In cuor suo

XXXIV settimana T.O. –

Quest’ultima settimana dell’anno liturgico comincia con due racconti che, pur nella loro diversità, si richiamano non poco. Il breve e intenso racconto di <una vedova povera> (Lc 21, 29 per la quale il Signore non solo ha occhi, ma che viene additata come esempio ai suoi discepoli è preparato da un testo assai più lungo che riguarda lo stesso luogo: <Gerusalemme> e il <tempio di Dio> (Dn 1, 1-2) cinta d’assedio da Nabucodonosor e spogliata degli arredi sacri. Mentre si consuma la catastrofe della presa di Gerusalemme, il testo biblico sembra distogliere la nostra attenzione dai drammi della storia per concentrarla su ciò che avviene nell’intimo di quattro giovani – belli e intelligenti – che assumono il reale senza sacrificare la libertà della loro coscienza. Mentre tutto sembra scontato e quasi obbligato ad andare nella direzione voluta dai potenti della terra che facilmente diventano tiranni: <Daniele decise in cuor suo di non contaminarsi con le vivande del re e con il vino dei suoi banchetti e chiese al capo dei funzionari di non obbligarlo a contaminarsi> (1, 8). Il seguito del racconto non fa che confermare la scelta coraggiosa di Daniele e degli altri tre giovani <i quali rimasero a servizio del re> (1, 19) senza essere in alcun modo asserviti al re.

La piccola e povera donna che incontriamo nel Vangelo ci riporta all’essenziale di un atteggiamento nei confronti della vita, fatto di gratitudine capace di donare, attraverso il poco, il tutto. Le parole del Signore Gesù sono chiare e rappresentano un motivo di discernimento continuo ed esigente nella vita di ogni discepolo: <Tutti costoro, infatti, hanno gettato come offerta parte del loro superfluo. Ella invece, nella sua miseria, ha gettato tutto quello che aveva per vivere> (Lc 21, 4). Questa donna diventa per Gesù il modello e la profezia di ciò che tra poco dovrà vivere in prima persona nel suo dono pasquale e, al contempo, viene indicata ai discepoli – di ogni tempo e di ogni luogo – come luogo di confronto. Per essere capaci di agire come questa vedova è necessario essere capaci come Daniele di decidere nel proprio <cuore> per ripartire sempre dalle sue esigenze e dal suo respiro profondo che fa della nostra vita un luogo di incontro con Dio fino al dono dell’intera nostra vita.

Non c’è nessun disastro storico come la caduta di Gerusalemme e la profanazione del tempio, né alcuna povertà e o necessità che ci possa impedire di ascoltare e di obbedire alle esigenze e agli appelli del nostro cuore. Il mondo nuovo comincia sempre con il modo nuovo di attraversare il tempo facendone la porta dell’eternità. Certo questo modo di stare al mondo è più che entusiasmante, ma esige una chiarezza con se stessi e con il mondo ce ci circonda e non raramente fa pressioni su di noi che può essere assai costosa. L’immagina della vedova ammirata dal Signore Gesù può darci la chiave per comprendere in cosa consista l’eroismo del discepolo: essere decisi come il giovane Daniele e i suoi compagni senza mai smettere di essere discreti e umili come una povera vedova capace di dare tutto… di darsi tutta.

Tetragramma

Cristo Re dell’Universo

Alla nostra sensibilità rischia di risuonare come eccessiva e un po’ pedante l’insistenza dei nostri fratelli ebrei sull’impronunciabilità del nome di Dio rivelato a Mosè. Questo nome è formato da quattro consonanti che venivano vocalizzate dal sommo sacerdote, una sola volta l’anno nel Giorno dell’Espiazione, in mezzo ad una coltre impenetrabile di profumi e di incensi. Quattro lettere fanno la memoria di Israele come popolo di Dio – e segno in mezzo ai popoli – dell’immenso amore che l’Altissimo nutre per tutta l’umanità. Eppure, più o meno inconsciamente, nella nostra tradizione cristiana, abbiamo recuperato queste quattro lettere ponendole come cartiglio sulla croce, segno che riprende ciò che troviamo nel Vangelo: <Sopra di lui c’era anche una scritta: “Costui è il re dei Giudei”> (Lc 23, 38), enunciato su cui l’evangelista Giovanni indugia facendone l’ultimo motivo di tensione tra i Giudei e Pilato. Questa scritta è stata tradizionalmente abbreviata nella nostra tradizione latina così: <INRI>. Quattro lettere non più impronunciabili, ma ben più gravemente impensabili e persino temibili. Dire infatti che il nostro re sia quello che pende dalla croce è qualcosa che esige una presa di posizione non solo davanti al mistero della stessa, ma anche davanti al mistero dell’amore che è capace di arrivare <fino alla fine> (Gv 13, 1) e ben oltre ogni immaginabile fine. Giovanni Crisostomo commenta: <Il paradiso chiuso da migliaia di anni è stato aperto per noi “oggi” dalla croce. Infatti, oggi, Dio vi ha introdotto il ladrone. Compie, in questo, due meraviglie: apre il paradiso e vi fa entrare un ladro. Sicuramente, nessun re permetterebbe a un ladro o a un altro suo soggetto di sedersi con lui mentre fa il suo ingresso in una città. Questo, invece, Cristo l’ha fatto: quando entra nella sua santa patria, vi introduce un ladro insieme con lui>1.

Con la liturgia odierna portiamo a compimento non solo questo anno liturgico, ma pure il triennale ciclo liturgico che ci fa leggere, nel susseguirsi delle domeniche e delle feste, l’intero Vangelo. Così l’ultima parola è una verità, l’ultima e il fondamento di ogni percezione della verità che non è un’autorivelazione di Gesù, bensì l’adesione ad una relazione: <In verità io ti dico: oggi con me sarai in paradiso> (Lc 23, 43). Le parole che il Signore Gesù morente rivolge al ladrone sono come il riassunto di tutta la sua vita e la ricapitolazione di tutti i suoi gesti di accoglienza e di perdono su cui l’evangelista Luca insiste in un modo unico con le sue indimenticabili parabole – pensiamo a quelle del figliol prodigo – e i suoi magnifici gesti – pensiamo alla donna peccatrice e a Zaccheo-. Sotto la croce, o meglio sopra la croce, si consuma l’ultima tentazione di Cristo in cui possiamo riconoscere la tentazione sottile che attraversa sempre la nostra vita: la dimostrazione. Proprio a conclusione delle tentazioni nel deserto si dice che il <diavolo si allontanò dal lui fino al momento fissato> (Lc 4,13). Ed ecco il grande appuntamento in cui ciò che il Signore Gesù ha intuito nel suo tempo di deserto deve essere come assunto nelle sue estreme conseguenze. Ancora una volta e per ben tre volte – esattamente come nel deserto – ritorna il terribile <Se…> che accompagna la storia e il dramma della nostra libertà fin dal primo dialogo con il serpente (Gn 3).

Il Signore Gesù, come un vero re, dà udienza a tutti e dall’umilissimo trono della croce si mette in una posizione di così assoluta vulnerabilità da permettere a tutti e a ciascuno di esprimersi senza timore alcuni: tutti parlano e tutti si esprimono, <i capi>, <i soldati>, <uno dei malfattori> e anche <L’altro>. Nel mistero di questa festa ora tocca a noi di dire la nostra al Signore Gesù crocifisso…! La cosa più bella che potremmo dirgli è <Ecco noi siamo tue ossa e tua carne> (2Sam 5, 1). Così, in un amore riconosciuto e abbracciato, la croce si trasforma da patibolo in roveto ardente e la sua logica diventa il nostro tetragramma sacro, il nostro modo di concepire Dio e di concepire noi stessi: incapaci di fare nulla per gli altri, ma sempre disposti a vivere ogni cosa <con> (Lc 23, 43) chiunque incrocia il nostro cammino di uomini e donne. Se, infatti, accettiamo di condividere con tutti la <pena> (23, 40) di vivere ci ritroveremo, quasi per incanto, <nel paradiso> (23, 43) ormai <liberati dal potere delle tenebre> (Col 1, 13).


1. GIOVANNI CRISOSTOMO, Discorsi sulla Croce e il ladrone, 1, 2.

Tétragramme

Christ Roi de l’Univers –

L’insistance de nos frères hébreux sur l’imprononciabilité du nom de Dieu révélé à Moïse risque d’être excessive, voire un peu pédante à notre sensibilité. Ce nom est formé de quatre consonnes qui sont vocalisées par le Grand Prêtre, une seule fois dans l’année, le jour du Grand Pardon, au milieu d’une chape impénétrable de parfums et d’encens. Quatre lettres qui font la mémoire d’Israël en tant que peuple de Dieu – et signe au milieu des peuples – de l’immense amour que le Très-Haut nourrit pour toute l’humanité. Et, pourtant, plus ou moins inconsciemment, dans notre tradition chrétienne, nous avons récupéré ces quatre lettres, en les inscrivant sur un panneau au-dessus de la croix, signe qui reprend ce que nous trouvons dans l’Evangile : «  Au-dessus de Lui, il y avait un écriteau : «  Celui-ci est le roi des Juifs » ( Lc 23, 38 ), énoncé dont l’évangéliste Jean s’attarda créant ainsi l’ultime motif de tension entre les Juifs et Pilate. Cet écriteau a été traditionnellement abrégé  ainsi dans notre tradition latine : «  INRI ». Quatre lettres, non plus imprononçables, mais bien plus gravement impensables et même terribles. Dire, en effet, que notre roi est celui qui pend à la croix est quelque chose qui exige une prise de position non seulement face à ce mystère, mais aussi face au mystère de l’amour qui est capable d’arriver «  jusqu’à la fin » ( Jn 13,1 ) et bien au-delà même de l’imaginable. Jean Chrysostome commente : «  Le paradis fermé depuis des milliers d’années a été ouvert pour nous «  aujourd’hui » par la croix. En effet, aujourd’hui, Dieu y a introduit le larron. Il accomplit en cela deux merveilles : il ouvre le paradis et y fait entrer un voleur. Aucun roi, certainement, ne permettrait à un voleur ou à un autre de ses sujets de s’asseoir avec lui alors qu’il fait son entrée dans une ville. Mais, ceci, au contraire, Christ l’a fait : lorsqu’il entra dans sa sainte patrie, il y introduisit un voleur avec lui »1.

Par la liturgie de ce jour, nous portons à son accomplissement non seulement cette année liturgique, mais aussi le troisième cycle liturgique qui nous fait lire, dans la succession des dimanches et des fêtes, l’Evangile en entier. Ainsi, la dernière parole est une vérité, l’ultime et le fondement de toute perception de la vérité qui n’est pas une auto-révélation de Jésus, mais bien l’adhésion à une relation : «  En vérité, je te le dis : aujourd’hui tu seras avec moi au paradis » ( Lc 23, 43 ). Les paroles que le Seigneur Jésus, mourant, adresse au voleur, sont comme le résumé de toute sa vie et la récapitulation de tous ses gestes d’accueil et de pardon dont l’évangéliste Luc insiste de manière unique par des paroles inoubliables – pensons à celles du fils prodigue – et ses magnifiques gestes – pensons à la femme pécheresse et à Zachée -. Sous la croix, ou mieux, sur la croix, se consume la dernière tentation du Christ dans laquelle nous pouvons reconnaître la subtile tentation qui traverse toujours notre vie : la démonstration. C’est juste à la fin des tentations dans le désert que l’on dit que « le diable s’éloigna de lui jusqu’au moment fixé » ( Lc 4,13 ). Et voici  venu ce grand rendez-vous où doit être assumé ce que le Seigneur Jésus a initié au désert, en l’assumant jusqu’à son extrême conséquence. Une fois encore, et pour bien trois fois –  exactement comme au désert – revient le terrible : «  Si… » qui accompagne l’histoire et le drame de notre liberté  depuis le premier dialogue avec le serpent ( Gn 3 ).

Le Seigneur Jésus, comme un véritable roi, donne audience à tous et depuis le très humble trône de la croix se met ainsi dans une position d’absolu vulnérabilité pour permettre à tous et à chacun de s’exprimer sans aucune crainte : tous parlent et tout le monde s’exprime : «  les chefs », « les soldats », «  l’un des malfaiteurs » et même «  l’autre ». Dans le mystère de cette fête, c’est à notre tour de nous exprimer face au Seigneur Jésus crucifié… ! La plus belle chose que nous pourrons lui dire est «  Nous voici, nous sommes tes os et ta chair » ( 2 Sam 5, 1 ). Ainsi, dans un amour reconnu et embrassé, la croix se transforme  d’échafaud en buisson ardent et sa logique devient notre tétragramme sacré, notre façon de concevoir Dieu et nous-mêmes : incapables de ne rien faire pour les autres, mais toujours disposés à vivre chaque chose «  avec » ( Lc 23, 43 )  ceux qui croisent notre chemin d’hommes ou de femmes. En effet, si nous acceptons de partager avec tous la «  peine » ( 23, 40 ) de vivre, nous nous retrouverons, presque par enchantement, «  au paradis » ( 23, 43 ) désormais «  libérés du pouvoir des ténèbres » ( Col 1, 13 ).


1. JEAN CHRYSOSTOME, Discours sur la Croix et le voleur, 1,2.

Depressione

XXXIII settimana T.O. –

Compare oggi nella traduzione italiana di un testo biblico un termine che è molto familiare alla nostra esperienza e alle nostre vicissitudini: <depressione> (1Mac 6, 9). E il testo biblico parlandoci dell’epilogo della vita di Antioco, persecutore di coloro che volevano servire il Signore, così annota crudamente: <Il re …. si mise a letto e cadde ammalato per la tristezza, perché non era avvenuto secondo quanto aveva desiderato. Rimase così molti giorni, perché si rinnovava in lui una forte depressione e credeva di morire> (6, 8-9). Non solo la Scrittura ci parla della depressione facendoci così sentire meno soli e, per certi aspetti, meno originali rispetto a questo male oscuro che attanaglia l’anima riuscendo a devastare il corpo, ma ci svela pure la possibile origine di questo grave disagio: l’attaccamento a se stessi. La tristezza, infatti, per i santi Padri, è sempre il segno di un attaccamento a se stessi, al proprio punto di vista che diventa assoluto: l’idolatria dei propri <desideri> senza la disponibilità a purificarli e ad accettare che, talora, si realizzino pure i desideri degli altri.

In questo senso, da qualche parte, talora veramente nascosta e invisibile, si può nascondere – normalmente senza nostra colpa – un’idolatria di se stessi che, piuttosto di accettare di cambiare punto di vista e comportamento, invece di accettare gli inevitabili fallimenti della vita, opta per una morte – in tutti i sensi – che avviene nella <più profonda tristezza> (6, 13). Sì, in ciascuno di noi si nasconde un piccolo tiranno come Antioco che cerca, magari in modo assai inconsapevole ma non per questo meno pericoloso, di <impadronirsi> (6, 3) della vita invece di porsi a suo servizio. Assolutamente diverso è l’atteggiamento di quella <donna> (Lc 20, 32) il cui caso, i <sadducei> (20, 27), con grande disinteresse verso la persona di cui parlano, presentano a Gesù. Per i sadducei si tratta di capire – perché è attorno a questa logica che si organizza la loro vita – <di chi sarà moglie> (20, 33). Il Signore invece ribadisce che la differenza tra questo mondo e il nostro modo di pensare la vita, e il mondo e il modo di Dio, sta proprio nel superamento del bisogno di “prendere” per sé.

Di fatto, il Signore non risponde alla domanda dei sadducei circa il mondo a venire ma esorta ciascuno di noi ad entrare nella logica che presiede alla vita degli <angeli> e che ci fa <figli della risurrezione> (20, 36) già in questa vita: essa consiste nel non voler più <impadronirsi> (1Mac 6, 3) della vita altrui, quanto piuttosto nel mettere la propria vita a servizio di un incremento della vita di tutti. Questa donna si lascia prendere da <sette fratelli> (Lc 20, 29) senza opporre resistenza e, per certi aspetti, senza neanche entrare in depressione per questa sua attitudine a fare della propria vita un dono e non un profitto. Quando sentiamo serpeggiare nel nostro animo il sottile male della depressione, oltre a tutti i motivi per essere benevoli e pazienti verso noi stessi, chiediamoci pure da quali attaccamenti morbosi forse siamo chiamati a prendere le distanze per credere un po’ di più che <Dio non è Dio dei morti, ma dei viventi, perché tutti vivono per lui> (20, 38). Un modo – tra molti – per superare la depressione è quello di vivere per… come il Signore Gesù! Si potrebbe dire che il “povero” <Antioco> non ha compreso di essere figlio della risurrezione e si è talmente illuso di poter dirigere la sua vita fino ad immaginare di dominare il mondo da essere poi vittima di se stesso perché isolato in se stesso: <Rimase così molti giorni, perché si rinnovava in lui una forte depressione e credeva di morire> (1Mac 6, 9). In realtà era già morto!

Ogni giorno

XXXIII settimana T.O. –

L’evangelista Luca ci ricorda che il Signore Gesù <ogni giorno insegnava nel tempio> (Lc 19, 47). Questa parola possiamo custodirla come una rassicurazione che vale più di ogni assicurazione sulla vita: il Signore Gesù ogni giorno ci parla nel tempio del nostro cuore. Secondo l’insegnamento del Signore è il cuore ad essere il luogo delle nostre decisioni ed è dal suo intimo che viene fuori la verità di noi stessi la quale si esprime attraverso le nostre decisioni che rivelano la verità dei desideri cui accettiamo di fare spazio nella nostra vita. La citazione delle Scritture è per il Signore Gesù la via per comunicarci quello che è il suo desiderio per noi: <La mia casa sarà casa di preghiera> (19, 45). Il suo commento ci fa intuire che cosa sia veramente in gioco: <Voi invece ne avete fatto un covo di ladri>. La preghiera è il modo in cui ogni giorno rimettiamo ordine nella nostra vita ristabilendo continuamente il giusto posto per ogni relazione e per ogni emozione. Tra le realtà che fanno il senso e la bellezza del nostro vivere certamente si rende necessario di rimettere sempre al centro della nostra attenzione la relazione con l’Altissimo che ogni giorno ci richiama a convertire la nostra vita rimettendola in cammino verso l’essenziale.

La reazione dei notabili del popolo è amarissima, ma devono comunque arrendersi alla realtà: <tutto il popolo pendeva dalle sue labbra nell’ascoltarlo> (19, 48). Ogni giorno può diventare per noi il primo dei giorni di quella ricreazione interiore che comincia sempre con la decisione di rimetterci ad ascoltare il Signore per far sì che la sua parola ricrei le condizioni di una vita segnata dalla grazia e disponibile a condividere i doni ricevuti. La decisione di Giuda e i suoi fratelli potrebbe diventare la nostra scelta quotidiana: <andiamo e purifichiamo il santuario e a riconsacrarlo> (1Mac 4, 36). I <nemici> evocati nella prima lettura sono tutti quei pensieri, emozioni e decisioni che turbano fino a snaturare il nostro cuore. Una nota che troviamo nella prima lettura può trovare un’applicazione spirituale assai utile. Tra i riti celebrati per la riconsacrazione del Tempio è scritto che <Poi ornarono la facciata del tempio con corone d’oro e piccoli scudi. Rifecero i portoni e le celle sacre, munendole di porte> (4, 57). Se il tempio è il nostro cuore allora dobbiamo non solo ornarlo per abbellirlo ma pure per difenderlo. I <piccoli scudi> dell’attenzione e della vigilanza terranno lontane le frecce e i dardi dei pensieri cattivi e di tutte quelle distrazioni che ci rendono vulnerabili. Inoltre, non bisogna dimenticare che è necessario munire il cuore di <porte> per saper decidere con libertà e con discernimento ciò che permettiamo di far entrare nell’intimo della nostra vita e ciò che invece va tenuto accuratamente alla porta. In un mondo in cui sembra che tutto sia in vendita – il tempo, la possibilità di essere ascoltati e persino quella di essere amati, accuditi, iniziati alla vita e persino accompagnati nella morte – il Signore ci riapre il tempio della gratuità.

Distrazione

XXXIII settimana T.O. –

Le parole del Signore Gesù ci commuovono e ci interrogano profondamente: <Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace!> (Lc 19, 42). Raramente il Signore Gesù usa il <se>, ma in questo caso lo usa in tutta la sua carica emotiva che tocca e un po’ anche sconvolge il cuore. In realtà non si tratta di interpretare questa parola del Signore riducendone il significato al rifiuto dei suoi contemporanei di accogliere il suo messaggio così esigente fino ad essere percepito troppo scomodo. Si tratta di sentire come e quanto ogni giorno il cammino del Signore è <vicino> alla <Gerusalemme> (19, 41) del nostro cuore e si fa pressante invito alla necessità e alla bellezza di accogliere la sua presenza per la nostra vita che si rivela pacificante e, al contempo, dinamizzante. Eppure, sappiamo bene, come spesso il nostro cuore è distratto. Come annota in un verso rovente Christian Bobin: <perdiamo il paradiso per distrazione>.

Potremmo reagire alle parole irrorate di lacrime del Signore Gesù con un piccolo proposito: essere meno distratti, essere meno distratti da noi stessi. Solo così potremo sottrarci a quella terribile esperienza che fa della nostra cittadella interiore una città devastata dall’incuria interiore: <distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te, e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata>.

Non così <Mattatia e i suoi figli> (1Mac 2, 16) i quali sono capaci di cogliere la visita di Dio attraverso le esigenza ben dure delle situazioni della vita dando prova di saper vivere col fatto di non avere timore a decidere. Il primo passo di questa capacità è di non cedere alle lusinghe: <Tu sei uomo autorevole, stimato e grande> (2, 17). Mattatia non dimentica che la sua grandezza è direttamente proporzionale alla sua capacità di farsi piccolo davanti alle esigenze di un’alleanza che accompagna nella misura in cui si accetta che sempre ci preceda. Dante, nella Divina Commedia, parla anche di coloro che hanno passato la loro vita senza fare né il bene né il male, i quali <vissero per se stessi> tanto che il paradiso chiude loro la porta e l’inferno non li vuole fare entrare. La loro punizione è quella di correre nudi inseguiti da migliaia di api. Per l’eternità dovranno rammentarsi del fatto che non si può vivere senza prendere posizione cedendo alla distrazione che rimanda continuamente senza mai assumere il peso di una decisione. 

La vita ci mette di fronte a delle scelte e si tratta della pace da scegliere, la pace da coltivare, la pace da condividere: la pace di oggi che radica nell’attenzione di ieri e nel desiderio rinnovato che prepara l’avvenire. Non dobbiamo sbagliare campo di battaglia: è il nostro cuore. Non dobbiamo rimandare all’infinito: è per oggi!

Creatore

XXXIII settimana T.O. –

Possiamo veramente riconoscere in questa misteriosa e preziosa <moneta d’oro> (Lc 19, 16) la nostra vita che viene data come dono e affidata come qualcosa di cui siamo responsabili e di cui non possiamo abusare e, soprattutto, che non possiamo nascondere. Dei <dieci dei suoi servi> (19, 13) evocati all’inizio della parabola, in realtà, ne incontriamo solo due che riferiscono al loro padrone che la moneta ha fruttato nel primo caso <dieci> (19, 16) e nel secondo caso <cinque> (19, 18). Accanto a questi due servitori zelanti e intraprendenti si staglia la figura di <un altro> (19, 20) il quale confessa, con grande dovizia di particolari, che cosa ha scatenato nel suo cuore quel gesto di affidamento da parte del padrone che avrebbe richiesto una capacità di accoglienza e di impegno: <Signore, ecco la tua moneta d’oro, che ho tenuto nascosta in un fazzoletto; avevo paura di te, che sei un uomo severo> (19, 20-21). Il Vangelo non ci dice nulla degli altri sette servi che pure hanno ricevuto la moneta con la consegna di farla <fruttare> (19, 13). Possiamo legittimamente immaginare che qualcuno di questi altri servi non ce l’abbia fatta a far fruttare e che si sia presentato davanti al padrone con la semplice moneta che aveva ricevuto o, persino, senza più nulla perché gli affari della vita possono anche andare male. Eppure, ci sembra di poter immaginare l’eguale benevolenza di questo padrone che si dimostra spietato solo contro questa immagine falsata del suo cuore ed è profondamente ferito da quel servo che non è stato capace di intuire la sua benevolenza ed è rimasto chiuso nella sua <paura>.

L’esperienza dei fratelli Maccabei, unitamente alla loro madre <ammirevole e degna> (2Mac 7, 20), ci fa prendere coscienza del fatto che la moneta d’oro della vita, non solo può essere spesa, ma persino apparentemente sprecata purché ci sia una consapevolezza fiera della sua preziosità che, invece, sfugge ad <Antioco> (7, 24) troppo preso da se stesso e così insensibile al cammino di quanti sono capaci di credere nella vita e di sperare nel Creatore. La lezione che la madre trasmette ai suoi figli per sostenerli a non barattare il dono di un’esistenza degna e fiera è di rara intensità: <Non so come siate apparsi nel mio seno, non io vi ho dato il respiro e la vita, né io ho dato forma alle membra di ciascuno di voi. Senza dubbio il Creatore dell’universo, che ha plasmato all’origine l’uomo e ha provveduto alla generazione di tutti, per la sua misericordia vi restituirà di nuovo il respiro e la vita, poiché voi ora per le sue leggi non vi preoccupate di voi stessi> (7, 22-23).

Dalle parole di questa madre intrepida possiamo cogliere il segreto non solo per vivere, ma per vivere in pienezza. Questo segreto è la memoria di un Creatore che ci ha dato la vita come un dono talmente grande da dover immaginare che Egli stesso sia capace di rinnovare fino a reinventare continuamente questo dono, soprattutto quando qualcuno si arroga il diritto di mettersi al posto dell’Altissimo. La speranza della risurrezione diventa così il segreto stesso della vita. Se davanti al martirio di questi sette fratelli come dinanzi al mistero di ogni sofferenza innocente ci chiediamo dove sia Dio, la risposta la troviamo nel mistero indicatore e solutore di questo <viaggio> di cui ci parla il Signore Gesù nel Vangelo. Per questo non bisogna sottovalutare l’inquadratura della parabola. Quando tutti si aspettano che Gesù si manifesti come il Messia facendosi carico dei problemi di tutti, il Signore ci rimanda alla nostra responsabilità e alla necessità ineludibile del nostro impegno. In realtà si tratta di essere capaci come il Signore di trafficare fino all’ultimo e al massimo grado possibile la moneta d’oro che siamo.

Costretto

XXXIII settimana T.O. –

Nella prima lettura ci viene raccontato del <dignitoso> Eleazaro che viene <costretto ad aprire la bocca e a ingoiare carne suina> (1Mac 6, 18). Nel Vangelo incontriamo un uomo apparentemente meno dignitoso – essendo definito come peccatore e <ricco> – che viene costretto dal Signore Gesù a farsi toccare dalla sua misericordia fino a farsi trasformare più per osmosi che per forza. Per introdurci in questa meditazione del mistero di una costrizione che si fa dolce opportunità prima del Vangelo leggiamo ancora una volta un testo che, precedendo la lettura, ce ne da una chiave di interpretazione: <Dio ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati> (1Gv 4, 10). Di fatto è proprio questa divina prevenienza che sta al cuore dell’incontro tra il Signore Gesù e il <piccolo> Zaccheo, il quale nonostante il suo desiderio <di vedere chi era Gesù> (Lc 19, 3) deve imparare ed accettare di essere visto <per primo> dal Signore che passa non in modo distratto nella nostra vita ma in modo attento e amoroso per la nostra vita: <Gesù alzò lo sguardo…> (Lc 19, 5). San Gregorio Magno, facendo riferimento a Zaccheo, dice che <il sicomoro è considerato un fico pazzo> e aggiunge: <Zaccheo, che era basso di statura, salì dunque sul sicomoro e vide il Signore, poiché quanti scelgono umilmente ciò che è follia secondo il mondo, arrivano ad una contemplazione penetrante della Sapienza di Dio>1. Ma per noi tutti non è facile scendere dalla nostra pazzia che ci fa desiderare sempre di salire, perché questo ci dà l’impressione di vedere meglio la nostra vita poiché ci permette di controllare meglio la vita degli altri. Tutto questo è uno dei modi che noi escogitiamo <per attaccamento alla vita> (2Mac 6, 20). 

Ed ecco che il Signore <per primo> ci rivolge la parola e ci aiuta, come si fa con un bambino che si è imprudentemente arrampicato su un albero troppo alto, perché si possa scendere agevolmente per non farci male e accondiscendere al bene che ci viene proposto e offerto: <Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua> (Lc 19, 5). Forse Zaccheo non avrebbe mai avuto il coraggio di invitare Gesù nella sua casa ed ecco che è il Signore ad invitarsi per primo, permettendo a questo <capo dei pubblicani e ricco> (19, 2) di manifestare, finalmente, chi è veramente e che non è solo <un peccatore> (19, 7) ma un uomo in cammino e – proprio perché così piccolo di statura – quasi animato da un desiderio continuo di crescita. Alla stessa logica di crescita obbedisce la vita di <Eleàzaro, uno degli scribi più stimati, uomo già avanti negli anni e molto dignitoso nell’aspetto della persona> (2Mac 6, 18) il quale non cede alle lusinghe dei suoi “amici” che lo spingevano a <fingere di mangiare le carni sacrificate imposte dal re> (6, 21).

Veramente c’è sempre tempo e modo di crescere in fedeltà come Eleàzaro, e in generosità come Zaccheo, e questo nella misura in cui facciamo esperienza di quanto e di come Dio ci abbia amati per primo (cfr. 1Gv 4, 10) tanto da costringerci ad un atto di onore che ci obbliga a fargli spazio nella nostra casa anche mettendo a rischio la nostra reputazione e perfino la sussistenza di quel modo di vita cui siamo ormai abituati.


1. GREGORIO MAGNO, Commento morale a Giobbe, 46, 79.

Sedotti

XXXIII settimana T.O. –

La prescrizione del re non lascia scampo: <che tutti formassero un solo popolo e ciascuno abbandonasse le proprie usanze. Tutti i popoli si adeguarono agli ordini del re> (1Mac 1, 41-42). In realtà come si vede nella conclusione del testo non proprio tutti si adeguarono al desiderio di quella <radice perversa> (1, 10) che imperversò nel mondo attorno a Israele come un uragano di seduzione. Se non tutti si lasciarono sedurre non furono pochi coloro che furono ammaliati dall’autostima di una cultura – in questo caso quella ellenistica – che sottilmente vanta la propria superiorità fino a comunicare agli altri un senso di inferiorità. Viene ricordato con una data precisa <Nell’anno centoquarantacinque, il quindici di Chisleu> il momento in cui fi innalzato <sull’altare un abominio di devastazione> (1, 54). Eppure, sarebbe stato a tutti evidente, soprattutto ai sapienti formati a culto della ragione, che il modo di sentire e di servire Dio in Israele era, di certo, più elevato e meno superstizioso. Eppure, la seduzione è un meccanismo che fa sentire l’attrazione per ciò che soddisfa la propria superficialità anche a prezzo di sacrificare la propria sapienza. Per questo <Stracciavano i libri della legge che riuscivano a trovare e li gettavano nel fuoco> (1, 56). Nella storia più volte e da più parti si è cominciato con il bandire e il bruciare i libri prima di bandire le persone e sopprimere la gioia della diversità.

Di tutt’altro tenore è ciò che avviene sulla strada che porta a Gerico ove <un cieco seduto lungo la strada a mendicare> (Lc 18, 35) percepisce il passaggio di Gesù come si percepisce l’avvicinarsi di una raggio di sole anche ad occhi chiusi: illumina e scalda. L’annuncio che viene dato a questo cieco è l’annuncio che può ridare speranza alla nostra vita: <Passa Gesù, il Nazareno!> (18, 36). E quando il Signore passa nella nostra vita non lo fa con l’aria del seduttore che si impone, ma con l’atteggiamento di chi, avendo occhi e cuore per l’altro, sa lasciarsi toccare fino a fari fermare dalla sofferenza e dal desiderio: <Gesù allora si fermò e ordinò che lo conducessero da lui> (18, 40). Un testo di Gregorio Magno ci porta al cuore dell’esperienza del cieco che diventa la nostra stessa chiamata: <Attraverso l’impegno attivo della nostra vita seguiamo quel Gesù che percepiamo nella nostra anima. Guardiamo con attenzione la strada attraverso cui egli cammina e seguiamone le tracce imitandolo. Perché seguire Gesù, significa imitarlo>1.

Imitare il Signore Gesù significa prendere continuamente le distanze da quell’atteggiamento seduttivo che troviamo nella prima lettura per essere capaci di mettersi in ascolto del bisogno e del desiderio dell’altro fino a riconoscerne tutta la preziosità inviolabile: <La tua fede ti ha salvato> (18, 42).


1. GREGORIO MAGNO, Omelie sui Vangeli, II, 2, 8.

In mezzo

XXXIII Domenica T.O.

Le parole con cui il Signore Gesù ci accompagna verso la fin di questo anno liturgico possono stupire, ma in realtà non stupiscono affatto. Ciò di cui parla il Signore, infatti, non è nulla di nuovo, le cose che presenta ai suoi ascoltatori, sono realtà terribilmente ordinarie nella vita della nostra umanità, sia a livello esterno e catastrofico come possono essere i terremoti, sia per quanto riguarda le tragedie relazionali che si consumano nell’ambito delle nostre relazioni più care. In tal modo il Signore ci chiede di non lasciarci distrarre dagli eventi che sembrano straordinari per rimanere attenti, vigilanti e profondamente centrati sul centro della nostra interiorità, comprendere quale sia il nostro posto, e non lasciarlo – per nessun motivo – fino all’ultimo. La consegna non lascia dubbi: <Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita> (Lc 21, 19). Il regno di Dio, infatti, si realizza e si compie non nella sospensione o peggio ancora nella fuga dal nostro vissuto, ma “in mezzo” a tutto ciò che fa la nostra vita e quella dei nostri fratelli e sorelle in umanità.

L’apostolo Paolo non solo smorza le grandi attese escatologiche dei cristiani di Tessalonica, ma li esorta a non trasformare il desiderio e l’attesa del ritorno del Signore in un pretesto per non vivere fino in fondo le proprie responsabilità storiche, esistenziali e solidali. Anche in questo caso la consegna è chiara: <ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità> (2Ts 3, 12). Se è vero che attendiamo con desiderio grande il compiersi delle promesse e l’avvento del Regno rimane pur vero che in Cristo Gesù è stato rivelato che il regime in cui tutto ciò si può e si deve dare è quello dell’incarnazione e dell’impegno nella storia. Ciò che ci permette di guadagnare l’orizzonte escatologico è in termini di libertà e di verità, non in termini di estraniamento né di superficialità o, peggio ancora, cedendo alle gramaglie della sublimazione.

La storia non è una realtà che dobbiamo come subire in attesa che si consumi e, per così dire, ci assolva così dal grave compito di attraversarla e di trasformarla. La sfida non è quella di cominciare il conto alla rovescia della fine della storia, ma di cominciare ogni mattina a dare il proprio apporto alla storia come se fosse il primo giorno e come se fosse anche l’ultimo… come se fosse l’unico. È al cuore delle nostre vite che si incrociano magnificamente il mondo presente e quello che attendiamo nella fede, nella speranza e nell’amore. È proprio facendo esperienza dei più grandi desideri che portiamo dentro, con il necessario confronto con ciò che è segnato, invece, dal limite, dalla caducità e dall’effimero, che il Regno di Dio si costruisce oltre noi, ma mai senza di noi. Ogni situazione può e deve diventare così <occasione> per <dare testimonianza> (Lc 21, 13). Il profeta Malachia ci ricorda, con immagini forti, come <tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia> e che <quel giorno, venendo, li brucerà> (Ml 3, 19). Badiamo dunque di non lasciarci <ingannare> (Lc 21, 8) prima di tutto da noi stessi e poi dalla paglia dei nostri desideri effimeri e dei nostri possenti egoismi di cui <non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta> (21, 6).