diventare uno specchio che riflette semplicemente la nostra immagine. Il Signore Gesù ci spinge, invece, oltre noi stessi, facendo saltare i nostri steccati e i nostri parametri per imparare a invitare alla mensa della nostra vita chi è diverso e ci provoca con la sua diversità a cambiare e ad arricchire il nostro orizzonte… a rendere la nostra tavola più interessante e fonte di autentica consolazione.

Non sei lontano

XXXI Domenica T.O.

Chi di noi non amerebbe ricevere personalmente la parola che il Signore rivolge allo scriba di cui ci parla il Vangelo: <Non sei lontano dal regno di Dio> (Mc 12, 34)? In questa parola del Signore vi è una delicatezza e un rispetto della cui squisita eleganza ci rimane in bocca il gusto e addosso il toccante profumo: non ce ne possiamo e non ce ne vogliamo liberare! In un contesto abbastanza virulento e aggressivo, che precede e segue questo incontro posto dopo l’ingresso di Gesù a Gerusalemme e nell’approssimarsi ormai della sua morte violenta, siamo di fronte alla possibilità – nonostante tutto – di parlarsi fino ad ammirarsi reciprocamente ripartendo dall’essenziale: <Tu amerai…> (Dt 6, 5). Di certo l’amore non si comanda eppure l’amore comanda tutta la vita fino a trasformarla. Questo verbo, che potremmo dire, è coniugato “al futuro” di speranza e di desiderio, non solo è conosciuto e proclamato dal Signore Gesù ma vissuto in una forma talmente assoluta per cui <può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio> (Eb 7, 25). Questo mistero di accostamento a Dio attraverso il Signore Gesù è proprio ciò che avviene in quella breve tregua che lo scriba concede con la sua domanda. Lo scriba e Gesù non si accontentano di una discussione accademica – troppo spesso sottilmente malevole – ma, mentre dialogano da <scriba> a <Maestro> (Mc 12, 32) trasformano delicatamente il futuro del comandamento nel presente dell’amore. Ci si potrebbe chiedere che cosa renda possibile tutto ciò? Ci si potrebbe interrogare su che cosa rende capaci di incontrarsi profondamente senza bisogno di eliminare l’elemento <lontano da> (12, 34) che resta ineludibile in ogni relazione umana e in ogni giusta relazione con <il regno di Dio vicino> (Mc 1, 15). Una risposta la troviamo proprio in quel comando su cui il comandamento si incastona: <Ascolta, o Israele> (Dt 6, 3 e 4). L’amore di Dio e del prossimo sarebbe impossibile senza questa disposizione di fondo all’ascolto e, nell’incontro tra lo scriba e Gesù, questo profondo ascolto reciproco è già un atto d’amore completo che non ha bisogno di niente altro: sufficiente a se stesso senza nessun bisogno di chiarire se stesso. Come dice, pieno di gratitudine, Guglielmo di St. Thierry rivolgendosi direttamente al Signore: <Tu mi hai fatto progredire fino a questo punto: desiderare di desiderarti e amare di amarti> e aggiunge <Perché la carità non fosse monca ci viene insegnato l’amore del prossimo, secondo la legge pura della carità>.

Tu n’es pas loin

XXXI Dimanche du T.O. 

Qui d’entre nous ne souhaiterait pas recevoir personnellement la parole que le Seigneur adresse au scribe dont parle l’Evangile : ” Tu n’es pas loin du Règne de Dieu ” ( Mc 12, 34 ) ? Dans cette parole du Seigneur il y a une délicatesse et un respect qui par son exquise élégance prolonge son goût en bouche et dépose sur nous son parfum émouvant : nous ne pouvons ni ne voulons-nous en libérer ! Dans le contexte assez virulent et agressif qui précède et suit cette rencontre après l’entrée de Jésus à Jérusalem et l’approche désormais imminente de sa mort violente, nous sommes face à la possibilité – malgré tout – de se parler jusqu’à s’admirer réciproquement en repartant de l’essentiel : ” Tu aimeras… ” ( Dt 6, 5 ). Bien sûr, l’amour ne se commande pas et même l’amour commande toute la vie jusqu’à la transformer. Ce verbe, qui, pourrions-nous dire est conjugué ” au futur ” de l’espérance et du désir, n’est pas seulement connu et proclamé par le Seigneur Jésus, mais vécu dans une forme tellement absolue pour celui qui ” peut sauver parfaitement ceux qui, grâce à Lui, s’approchent de Dieu ” ( He 7, 25 ). Ce mystère d’approche de Dieu par le Seigneur Jésus est justement ce qui arrive dans cette brève trêve que le scribe permet par sa question. Le scribe et Jésus ne se contentent pas d’une discussion académique – trop souvent légèrement malveillante – mais, pendant qu’ils dialoguent de ” scribe ” à ” Maître ” ( Mc 12, 32 ), ils transforment délicatement le futur du commandement dans le présent de l’amour. Nous pourrions nous demander ce qui rend possible tout cela ? Et nous interroger sur ce qui rend capable de se rencontrer profondément sans avoir besoin d’éliminer l’élément ” loin de ” ( 12, 34 ) qui reste inéluctable dans toute relation humaine et dans toute véritable relation avec ” le règne de Dieu proche ” ( Mc 1, 15 ). Nous trouvons justement une réponse dans cet ordre qui englobe le commandement : ” Ecoute, ô Israël ” ( Dt 6, 3 e 4 ). L’amour de Dieu et du prochain seraient impossibles sans cette disposition fondamentale à l’écoute, et, dans la rencontre entre le scribe et Jésus, cette profonde écoute réciproque est déjà un acte d’amour complet qui n’a besoin de rien d’autre : suffisant à soi-même sans aucun besoin de se clarifier. Comme le dit plein de gratitude Guillaume de St Thierry en s’adressant directement au Seigneur : ” Tu m’as fait progresser jusqu’à ce point : désirer te désirer et aimer t’aimer ” et il ajoute ” Pour que la charité ne soit pas écourtée, l’on nous enseigne l’amour du prochain, selon la pure loi de la charité “.

Piccoli

Commemorazione di tutti i fedeli defunti

La morte, nelle parole e nel cammino personale del Signore Gesù è sentita e annunciata come un appuntamento. Per questo si chiede e ci chiede di tenerci pronti per non mancare a questo prezioso momento che, se cambia radicalmente tutto indipendentemente da noi, può coronare il nostro cammino in questo mondo, non senza di noi. Il modo in cui il Signore Gesù prepara la sua morte è una scuola per noi di preparazione e, il modo, non è altro che quello della veglia di una grande festa: tutto è preparazione, desiderio. Pertanto la morte è ciò che desideriamo o è ciò che subiamo, cominciando a subire la morte di quanti amiamo sperimentando quel vuoto che stringe le viscere e fa piangere l’anima. Sappiamo tutti di avere un appuntamento ineluttabile con la morte, ma questo non può che essere vissuto come una maledizione o almeno come una costrizione se non comprendiamo che il limite posto dalla morte alla vita è la garanzia per noi di cercare il senso più autentico alla nostra esistenza.

La morte ci fa uguali e questo dovrebbe accendere in noi il desiderio di vivere da eguali. La morte ci ricorda che ci sarà un momento in cui non potremo più fare nulla, assolutamente nulla per noi stessi, e la scintilla del senso della nostra esistenza dipenderà totalmente dagli altri. Nel Vangelo, il Signore Gesù ci parla di <miei fratelli più piccoli> (Mt 25, 40). Certamente sono i poveri, i bisognosi, i feriti dalla vita… ma questi fratelli più piccoli sono anche i morti. Questi fratelli più piccoli – anzi i più piccoli in assoluto – siamo anche noi: i defunti di domani. Solo noi, ancora viventi, possiamo prenderci cura della memoria di quanti ci hanno preceduto nel segno di una vita compiuta. I morti non possono fare più nulla per se stessi se non quello che sono riusciti a lasciare nel nostro cuore come desiderio di mantenere viva la memoria. Per questo il modo in cui noi ci prendiamo cura dei morti è il segno distintivo del livello della nostra civiltà e, ancora più profondamente, della nostra fede che ci impedisce di diventare idoli di noi stessi, pensando che non ci sia nulla e nessuno prima di noi e dopo di noi.

L’appuntamento con la morte è un appuntamento quotidiano con l’amore, con la tenerezza, con la cura, con l’estrema compassione di non lasciare che nulla vada perduto dei frammenti di vita senza i quali la nostra vita non avrebbe alcun senso. È falso – ricorda il teologo e testimone fino al dono della vita Bonhoeffer – dire che Dio riempie il vuoto. Egli lo tiene aperto, aiutandoci a conservare la nostra antica reciproca comunione, sia pure nel dolore. La cura della comunione con i morti è la scuola di comunione con i vivi e un’autentica preoccupazione di trasmettere il dono della vita come una fiaccola accesa, e non come un tizzone spento e fumoso. Manteniamo dunque odorosa e profumata la nostra vita facendo tesoro del profumo che ci hanno lasciato i nostri cari e preparando noi stessi all’appuntamento della nostra morte perché non sia negazione, ma coronamento della nostra vita.

Profumo di santità

TUTTI I SANTI

Le parole del Veggente di Patmos ci fanno entrare nella festa di tutti i Santi con una nota che apparentemente suona quasi come una curiosità: <E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli di Israele> (Ap 7, 4). Sembra proprio che la solennità di Tutti i Santi riesca a stravolgere uno degli elementi fondamentali per la nostra cultura basata in gran parte sull’economia e, quindi, sui numeri. Nel regno di Dio che attendiamo i numeri sono sostituiti dal <numero> che, simbolicamente, invece di contare per mettere da parte, sembra essere capace di andare oltre ogni conteggio per aprirsi ad un orizzonte di assoluta inclusività. Dopo il numero dei segnati, il veggente vede ancora <una moltitudine immensa> (7, 9) che sembra avere in comune, con quanti già erano stati contati, la loro provenienza: <Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello> (7, 14). Ciò che fa la differenza e ciò che ci rende partecipi del numero innumerevole dei salvati per grazia è il fatto di aver saputo attraversare la <grande tribolazione>.

Questo ci permette di comprendere meglio il peso delle parole che il Signore Gesù pronuncia <vedendo le folle> (Mt 5, 1). Più volte il Signore Gesù pone il sigillo della parola <Beati> su situazioni della vita che apparentemente non hanno nulla di invidiabile o di desiderale. Soprattutto se si arriva a dire <Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia> (5, 11). Il Signore Gesù non augura ai suoi discepoli – né tantomeno a nessun altro – di essere degli sfortunati o, peggio ancora, degli incapaci a godere la vita. Invece si augura e ci augura che, attraverso tutte le situazioni della vita, possiamo e vogliamo custodire una relazione con Dio che ci permetta di cogliere la grazia di essere fino in fondo fedeli a noi stessi. Le beatitudini come fondamento e caleidoscopio di una santità possibile e desiderabile rifondano la nostra felicità non fuori di noi, ma nel più profondo di noi stessi.

L’apostolo Giovanni sembra commentare la visione dell’Apocalisse e lo sguardo posto dal Signore Gesù su quelle folle di cui facciamo parte con questa conclusione: <Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro> (1Gv 3, 3). Nel contesto della festa di oggi possiamo dire così: “santifica se stesso, come egli è santo”. Lungo questa giornata possiamo fare il punto della nostra santità cercando di non enumerare i nostri meriti, le nostre buone azioni o il progresso in questa o quella virtù – per questo dedichiamo un altro momento – ma per ritornare al nostro cuore e ripartire da ciò che siamo nel più profondo di noi stessi dove possiamo sperimentare la gioia impagabile di scoprirci <simili a lui> (3, 2). Come diceva Bernanos, non c’è nulla di difficile o di complicato nella santità, ma essa è simile ad un bicchiere di acqua fresca di cui ci scopriamo capaci di fare dono all’assetato che incrocia la nostra strada di ogni giorno senza neanche troppo accorgersene e senza mai programmarlo.

Infatti, la santità è la grazia straordinaria dell’ordinario in cui, giorno dopo giorno, accogliamo il dono della luce che viene da Dio. Attraversati da questa luce il nostro essere di carne, fragile, povero, talora così opaco, si fa diafano alla presenza di Dio che si dona a noi nella misericordia e nel perdono che ci rende beati perché perdonati. Lo ricorda con la sua arte poetica sublime Christian Bobin quando, paragonando la vita ad una musica oltre la partitura esulta: <questa musica senza musica, questo canto sublime della vita fragile, della vita povera, contrariata, assente, irresistibile>1. Lo stesso poeta ci fa uno schizzo del carattere inconfondibile dell’uomo-gioia che è il santo: <Umile e forte, faceva parte della razza di quelli che benedicono. La sua anima assolata diffonde attorno a sé un profumo di santità che si riconosce ad occhi chiusi, come un ramo di mimosa>2.


1. Ch. BOBIN, L’homme-joie, L’inconoclaste, Paris 2012, p. 52.

2. Ibidem, p. 59.

Vigore

XXX settimana T.O.

La parola dell’apostolo Paolo <Attingete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza> (Ef 6, 10) viene messa in pratica in modo emblematico dal Signore Gesù. Infatti, il Cristo non esita a prendere in mano la situazione senza lasciarsi in alcun modo intimidire tanto da dire con una chiarezza sorprendente: <Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io prosegua per il mio cammino> (Lc 13, 33). Non sapremo mai se quei <farisei> che si avvicinarono a Gesù per consigliargli di partire <perché Erode ti vuole uccidere> (13, 31) abbiano detto il vero, oppure abbiano barato per riuscire, finalmente, attraverso questa minaccia che avrebbe fatto tremare di paura ognuno di loro di incutere paura nel cuore del Signore. Pertanto sulle labbra del <figlio di Davide> le parole del salmo assumono tutto il loro vigore: <Benedetto il Signore, mia roccia, che addestra le mie mani alla guerra, le mie dita alla battaglia> (Sal 143, 1). La guerra del Signore non è fatta di prevaricazione e di violenza, ma di consapevolezza personale e chiarezza relazionale: <non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme> (Lc 13, 33). Con queste parole viene rivendicata l’unica signoria di Dio sulla storia e sugli eventi a cui nessuno – nemmeno <quella volpe> di Erode – può pensare di sostituirsi. Siamo di fronte ad un fulgido esempio di obiezione di coscienza che nasce da una libertà del cuore che non teme e non si lascia intimidire nella consapevolezza nitida che <La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le potestà, contro i dominatori di questo mondo tenebroso> (Ef 6, 12).

Al discepolo è richiesto lo stesso tenero vigore del suo Maestro. Il Signore Gesù, infatti, non teme e non si vergogna di protestare il suo amore: <quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina la sua covata sotto le ali> (Lc 13, 34) e al contempo non può che restare in piedi nel <vigore della sua potenza> (Ef 6, 10). Il primo grande passo del combattimento spirituale è di lottare contro ogni immaginifica vittoria conquistata con le nostre forze e contro ogni inutile battaglia contro il male che continuamente diagnostichiamo attorno a noi. Bisogna superare l’aggressività contro un <male esterno> e, ancora più urgentemente, bisogna <superare l’aggressività contro la propria personale impotenza>1. È veramente più facile di quanto si possa immaginare il fatto di odiare se stessi fino a farsi del male e rendersi così vulnerabili al male. Il salmo ci indica invece la via della vittoria nella fiducia.

Erode Antipa, usurpatore del trono di Davide, è come una <volpe> che si nasconde di giorno per cacciare di notte per cercare di sbarazzarsi – come già di Giovanni – anche del profeta Gesù. Ma il Signore Gesù non ha paura e per questo rischia di far paura proprio a chi sulla paura fonda il proprio potere <tenebroso> (Ef 6, 12). Povera volpe…!


1. J. PEGON, <La victoire du Christ>, in Christus 33 (1962) p. 22.

Fateli crescere

XXX settimana T.O.

Non possiamo nascondere un certo imbarazzo davanti alle parole di Paolo che in questi giorni accompagnano e guidano il nostro ascolto della Parola. Sembra che, alla fine, l’apostolo si limiti a ribadire quelle che sono le consuetudini – e perché no, i comodi! – vigenti nella cultura del suo tempo senza rivoluzionare realmente, alla luce della novità del Vangelo, quelle che sono i funzionamenti abituali della società: <Schiavi, obbedite ai vostri padroni terreni con rispetto e timore, nella semplicità del vostro cuore, come a Cristo> (Ef 6, 5). Se non sapessimo come venivano trattati gli schiavi nel mondo e nel tempo di Paolo, questa parola potrebbe sembrare persino toccante. Ma tutti ricordiamo la storia di Spartacus almeno dall’epoca delle elementari. Eppure, se siamo imbarazzati dobbiamo anche lasciarci interrogare da un modo forse diverso dal nostro di leggere le relazioni tra persone, da quelle più intime a quelle più istituzionali legate al lavoro e a tutti gli altri rapporti sociali. Sia all’interno della comunità familiare che nella società, l’apostolo sembra esortare ciascuno e non entrare in una logica di semplice emancipazione dalla propria condizione, ma di vivere fino in fondo il valore e la possibilità – comunque sempre sofferta – di portare il peso della relazione con l’altro.

A tutti e a ciascuno l’apostolo chiede di fare la propria parte fino in fondo sperando così che questa stessa volontà di fedeltà alla propria condizione e al proprio ruolo crei le condizioni dei cambiamenti più veri e profondi che fanno sperare in un futuro più bello e più vivibile per tutti. L’esortazione fatta ai <padri> potrebbe essere estesa a tutti nella misura in cui siamo responsabili – in vari modi e a vari livelli – di prenderci cura dell’altro: <fateli crescere> (6, 4). Questa parola evoca lontanamente il primo e il fondamentale dei comandi del Creatore: <crescete> (Gn 1). Alla luce di ciò possiamo dare un senso più ampio alla domanda che viene posta al Signore Gesù: <sono pochi quelli che si salvano> (Lc 13, 23)? La risposa del Maestro ci aiuta a non pensare alla salvezza in termini asfittici, ma come il respiro di una vita che si dilata e si dona sempre di più. Fare l’esperienza della salvezza significa, infatti, diventare capaci di creare dentro di sé e attorno a sé uno spazio non di <ingiustizia> (13, 27) ma di vita giusta per tutti tenendo conto di ciò di cui ciascuno ha bisogno nella concretezza della sua vita che non è mai riconducibile a misure troppo chiare e distinte.

L’ultima parola del Signore non solo suona come provocazione, ma forse è ciò che sta al fondo delle stesse esortazioni dell’apostolo apparentemente così scontate e, per molti aspetti, così conformiste: <Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi> (13, 30). Cerchiamo di <entrare per la porta stretta> (13, 24) che ci immette in quel meraviglioso flusso che <da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno> (13, 29) si muove come un’immensa processione di speranza verso l’unica <mensa> imbandita nel <regno di Dio> di cui tutti siamo commensali e al contempo servitori.