In mezzo

XXXIII Domenica T.O.

Le parole con cui il Signore Gesù ci accompagna verso la fin di questo anno liturgico possono stupire, ma in realtà non stupiscono affatto. Ciò di cui parla il Signore, infatti, non è nulla di nuovo, le cose che presenta ai suoi ascoltatori, sono realtà terribilmente ordinarie nella vita della nostra umanità, sia a livello esterno e catastrofico come possono essere i terremoti, sia per quanto riguarda le tragedie relazionali che si consumano nell’ambito delle nostre relazioni più care. In tal modo il Signore ci chiede di non lasciarci distrarre dagli eventi che sembrano straordinari per rimanere attenti, vigilanti e profondamente centrati sul centro della nostra interiorità, comprendere quale sia il nostro posto, e non lasciarlo – per nessun motivo – fino all’ultimo. La consegna non lascia dubbi: <Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita> (Lc 21, 19). Il regno di Dio, infatti, si realizza e si compie non nella sospensione o peggio ancora nella fuga dal nostro vissuto, ma “in mezzo” a tutto ciò che fa la nostra vita e quella dei nostri fratelli e sorelle in umanità.

L’apostolo Paolo non solo smorza le grandi attese escatologiche dei cristiani di Tessalonica, ma li esorta a non trasformare il desiderio e l’attesa del ritorno del Signore in un pretesto per non vivere fino in fondo le proprie responsabilità storiche, esistenziali e solidali. Anche in questo caso la consegna è chiara: <ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità> (2Ts 3, 12). Se è vero che attendiamo con desiderio grande il compiersi delle promesse e l’avvento del Regno rimane pur vero che in Cristo Gesù è stato rivelato che il regime in cui tutto ciò si può e si deve dare è quello dell’incarnazione e dell’impegno nella storia. Ciò che ci permette di guadagnare l’orizzonte escatologico è in termini di libertà e di verità, non in termini di estraniamento né di superficialità o, peggio ancora, cedendo alle gramaglie della sublimazione.

La storia non è una realtà che dobbiamo come subire in attesa che si consumi e, per così dire, ci assolva così dal grave compito di attraversarla e di trasformarla. La sfida non è quella di cominciare il conto alla rovescia della fine della storia, ma di cominciare ogni mattina a dare il proprio apporto alla storia come se fosse il primo giorno e come se fosse anche l’ultimo… come se fosse l’unico. È al cuore delle nostre vite che si incrociano magnificamente il mondo presente e quello che attendiamo nella fede, nella speranza e nell’amore. È proprio facendo esperienza dei più grandi desideri che portiamo dentro, con il necessario confronto con ciò che è segnato, invece, dal limite, dalla caducità e dall’effimero, che il Regno di Dio si costruisce oltre noi, ma mai senza di noi. Ogni situazione può e deve diventare così <occasione> per <dare testimonianza> (Lc 21, 13). Il profeta Malachia ci ricorda, con immagini forti, come <tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia> e che <quel giorno, venendo, li brucerà> (Ml 3, 19). Badiamo dunque di non lasciarci <ingannare> (Lc 21, 8) prima di tutto da noi stessi e poi dalla paglia dei nostri desideri effimeri e dei nostri possenti egoismi di cui <non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta> (21, 6).

Au milieu

XXXIII Dimanche T.O. –

Les paroles avec lesquelles le Seigneur Jésus nous accompagne vers la fin de cette année liturgique peuvent étonner, mais, en réalité, elles ne surprennent pas du tout. Ce dont parle le Seigneur, n’est, en fait, rien de nouveau, les choses qu’il présente à ses auditeurs sont des réalités terriblement ordinaires dans la vie de notre humanité, soit  d’un point de vue extérieur et catastrophique, comme peuvent l’être des tremblements de terre, ou en ce qui concerne les tragédies relationnelles qui se jouent dans le contexte de nos relations les plus chères. De cette façon, le Seigneur nous demande de ne pas nous laisser distraire par les événements qui semblent extraordinaires, pour rester attentifs, vigilants et profondément concentrés sur le point central de notre intériorité et comprendre quelle est notre place, sans l’abandonner – sous aucun prétexte – jusqu’à la fin. La consigne ne laisse aucun doute : «  Par votre persévérance, vous sauverez votre vie » ( Lc 21, 19 ). En effet, le règne de Dieu se réalise et s’accomplit, non par l’arrêt ou pire encore par la fuite de notre vécu, mais «  au milieu » de tout ce qui fait notre vie et celle de nos frères et sœurs en humanité.

L’apôtre Paul, non seulement atténue les grandes attentes eschatologiques des chrétiens de Thessalonique, mais il les exhorte à ne pas transformer le désir et l’attente du retour du Seigneur en un prétexte pour ne pas vivre entièrement ses propres responsabilités historiques, existentielles et solidaires. Dans ce cas aussi, la consigne est claire : « Nous vous recommandons de gagner le pain en travaillant avec tranquillité » ( 2 Th 3, 12 ). S’il est vrai que nous attendons avec un grand désir l’accomplissement de la promesse et l’avènement du Règne, il est également vrai qu’il a été révélé dans le Christ Jésus et que le schéma prévu pour que tout cela puisse et doit se réaliser est l’incarnation et l’engagement dans l’Histoire. Ce qui nous permet de rejoindre l’horizon eschatologique est, en termes de liberté et de vérité, non en termes  d’éloignement ni de superficialité, ou, pire encore, en cédant aux chants des sirènes de la sublimation.

L’Histoire n’est pas une réalité que nous devons subir en attendant, pour ainsi dire, qu’elle se consume ou qu’elle nous absolve de l’important devoir de la traverser et de la transformer. Le défi n’est pas de commencer le compte à rebours à partir de la fin de l’Histoire, mais de commencer chaque matin à donner notre propre contribution à l’Histoire, comme si c’était le premier jour ou aussi le dernier…comme si c’était l’unique. C’est au coeur de nos vies que se croisent magnifiquement le monde présent et celui que nous attendons dans la foi, l’espérance et l’amour. C’est justement en faisant l’expérience des plus grands désirs que nous portons en nous, au contact de l’affrontement nécessaire  de ce qui nous est indiqué par les limites, la précarité et le provisoire, que le Règne de Dieu se construit malgré nous, mais jamais sans nous. Chaque situation peut et doit devenir ainsi « une occasion » pour «  donner un témoignage » ( Lc 21, 13 ). Le prophète Malachie nous rappelle par de fortes images combien «  tous ceux qui commettent l’injustice seront comme de la paille » et que «  le jour venu, Il les brûlera » ( Mi 3, 19 ).  Soyons donc prudents de ne pas nous laisser « tromper » ( Lc 21, 8 ) tout d’abord par nous-mêmes et ensuite par la paille de nos désirs éphémères et de nos puissants égoïsmes dont «  il ne restera pas pierre sur pierre : tout sera détruit » ( 21, 6 ).

Strada

XXXII settimana T.O. –

La memoria dell’Esodo si fa profezia quotidiana per aiutare, sostenere e orientare il nostro cammino, attraverso i tempi e le stagioni della vita, verso una più profonda esperienza di libertà e di verità: <il Mare Rosso divenne una strada senza ostacoli e i flutti violenti una pianura piena d’erba> (Sap 18, 7). Lasciandoci ispirare da questo versetto della Sapienza per interpretare la parabola del Signore Gesù <sulla necessità di pregare sempre> (Lc 18, 1), potremmo immaginare la preghiera come l’arte di spianare la strada alla vita! La forza della <vedova> (18, 3) di cui ci parla il Signore Gesù sta proprio nella sua disperazione. In realtà questa donna non ha più niente da perdere ed è proprio per questo che può permettersi il “lusso” della povertà di andare <continuamente> (18, 5) ad importunare il giudice che, al contrario, ha da perdere almeno il suo tempo e la sua quiete. Il fatto che il Signore Gesù faccia ricorso all’immagine di una vedova importuna e la offra come modello non solo di preghiera, ma – prima ancora – di vita, non può lasciarci insensibili.

Il cammino del credente sembra essere quello di spianare continuamente una strada facendo sì che emerga la <terra asciutta> proprio <dove prima c’era acqua> (Sap 18, 7). In tal modo la preghiera diventa il luogo di trasformazione per eccellenza e non il modo per sottomettere se stessi ad una cieca e, troppo sovente, triste rassegnazione. Aprire il proprio cuore a Dio, manifestando i propri bisogni e presentando le proprie necessità, è prima di tutto un atto di coraggio che ci permette di fare la nostra professione di fede in una speranza mai sopita: le cose, le realtà, persino le persone e, prima di tutto noi stessi, possono e possiamo cambiare, devono e dobbiamo accettare di essere trasformate. Già questo passo verso la speranza che si fa preghiera e implorazione è, per certi aspetti, un sottile esaudimento della preghiera. Questo perché la preghiera non ci fa soggiacere in modo passivo, ma ci sottrae alla tentazione di farci complici di quella muta rassegnazione che sarebbe tanto gradita a quanti assomigliano a quel <giudice che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno> (Lc 18, 2).

La preghiera è capace di far crollare il muro dell’indifferenza e dell’autoreferenzialità, per questo, ben aldilà del suo esito puntuale e visibile, è la più grande e la più duratura forma di resistenza a tutto ciò che rischia di imprigionare nella palude del <Mar Rosso> (Sap 18, 7). In questo mare infido rischia di annegare la speranza e di essere annientata la libertà di desiderare e di immaginare un futuro migliore o, almeno, diverso. Per questo, se la preghiera è un fuoco capace di discernere come <spada affilata> (18, 15) ogni ripiegamento sul proprio piccolo ego, ha bisogno – per divampare – della scintilla della fede come apertura a un di più e a un diverso che sempre disturba e rimette in cammino, come il popolo stretto nella disperazione di trovarsi con il mare davanti e il Faraone alle spalle. Allora la domanda del Signore Gesù è veramente una <spada>: <Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà troverà la fede sulla terra?> (Lc 18, 8). La fede è, infatti, come una strada si cui camminare e senza la quale ogni cammino sarebbe impensabile.

Affascinati

XXXII settimana T.O. –

Cosa c’è di più bello e di più santo che essere <affascinati> (Sap 13, 3) dalla <bellezza> dell’universo, come pure essere emozionati da tutte le bellezze che abitano il nostro cuore di umani? Eppure, la Sapienza ci mette in guardia dal rischio di fermarci troppo presto e di lasciarci così irretire <dall’apparenza> solo <perché le cose viste sono belle> (13, 7). L’invito è di partire dal fascino per andare oltre, verso una comprensione sempre più piena del mistero della vita in cui si riflette il dono generoso di Dio come Creatore e <sovrano> (13, 8) di tutte le cose. Ciò che l’Altissimo si aspetta da noi non è, certo, una servile sottomissione alla sua gloria, bensì un pieno esercizio dei doni di cui, nella creazione e nella redenzione, ci ha ricolmati perché potessimo portarli a pienezza con la nostra intelligenza e il nostro amore. L’esortazione della Sapienza suona come un continuo ampliamento della coscienza: <pensino quanto è superiore il loro sovrano, perché li ha creati colui che è principio e autore della bellezza> e ancora <pensino da ciò quanto è più potente colui che li ha formati> (13, 3-4).

Questo appello alla nostra intelligenza di creature è un atto di rispetto e di onore verso di noi da parte del Creatore il quale esige, come ricambio, il fatto che sappiamo fare tesoro delle nostre possibilità senza fermarci troppo in fretta alle apparenze tanto da confondere il segno con il Significato. Se cadessimo in questa trappola non faremmo che confonderci su noi stessi come avvenne ai tempi dei patriarchi: <mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca e venne il diluvio e li fece morire tutti> (Lc 17, 27). Forse il vero motivo di questo disorientamento così radicale è che i nostri padri avevano scambiato se stessi per degli <dèi> (Sap 13, 3). Pietro Crisologo commenta così l’atteggiamento di Dio: <Al momento del diluvio, la sua vendetta purificò la terra dal male che sembrava ormai così inveterato. Per questo chiamò Noè a generare un mondo nuovo, lo incoraggiò per questo con dolci parole. Così lo onorò con la sua fiducia familiare, lo istruì con bontà sul presente e lo consolò, con la sua grazia, riguardo al futuro. Piuttosto che dargli degli ordini lo rese partecipe del suo progetto e racchiuse così nell’arca il seme del mondo intero, affinché l’amore della sua alleanza facesse superare il timore della schiavitù cosicché una comunione d’amore potesse conservare ciò che lo sforzo comune era riuscito a salvare>1.

Ancora continua il dramma di ciò che potremmo definire il mistero continuo e sempre presente della salvezza della nostra umanità in cui siamo personalmente e perennemente coinvolti. Il Signore ci consegna la regola perché <l’ignoranza> (Sap 13, 1) non ci inganni: <Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà; ma chi la perderà, la manterrà viva> (Lc 17, 33). Una vita viva è sempre rivelazione di Dio, ma ciò che ci rende veramente vivi come <il fuoco o il vento o l’aria veloce> (Sap 13, 2), è il saper dare la vita ritrovando continuamente, a contatto e alla scuola della verginale bellezza della natura, la nostra remota consapevolezza che è la nostra gioia più segreta: essere creature di Dio, affascinate dalla sua infinita bellezza e non prigioniere della propria piccola prestanza.


1. PIETRO CRISOLOGO, Sermoni, 147; PL 52, 594.

Veloce

XXXII settimana T.O. –

Il Signore risponde alla provocazione degli scribi e dei farisei con una nota che ha persino qualcosa di comico: <Vi diranno: “Eccolo là”, oppure “Eccolo qui”; non andateci, non seguiteli. Perché come la folgore, guizzando, brilla da un capo all’altro del cielo, così sarà il Figlio dell’uomo nel suo giorno> (Lc 17, 23-24). Come i farisei all’epoca di Gesù e i profeti di ventura e sventura di tutti i tempi, anche noi siamo tentati di programmare in giorni, più o meno vicini o più o meno lontani, la manifestazione del regno di Dio. Ma nulla e nessuno possono tenere sotto controllo l’irrompere della presenza di Dio nel nostro quotidiano tanto da renderlo un anticipo reale di ciò che attendiamo e speriamo. Per sostenere e rettificare ogni nostra attesa, il Signore Gesù non ci tiene nell’ignoranza, né consegna il nostro cuore ad un’inutile sospensione: <Perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi!> (17, 21). A questo punto potremmo riprendere, versetto per versetto, la prima lettura e pregare come una litania, applicando le qualità della Sapienza di Dio – al suo rivelarsi in Cristo Signore – come piena manifestazione del suo essere presente non solo in mezzo a noi, ma prima di tutto e soprattutto, dentro di noi.

Forse la prima di queste qualità potrebbe essere questa: <La sapienza è più veloce di qualsiasi movimento, per la sua purezza si diffonde e penetra in ogni cosa> (Sap 7, 24). Per questo motivo non è assolutamente possibile controllarne o dirigerne il movimento. Al contrario, l’unico modo è di lasciarsi prendere dal suo flusso di vita, tanto da entrare completamente nel movimento di quella grazia che <E’ effluvio della potenza di Dio ed emanazione genuina della gloria dell’Onnipotente; per questo nulla di contaminato penetra in essa> (7, 25). Quello che la Sapienza indica come <effluvio> per noi ha un volto e un nome: Gesù! La sua presenza non è qualcosa che possiamo inseguire o dirigere a nostro piacimento, ma solo accogliere con gratitudine e umiltà poiché veramente è <più radiosa del sole e supera ogni costellazione>, come pure <paragonata alla luce risulta più luminosa> (7, 29).

Non ci sarebbe nulla di più ridicolo che andare a caccia di stelle come i bambini, con le loro reti, vanno gioiosamente a caccia di farfalle. Davanti al cielo trapuntato di stelle l’unico atteggiamento serio e degno è quello della contemplazione, dell’ammirazione, dell’accoglienza. Così per il mistero del regno di Dio la domanda giusta non è <Quando verrà…?> (Lc 17, 20). La questione è di mettersi nella condizione di accogliere il “come” – concreto e quotidiano – con cui il Regno di Dio si invera nella nostra vita e nella nostra storia: <Ma prima è necessario che egli soffra molto e venga rifiutato da questa generazione> (17, 25). È qui che si fa la differenza: nella capacità di accogliere il dono del regno di Dio nella forma in cui il Signore Gesù ce lo ha annunciato e lo ha reso presente alla nostra vita nella sua persona. Sì, è la croce che <governa a meraviglia l’universo> (Sap 8, 1) e <passando nelle anime sante, prepara amici di Dio e profeti> (7, 27).

Sempre Lui

XXXII settimana T.O. –

Forse, in realtà,  è lo stesso Signore – lui che è anche l’unico verso buon samaritano (Lc 10, 33) – ad essere questo unico lebbroso che torna per ringraziare. In ogni modo, tra quell’unico che tornò indietro sui suoi passi e il Signore Gesù, possiamo riscontrare un’intesa senza la quale nessuna esperienza di profonda e totale salvezza sarebbe mai possibile. Non per altro è a quest’uomo che il Signore rivolge la parola, una parola che riconosce, normalmente, la bontà e la verità dell’intuizione e del cammino: <Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato> (Lc 17, 19). Siamo ammirati e conquistati da quest’uomo che ritorna sui suoi passi e che, dopo l’incontro personale e così grato con il Signore Gesù, non solo non enfatizza l’elogio che gli viene accordato, ma neppure – approfittando e amplificando la lode di cui è oggetto – mette in cattiva luce i suoi compagni di malattia che sono divenuti compagni di guarigione. Del resto non poteva essere molto diverso! Nella sventura poteva accompagnarsi ad altri, ma una volta guariti dalla lebbra, i suoi compagni l’hanno lasciato solo non solo a ringraziare, ma pure a vivere, perché egli è <samaritano> e, in certo modo, ai loro occhi resta “lebbroso”. 

E allora, proprio e solo allora, questo samaritano riesce a comprendere che l’unico con cui può condividere la sua esperienza e la sua gratitudine è il Signore Gesù, esperto di ogni debolezza e fine conoscitore di ogni emarginazione, soprattutto quella dovuta agli imperativi religiosi. La domanda sembra naturale, ma forse è ben più gravida di conseguenze di quanto si possa immaginare a prima vista: <E gli altri nove dove sono?> (17, 17). Si potrebbe parafrasare a questo punto ciò che la Sapienza dice di quanti sono posti più in alto e parlare di quanti sono stati oggetto di una benevolenza e di una grazia veramente particolari: <poiché il giudizio è severo contro coloro che stanno in alto. Gli ultimi infatti meritano misericordia, ma i potenti saranno vagliati con rigore> (Sap 6, 5-6).

Come può insinuare il Signore Gesù che i nove lebbrosi non hanno la fede? Di fatto non hanno atteso di essere guariti per presentarsi ai sacerdoti, ma vi sono andati direttamente sulla sua parola… non sono i sacerdoti che danno la guarigione ma solo la constatano (Lv 14). In una parola i dieci lebbrosi mettendosi in cammino dimostrano tutta la loro fede, ma ciò che fa la differenza è la capacità di riconoscenza. Il Samaritano tornando indietro dice che per lui lodare Dio e ringraziare Gesù sono cose inseparabili. Tutto questo rivela ciò che manca agli altri nove: la capacità di essere solidali con il loro “fratello” samaritano. Con lui hanno condiviso la supplica, ma, una volta guariti, lo lasciano tornare sui suoi passi da solo visto che non sarebbe potuto entrare al tempio con loro perché: <Era un Samaritano> (Lc 17, 16). Una reminiscenza del Vangelo secondo Giovanni ci aiuta a cogliere la più grande profondità di questo episodio perché i notabili del popolo, a corto di accuse e di tranelli, non troveranno di meglio – ossia di peggio – che scagliarsi contro Gesù con queste parole: <Non diciamo con ragione che sei un Samaritano e hai un demonio?> (Gv 8, 48). Per aprire a tutti la via della vita, non solo il Cristo si è fatto buon samaritano di tutte le nostre ferite, ma ha accettato – per noi e per la nostra salvezza – di farsi considerare anche “cattivo samaritano”… sempre Lui!

.

Provati

XXXII settimana T.O. –

La prima lettura spinge lo sguardo del nostro cuore fino a quello che viene indicato come <il giorno del loro giudizio> (Sap 3, 7). Da parte sua il Signore Gesù, nel vangelo, ci fa cogliere non solo e non tanto il tempo, ma anche il modo con cui saremo giudicati nel nostro essere meno degni dell’<incorruttibilità> (2, 23) e dell’<immortalità> (3, 4). Sono queste due nozioni non radicate né radicali nella sensibilità di Israele e che tuttavia, a poco a poco, soprattutto al tempo della predicazione del Signore Gesù, diventano un criterio di discernimento della bontà e della verità del proprio rapporto con Dio. Vivere pienamente questo rapporto con l’eterno, non si limita più ad un corretto modo di comportarsi nel tempo, un modo che garantirebbe una vita serena e felice, ma è qui considerato talmente profondo e vero da avere – in modo del tutto naturale – una valenza eterna. Il concetto di eternità così caro agli Egizi e ai Greci diventa sempre di più anche l’orizzonte della fede di Israele: <In cambio di una breve pena riceveranno grandi benefici> (3, 5).

La solenne promessa non è scevra da qualche malinteso e da una certa ambiguità. Non si tratta infatti di un contrappasso tale per cui più si soffre in vita e più si dovrebbe godere nel futuro di Dio. Si tratta invece di un modo di concepire la vita – che comunque rimane un’avventura da vivere fino in fondo – qui e ora – senza rimandi inutili, e pur sempre con una certezza di pienezza.  Ciò che fa la differenza non è una sorta di “fachirismo” spirituale spinto ad oltranza che, pur con le sue punte di originalità e di venerabilità, ha segnato tante esperienze di fedeltà al Vangelo lungo i secoli, ma è il fatto di essere <provati> e <trovati degni di sé> (3, 5). Ed è a questo che ci invita il Signore Gesù, come è su questo che ci esamina: sulla nostra capacità di essere <degni di sé>! Il modo per capirlo sembra essere assai semplice: <Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”> (Lc 17, 10).

Si può intendere questa parola del Signore come l’invito ad una muta e subìta sottomissione, oppure come il modo per manifestare il proprio essere <provati> (Sap 3, 5) nella relazione. Una matura e provata relazione è capace di accettare la sfida di mettere sempre l’altro al primo posto, non facendo troppo caso a se stessi e, al contempo, giocando interamente se stessi in relazione all’altro, per manifestare la verità della propria identità. L’immagine del padrone che non sente neppure il bisogno di ringraziare perché si arroga il diritto di essere servito – nel linguaggio parabolico – può sembrare un po’ dura: <Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?> (Lc 17, 9). In realtà non è del padrone che il Signore ci vuole parlare, bensì di noi chiamati ad essere a nostro agio in un atteggiamento sereno di servizio che non si interessa dell’intemperanze di chi comanda, ma della dedizione con cui si serve l’altro, manifestando così di non ritenersi in nulla il centro del mondo. La sfida è di accettare il proprio ruolo vivendo fino in fondo il compito che la vita ci ha affidato senza troppe complicazioni. Tutto questo può sembrare duro, talora è anche un po’ ingiusto, eppure è l’unico modo per essere liberi davvero.

Pensare al Signore

XXXII settimana T.O. –

Se l’inizio della sapienza è il timore del Signore, è molto bello notare come, secondo il libro della Sapienza di cui cominciamo oggi la lettura liturgica, tutto ciò comincia con una dolce esortazione: <pensate al Signore con bontà d’animo e cercatelo con cuore semplice> (Sap 1, 1). Il Signore Gesù, con la sua parola e i suoi gesti di attenzione e di misericordia, sembra modulare in modo ancora più preciso il senso e il modo di questo pensare al Signore. Questo pensare si fa ricerca del Signore secondo tutte le Sapienze in cui si nasconde e si rivela un raggio dell’unica divina Sophìa. Infatti, sembra che il modo più vero ed efficace di pensare al Signore sia imparare a pensare come il Signore: <Se il tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli>. Per evitare ogni riduzionismo della carità e della generosità, il Signore si premura di aggiungere: <E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: “Sono pentito”, tu gli perdonerai> (Lc 17, 3-4).

Questa parola del Signore sulla necessità di perdonare, senza smettere mai di essere disposti a rinnovarne il dono, è come una perla incastonata tra due altre parole. La prima è una presa di coscienza del reale, assai dura e perentoria: <E’ inevitabile che vengano scandali…> (17, 1), cui segue un’esortazione altrettanto radicale: <State attenti a voi stessi!> (17, 2). La seconda è la reazione dei discepoli che, in realtà, è una preghiera accorata: <Accresci in noi la fede!> (17, 5). Tenendo insieme il respiro della prima lettura con quello del Vangelo possiamo così dire che la sapienza di cui abbiamo bisogno per orientarci tra gli inevitabili <scandali> con cui dobbiamo fare i conti nella vita e nella storia, è la fede. Essa ci permette veramente di apprendere, non senza fatica, a pensare, e quindi ad agire, come il Signore, imparando a coniugare – sapientemente ed efficacemente – la lucidità su ciò che avviene dentro di noi e attorno a noi, senza mai cedere alla tentazione di diventare cinici o, peggio ancora, spietati 

La risposta del Signore Gesù, all’accorato appello dei discepoli, è generosa e pacificante: <Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare” ed esso vi obbedirebbe> (17, 6). La Sapienza sembra quasi applaudire con quel versetto con cui, ogni anno, ci introduciamo nell’Eucaristia della solennità di Pentecoste: <Lo Spirito del Signore riempie la terra e, tenendo insieme ogni cosa, ne conosce la voce> (Sap 1, 7). Lo Spirito del Signore riempie anche il mare ed è capace di colmare tutti i fossati che la vita, con le sue vicissitudini, crea nel nostro cuore fragile. Come pure, talora, allarga e approfondisce i fossati nelle nostre relazioni mai facili. Eppure nulla è impossibile se lasciamo che l’Altissimo non solo sia <testimone> (1, 6) dei nostri <sentimenti> più veri, ma ne diventi anche l’ispiratore e la guida.

Fuori

Dedicazione del Laterano

Il Vangelo scelto per accompagnare questa festa un po’ stupisce: invece di essere la decantazione della bellezza e dell’importanza del luogo sacro in cui cerca Dio nella speranza di incontrarlo, sembra proprio il contrario: <Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio> (Gv 2, 15). Il Signore Gesù sembra comportarsi come un “buttafuori” e davanti a questo gesto così forte da ricordare lo stile profetico di Geremia sempre alle prese con la questione del Tempio, <i Giudei presero la parola> (2, 18). Il testo che accompagna questa liturgia sembra pensato da Giovanni come un paradigma di quello che è tutto il ministero del Signore Gesù che, profeticamente, rivela un modo nuovo di comprensione del rapporto con Dio che si esprime in particolare nel modo di vivere il segno e i segni del culto. Il Vangelo comincia così: <Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme> (2, 13) e si conclude con questa nota che, posta all’inizio del Vangelo non può che essere fondamentale per la sua comprensione: <Quando fu poi risuscitato dai morti…> (2, 22).

Come tutti gli aspetti della vita di fede, così pure il modo di vivere il culto e di costruire e abitare i luoghi della preghiera devono obbedire ad una logica pasquale e non ad una logica, per così dire, sacerdotale e sacrale. L’apostolo Paolo sembra quasi metterci in guardia: <Ma ciascuno stia attento a come costruisce> (1Cor 3, 10) e aggiunge <nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo> (3, 11). Rimane aperta la domanda se sia il santuario a rendere santi i fedeli, o i fedele a rendere santo il tempio. Sempre, entrando in una chiesa per pregarvi personalmente o per partecipare alla liturgia comune, facciamo esperienza di sentirci un poco più vicini al Signore e al mistero della sua presenza in noi e tra di noi. Ogni volta che ci sentiamo un poco più vicini non possiamo che farci sempre più prossimi per far sì che la fragile pietra che siamo diventi forte e fondata a motivo della prossimità con il Signore della nostra vita che abita in mezzo al suo popolo. L’unico fondamento è Cristo ed è lui che oltre a dare la solidità della pietra dona pure la vivificante acqua che permette la vita e il dinamismo di vita secondo la parola del profeta: <vidi che sotto la soglia del tempio usciva acqua verso oriente, poiché la facciata del tempio era verso oriente> (Ez 47, 1). Così siamo come delle pietre vive che affondano le loro radici nell’acqua nella ferma speranza di poter germogliare. Per questo dobbiamo tenerci legati a Cristo come le pietre l’una sull’altra e l’una con l’altra si poggiano sulla pietra di fondazione, ma siamo anche chiamati a lasciare che il Signore scacci da noi tutto ciò che impedisce alla pietra del nostro cuore di aderire totalmente a Lui: come il muratore pulisce le pietre prima di stendervi la malta e accostarle le une alle altre nella speranza che diventino una sola cosa.

Il segno che la Chiesa è fondata su Cristo è che sia un luogo di vita e il sintomo della vita è ciò che si canta nel salmo responsoriale: <Un fiume rallegra la città di Dio>. La Chiesa che i santi Padri definiscono come il Paradiso ritrovato è allietata da quel <fiume> che è Cristo e diventa così capace di rallegrare ed allietare l’umanità intera offrendosi come un luogo sereno, quasi un porto sicuro.

Dehors

Dédicace du Latran –

L’Evangile choisi pour accompagner cette fête nous étonne un peu : au lieu d’être la décantation de la beauté et de l’importance du lieu sacré où l’on cherche Dieu dans l’espoir de le rencontrer, c’est vraiment le contraire : «  Se faisant un fouet de cordes, il les chassa tous du Temple » ( Jn 2, 15 ). Le Seigneur Jésus semble se comporter comme un « videur » et, face à ce geste si fort qui rappelle le style prophétique de Jérémie toujours concernant la question du Temple, «  Les Juifs prirent la parole » ( 2, 18 ). Le texte qui accompagne  cette liturgie est pensé par Jean comme un paradigme de ce qui représente tout le ministère du Seigneur Jésus qui révèle, prophétiquement, une façon nouvelle de compréhension du rapport à Dieu qui s’exprime, particulièrement, dans la manière de vivre le signe et les signes du culte. L’Evangile commence ainsi : «  La Pâque des Juifs approchait et Jésus monta a Jérusalem » ( 2, 13 ) et se termine par cette annotation qui, mise au début de l’Evangile ne peut qu’être fondamentale pour sa compréhension : «  Quand il ressuscita d’entre les morts… » ( 2, 22 ).

Comme tous les aspects de la vie de foi, la manière de vivre le culte et de construire et habiter les lieux de la prière, doit aussi obéir à une logique pascale et non à une logique, pour ainsi dire, sacerdotale et sacrée. L’apôtre Paul nous met en garde : «  Que chacun soit attentif à sa construction » ( 1 Co 3, 10 ) et il ajoute «  personne ne peut proposer une fondation différente de celle qui s’y trouve déjà : Jésus Christ » ( 3, 11 ). La question reste ouverte : est-ce le sanctuaire qui rend les fidèles saints ou les fidèles qui sanctifient le temple ? En entrant dans une église pour y prier personnellement ou pour participer à la liturgie commune, nous faisons toujours l’expérience de nous sentir un peu plus proches du Seigneur et du mystère de sa présence en nous et entre nous. Chaque fois que nous nous sentons un plus plus proches, nous ne pouvons qu’approcher de la pierre fragile que nous sommes pour qu’elle devienne forte et fondée sur la proximité avec le Seigneur dans notre vie, lui qui habite au milieu de son peuple. La seule fondation est le Christ et c’est Lui qui, en plus de donner la solidité de la pierre, donne aussi l’eau vivifiante qui engendre la vie et le dynamisme de vie selon la parole du prophète : « Et voici que des eaux sortaient de dessous le seuil  de la maison, du côté de l’orient, car la face de la maison regardait l’orient. »  ( Ez 47, 1 ). Nous sommes, ainsi comme des pierres vivantes qui fondent leurs racines dans l’eau de la ferme espérance de pouvoir germer. Pour cela nous devons rester liés au Christ, comme les pierres s’entassent l’une sur l’autre et l’une contre l’autre sur la pierre de fondation, mais nous sommes aussi appelés à permettre au Seigneur  de nous débarrasser de tout ce qui empêche la pierre de notre coeur d’adhérer totalement à Lui : comme le maçon nettoie les pierres avant d’y étaler le mortier et de les emboîter les unes aux autres dans l’espoir qu’elles deviennent un ensemble unique.

Le signe que l’Église est fondée sur le Christ est qu’elle est un lieu de vie et le symptôme de cette vie est ce que l’on chante dans le psaume responsorial : «  Un fleuve réjouit la cité de Dieu ». L’Église et les saints Pères définissent comment le Paradis retrouvé  est égayé par ce «  fleuve » qui est le Christ et devient ainsi capable de rendre l’humanité tout entière joyeuse s’offrant comme  un endroit serein, quasiment, un port sûr.