Guardare

XXXIV settimana T.O. –

Nella prima lettura troviamo un continuo invito ad aguzzare la vista e sembra che il profeta Daniele sia proprio un uomo capace non solo di guardare, ma anche di osservare, fino a comprendere oltre le stesse cose che cadono sotto i suoi occhi. In questo modo egli può cogliere il senso più profondo di ciò che gli eventi della storia non solo rivelano, ma pure segretamente preparano: <Io Daniele, guardavo nella mia visione notturna…> (Dn 7, 2). Per ben sette volte, nella prima lettura, si evoca la capacità e la volontà del profeta di guardare con una tale profondità da essere in grado di andare ben oltre le apparenze e far maturare – nonostante tutto il peso di minaccia che le varie bestie sembrano incutere – una speranza ancora più grande: <Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunge fino al vegliardo e fu presentato a lui> (7, 13). L’esempio di Daniele ci obbliga ad un serio esame di coscienza sul rischio di avere sempre gli occhi aperti sulla realtà e sulla storia che ci passa davanti attraverso un inarrestabile flusso di immagini e di suggestioni. Quando è così, siamo incapaci di vedere – in realtà – alcunché, quasi prigionieri e spesso persino accecati da una superficialità che rischia di renderci insensibili.

Sembra proprio che guardare e vedere in modo profondo e avvertito sia un dovere che non si improvvisa, ma ha bisogno di una lunga preparazione. E non solo. Questa visione necessita di una vera abitudine – per nulla abitudinaria – ad andare oltre le apparenze, ingaggiando una sorta di diuturno combattimento spirituale contro la superficialità in tutte le sue manifestazioni: le più evidenti, come quelle delle bestie evocate dal profeta Daniele o le più sottili e ancora più invisibili dei germogli, evocate dal Signore Gesù nel Vangelo: <Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che il regno di Dio è vicino> (Lc 21, 31). Pertanto, non basta vedere con gli occhi o sentire con le orecchie. Per discernere i segni dell’irruzione del Regno di Dio nella nostra storia è necessario maturare nella capacità di intra-vedere, fino ad essere profeticamente capaci di ultra-vedere. Nel battesimo siamo stati unti con il crisma che ci ha reso profeti, re e sacerdoti. Ciò comporta, per ogni battezzato e discepolo del Signore Gesù, un dovere di profezia posta al cuore della storia perché essa possa realmente diventare, non semplicemente l’evidenza di eventi che si succedono quasi casualmente, ma il respiro di una coscienza sempre più affinata: <Osservate la pianta di fico e tutti gli alberi: quando già germogliano, capite voi stessi, guardandoli, che ormai l’estate è vicina> (21, 29-30).

Quando il fico, la cui spettrale veste invernale non lascia alcun posto a nessuna illusoria speranza, germoglia, è segno che tutti gli altri alberi faranno ben presto altrettanto e che il raccolto dei frutti si avvicina, assicurando non solo la continuità, ma pure la gustosità della vita. Come discepoli di Cristo Signore, educati quotidianamente alla scuola del Vangelo, siamo chiamati a presagire i tempi e i modi di una speranza senza la quale tutto rischia di soccombere in un’invincibile tristezza.

Liberazione

XXXIV settimana T.O. –

Sembra la fine di tutto. Eppure, è solo la fine di un mondo che vede le sue potenze sconvolte. Il Signore più volte ha accennato al suo ritorno al termine della storia di questo mondo. Se è vero che <le potenze del cielo saranno sconvolte> (Lc 21, 27), nondimeno questa è solo la cornice di un quadro dove ciò che positivamente colpisce è l’avvento del Signore <con grande potenza e gloria> (21, 28). Il Signore rinnova per noi il suo avvento proprio quando un mondo inteso come modo di intendere e vivere la propria storia volge necessariamente e giustamente al termine. Il Signore non ci invita a tremare, ma ci chiede di sperare: <risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina> (Lc 21, 28). A questo punto la domanda si fa urgente per prendere coscienza da che cosa dobbiamo essere liberati. Forse abbiamo bisogno di essere liberati dalla presunzione di avere il controllo di tutta la situazione o dalla pretesa di avere la verità in tasca. La Parola di Dio offertaci attraverso la Liturgia di quest’oggi ci fa scendere con Daniele nella fossa dei leoni e là ci rendiamo conto di come, magnificamente, l’innocenza interiore di Daniele viene riconosciuta dai leoni dopo essere stata calpestata dai notabili del re Dario.

Non si fa nessuna fatica a sentire con quale dolore il re ordinò <che si prendesse Daniele e lo si gettasse nella fossa dei leoni> (Dn 6, 17). Così pure non è difficile immaginare con quali sentimenti il Signore Gesù si lanci in ciò che ha tutta l’aria di essere una minaccia in grande stile: <Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti> (Lc 21, 25). Come se non bastasse, quasi per colpire ancora più direttamente e duramente, il Signore sembra sentire il bisogno di entrare nel dettaglio di quelli che saranno i sentimenti più profondi e più inquietanti: <mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra> (Lc 21, 25). Queste parole non vogliono gettarci nell’angoscia, ma hanno di mira il tentativo di difenderci dalla fossa della superficialità e della dimenticanza. Infatti, se una <liberazione> è attesa e sperata, allora è segno che un’oppressione è attraversata e, perciò stesso, qualcosa di negativo è stato vinto.

Non è certo la minaccia che sta a cuore al Signore, bensì la consapevolezza. Nondimeno, spesso, per crescere in consapevolezza si rende necessario una certa durezza che ci fa uscire da quel sonno spirituale che, se incontrastato, rischia di farci scivolare – ignari – nella morte. Possiamo spiritualmente porci con Daniele per un’intera notte <nella fossa dei leoni> (Dn 6, 17) e far emergere le paure bestiali da cui ci sentiamo circondati e minacciati. Solo così potremo sperimentare cosa sia e in cosa veramente consista la nostra <liberazione>. Una domanda attraversa naturalmente e giustamente il nostro cuore: che cosa ha reso possibile a Daniele di ammansire quei leoni che, invece, <si avventarono> contro i suoi accusatori e le loro famiglie <e ne stritolarono tutte le ossa> (Dn 6, 26)?

La risposta la troviamo all’inizio della prima lettura: <alcuni uomini accorsero e trovarono Daniele che stava pregando e supplicando il suo Dio> (6, 12). Ciò che può ammansire dentro di noi e attorno a noi quanto invece rischierebbe altrimenti di ucciderci, è la preghiera! Sembra saperlo persino il re nel momento stesso in cui è costretto a far gettare Daniele nella fossa dei leoni: <Quel Dio, che tu servi con perseveranza, ti possa salvare!> (6, 17). La preghiera mantiene il nostro cuore in un atteggiamento di fede nei confronti di Dio che, per la sua profondità, si comunica agli animali irrazionali e persino alle cose inanimate tanto che, tutto ciò che ci può fare del male può trasformarsi in un mezzo e un’occasione per sperimentare ancora più <vicina> la <liberazione> (Lc 21, 28). 

Perseverare

XXXIV settimana T.O. –

Perseverare esige la capacità di consegnare la propria umana avventura accettando di lasciare che le cose della nostra esistenza seguano il flusso della vita. Solo così invece di essere terrorizzati come il re di cui ci parla la prima lettura, saremo consolati come discepoli sereni e fedeli. Per quanto i passaggi della vita possano sembrare talora duri e spesso così incomprensibili, la parola del Signore Gesù ci accompagna e ci guida in un lavoro di continua interpretazione che non riguarda soltanto i testi sacri, ma anche gli eventi della vita: <Avrete allora occasione di dare testimonianza> (Lc 21, 13). Questa frase ha il duplice sapore della constatazione e della consegna perché viene posta a conclusione di una serena presa di coscienza del fatto che <Metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome> (21, 12). Quello che la vita e la storia possono farci subire, sembra essere un argomento che ci riguarda molto meno di ciò che noi saremo in grado di far dare alle costrizioni della vita, come frutto generoso maturato al sole della libertà e dell’amore. Così possiamo intuire la verità dell’apparente contraddizione nelle parole del Signore, una contraddizione che ci promette, al contempo, una sicura persecuzione, persino all’interno dei vincoli più sacri e amati, senza omettere di rassicurarci in modo tanto radicale da dire: <nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto> (21, 18). 

Infatti, nulla che ha come origine l’esercizio generoso e leale della libertà e dell’amore andrà perduto, non perché non cadrà come un capello, ma perché qualcuno lo raccoglierà e lo conserverà, rendendolo così memoria di una vita donata a tal punto… da sembrare perfino sprecata. Vi è una preziosità che può, infatti, sfuggire all’occhio umano soprattutto se accecato dall’amor proprio, ma in nessun modo sfugge all’Altissimo. Il dramma di Baldassàr è quello della leggerezza e della superficialità. Quando, infatti, <comandò che fossero portati i vasi d’oro e d’argento che suo padre Nabucodonosor, aveva asportato dal tempio di Gerusalemme, perché vi bevessero il re e i suoi dignitari, le sue mogli e le sue concubine> (Dn 5, 2), forse non aveva neppure intenzioni coscientemente sacrileghe, quanto piuttosto la voglia di mostrare la sua ricchezza e lo splendore dei bottini di suo padre. Ma <In quel momento apparvero le dita di una mano d’uomo, che si misero a scrivere sull’intonaco della parete del palazzo…> tanto che <il re cambiò di colore> (2, 5-6).

Era sfuggito al re che quei vasi non erano semplicemente contenitori preziosi, ma erano segno di qualcosa di più grande, di più bello, di immensamente più vero del <grande banchetto> (2, 1) da lui imbandito. Il <vino> dell’ebbrezza di sé non poteva essere contenuto dai vasi che erano stati testimoni della grandezza trascendente dell’Altissimo. Così l’occasione per pavoneggiarsi si trasformò, per Baldassàr, nella necessaria presa di coscienza del limite del suo fragile e apparente potere: <Mene, Tekel, Peres> (2, 25). L’unica via per dare consistenza alla nostra vita è di coltivare il senso profondo delle cose, trasformando ogni piccolo evento in una tappa e in un’occasione di crescita. Il monito del Signore diventa una bussola: <Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita> (Lc 21, 19) e nulla, proprio nulla, andrà <perduto> (21, 18) se sapremo rischiare di sembrare sprecati.

Fine

XXXIV settimana T.O. –

Il Signore Gesù non ci vuole lasciare nell’ignoranza e non vuole che cediamo alla confusione interiore che, il terrore di non saper discernere il significato reale degli eventi, può seminare nel nostro cuore. La parola di Gesù è un monito a mantenere la calma e la lucidità della mente attraverso l’esercizio della purezza del cuore: <Badate di non lasciarvi ingannare> (Lc 21, 8). Il profeta Daniele, interpretando il sogno del Nabucodonosor, ci offre una chiave per comprendere, a nostra volta, i segni che ritmano il nostro cammino attraverso il tempo: <come il ferro non si amalgama con l’argilla fangosa> (Dn 2, 43). Questa parola di Daniele diventa così un criterio di discernimento da applicare alla nostra vita personale come pure agli eventi della storia. Ci sono realtà che apparentemente sono provviste di una forza impressionante, ma – in realtà – sono segnate da una debolezza costituzionale che, nell’apparenza dell’onnipotenza, già celano la debolezza più estrema.

Il sogno di Nabucondosor, cui Daniele dà una <spiegazione> che è <degna di fede> (2, 45), diventa nel Vangelo il segno del Tempio. Proprio <mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi>, Gesù ne preannuncia la distruzione fino a dire che <non sarà lasciata pietra su pietra che son sarà distrutta> (Lc 21, 6). Il Tempio di Gerusalemme, segno della fede di Israele nel Dio unico che è il Dio dei Patriarchi e dei Profeti, e quasi una denuncia architettonica dell’idolatria degli altri popoli, alla fine non solo sembra subire la stessa sorte di quella <statua enorme, di straordinario splendore> (Dn 2, 31), ma persino peggiore. L’origine di ogni rovina è la confusione tra l’inevitabile fine di ogni realtà umana – nel senso di naturale conclusione – e di ogni esperienza storica per quanto gloriosa: il fine di ogni vita e di ogni avvenimento.

Per questo il Signore ci mette in guardia da noi stessi e dalle nostre paure che spesso ci fanno ingigantire le cose futili e rimpicciolire quelle essenziali: <Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine> (Lc 21, 9). In questo modo, l’unico Maestro ci ricorda che prima di tutto bisogna intercettare e perseguire il fine della nostra umana avventura. Ogni generazione – non esclusa la nostra – fa esperienza della fine del mondo, poiché ogni tratto di storia deve misurarsi con la propria crescita e con il proprio tramonto. Per questo tutti dobbiamo misurarci con la fine del mondo e del modo a cui siamo abituati e a cui siamo spesso tenacemente attaccati. L’esperienza di fede e la nostra fedeltà a Cristo dovrebbero darci la forza e la lucidità di saper assumere e portare il tramonto del nostro proprio modo di concepire la vita e di immaginare la storia, così che, quello che può sembrare in un primo momento una vera catastrofe, può rivelarsi, invece, come un’impagabile opportunità. L’essenziale è non perdere di vista il nostro cuore e tenerci, nel segreto delle sue imperturbabili profondità, al riparo da ogni inutile rigonfiamento di noi stessi, non dimenticando mai che solo Dio è <grande> (Dn 2, 45) e noi siamo in buona parte di <argilla> (2, 33). 

In cuor suo

XXXIV settimana T.O. –

Quest’ultima settimana dell’anno liturgico comincia con due racconti che, pur nella loro diversità, si richiamano non poco. Il breve e intenso racconto di <una vedova povera> (Lc 21, 29 per la quale il Signore non solo ha occhi, ma che viene additata come esempio ai suoi discepoli è preparato da un testo assai più lungo che riguarda lo stesso luogo: <Gerusalemme> e il <tempio di Dio> (Dn 1, 1-2) cinta d’assedio da Nabucodonosor e spogliata degli arredi sacri. Mentre si consuma la catastrofe della presa di Gerusalemme, il testo biblico sembra distogliere la nostra attenzione dai drammi della storia per concentrarla su ciò che avviene nell’intimo di quattro giovani – belli e intelligenti – che assumono il reale senza sacrificare la libertà della loro coscienza. Mentre tutto sembra scontato e quasi obbligato ad andare nella direzione voluta dai potenti della terra che facilmente diventano tiranni: <Daniele decise in cuor suo di non contaminarsi con le vivande del re e con il vino dei suoi banchetti e chiese al capo dei funzionari di non obbligarlo a contaminarsi> (1, 8). Il seguito del racconto non fa che confermare la scelta coraggiosa di Daniele e degli altri tre giovani <i quali rimasero a servizio del re> (1, 19) senza essere in alcun modo asserviti al re.

La piccola e povera donna che incontriamo nel Vangelo ci riporta all’essenziale di un atteggiamento nei confronti della vita, fatto di gratitudine capace di donare, attraverso il poco, il tutto. Le parole del Signore Gesù sono chiare e rappresentano un motivo di discernimento continuo ed esigente nella vita di ogni discepolo: <Tutti costoro, infatti, hanno gettato come offerta parte del loro superfluo. Ella invece, nella sua miseria, ha gettato tutto quello che aveva per vivere> (Lc 21, 4). Questa donna diventa per Gesù il modello e la profezia di ciò che tra poco dovrà vivere in prima persona nel suo dono pasquale e, al contempo, viene indicata ai discepoli – di ogni tempo e di ogni luogo – come luogo di confronto. Per essere capaci di agire come questa vedova è necessario essere capaci come Daniele di decidere nel proprio <cuore> per ripartire sempre dalle sue esigenze e dal suo respiro profondo che fa della nostra vita un luogo di incontro con Dio fino al dono dell’intera nostra vita.

Non c’è nessun disastro storico come la caduta di Gerusalemme e la profanazione del tempio, né alcuna povertà e o necessità che ci possa impedire di ascoltare e di obbedire alle esigenze e agli appelli del nostro cuore. Il mondo nuovo comincia sempre con il modo nuovo di attraversare il tempo facendone la porta dell’eternità. Certo questo modo di stare al mondo è più che entusiasmante, ma esige una chiarezza con se stessi e con il mondo ce ci circonda e non raramente fa pressioni su di noi che può essere assai costosa. L’immagina della vedova ammirata dal Signore Gesù può darci la chiave per comprendere in cosa consista l’eroismo del discepolo: essere decisi come il giovane Daniele e i suoi compagni senza mai smettere di essere discreti e umili come una povera vedova capace di dare tutto… di darsi tutta.

Tetragramma

Cristo Re dell’Universo

Alla nostra sensibilità rischia di risuonare come eccessiva e un po’ pedante l’insistenza dei nostri fratelli ebrei sull’impronunciabilità del nome di Dio rivelato a Mosè. Questo nome è formato da quattro consonanti che venivano vocalizzate dal sommo sacerdote, una sola volta l’anno nel Giorno dell’Espiazione, in mezzo ad una coltre impenetrabile di profumi e di incensi. Quattro lettere fanno la memoria di Israele come popolo di Dio – e segno in mezzo ai popoli – dell’immenso amore che l’Altissimo nutre per tutta l’umanità. Eppure, più o meno inconsciamente, nella nostra tradizione cristiana, abbiamo recuperato queste quattro lettere ponendole come cartiglio sulla croce, segno che riprende ciò che troviamo nel Vangelo: <Sopra di lui c’era anche una scritta: “Costui è il re dei Giudei”> (Lc 23, 38), enunciato su cui l’evangelista Giovanni indugia facendone l’ultimo motivo di tensione tra i Giudei e Pilato. Questa scritta è stata tradizionalmente abbreviata nella nostra tradizione latina così: <INRI>. Quattro lettere non più impronunciabili, ma ben più gravemente impensabili e persino temibili. Dire infatti che il nostro re sia quello che pende dalla croce è qualcosa che esige una presa di posizione non solo davanti al mistero della stessa, ma anche davanti al mistero dell’amore che è capace di arrivare <fino alla fine> (Gv 13, 1) e ben oltre ogni immaginabile fine. Giovanni Crisostomo commenta: <Il paradiso chiuso da migliaia di anni è stato aperto per noi “oggi” dalla croce. Infatti, oggi, Dio vi ha introdotto il ladrone. Compie, in questo, due meraviglie: apre il paradiso e vi fa entrare un ladro. Sicuramente, nessun re permetterebbe a un ladro o a un altro suo soggetto di sedersi con lui mentre fa il suo ingresso in una città. Questo, invece, Cristo l’ha fatto: quando entra nella sua santa patria, vi introduce un ladro insieme con lui>1.

Con la liturgia odierna portiamo a compimento non solo questo anno liturgico, ma pure il triennale ciclo liturgico che ci fa leggere, nel susseguirsi delle domeniche e delle feste, l’intero Vangelo. Così l’ultima parola è una verità, l’ultima e il fondamento di ogni percezione della verità che non è un’autorivelazione di Gesù, bensì l’adesione ad una relazione: <In verità io ti dico: oggi con me sarai in paradiso> (Lc 23, 43). Le parole che il Signore Gesù morente rivolge al ladrone sono come il riassunto di tutta la sua vita e la ricapitolazione di tutti i suoi gesti di accoglienza e di perdono su cui l’evangelista Luca insiste in un modo unico con le sue indimenticabili parabole – pensiamo a quelle del figliol prodigo – e i suoi magnifici gesti – pensiamo alla donna peccatrice e a Zaccheo-. Sotto la croce, o meglio sopra la croce, si consuma l’ultima tentazione di Cristo in cui possiamo riconoscere la tentazione sottile che attraversa sempre la nostra vita: la dimostrazione. Proprio a conclusione delle tentazioni nel deserto si dice che il <diavolo si allontanò dal lui fino al momento fissato> (Lc 4,13). Ed ecco il grande appuntamento in cui ciò che il Signore Gesù ha intuito nel suo tempo di deserto deve essere come assunto nelle sue estreme conseguenze. Ancora una volta e per ben tre volte – esattamente come nel deserto – ritorna il terribile <Se…> che accompagna la storia e il dramma della nostra libertà fin dal primo dialogo con il serpente (Gn 3).

Il Signore Gesù, come un vero re, dà udienza a tutti e dall’umilissimo trono della croce si mette in una posizione di così assoluta vulnerabilità da permettere a tutti e a ciascuno di esprimersi senza timore alcuni: tutti parlano e tutti si esprimono, <i capi>, <i soldati>, <uno dei malfattori> e anche <L’altro>. Nel mistero di questa festa ora tocca a noi di dire la nostra al Signore Gesù crocifisso…! La cosa più bella che potremmo dirgli è <Ecco noi siamo tue ossa e tua carne> (2Sam 5, 1). Così, in un amore riconosciuto e abbracciato, la croce si trasforma da patibolo in roveto ardente e la sua logica diventa il nostro tetragramma sacro, il nostro modo di concepire Dio e di concepire noi stessi: incapaci di fare nulla per gli altri, ma sempre disposti a vivere ogni cosa <con> (Lc 23, 43) chiunque incrocia il nostro cammino di uomini e donne. Se, infatti, accettiamo di condividere con tutti la <pena> (23, 40) di vivere ci ritroveremo, quasi per incanto, <nel paradiso> (23, 43) ormai <liberati dal potere delle tenebre> (Col 1, 13).


1. GIOVANNI CRISOSTOMO, Discorsi sulla Croce e il ladrone, 1, 2.

Tétragramme

Christ Roi de l’Univers –

L’insistance de nos frères hébreux sur l’imprononciabilité du nom de Dieu révélé à Moïse risque d’être excessive, voire un peu pédante à notre sensibilité. Ce nom est formé de quatre consonnes qui sont vocalisées par le Grand Prêtre, une seule fois dans l’année, le jour du Grand Pardon, au milieu d’une chape impénétrable de parfums et d’encens. Quatre lettres qui font la mémoire d’Israël en tant que peuple de Dieu – et signe au milieu des peuples – de l’immense amour que le Très-Haut nourrit pour toute l’humanité. Et, pourtant, plus ou moins inconsciemment, dans notre tradition chrétienne, nous avons récupéré ces quatre lettres, en les inscrivant sur un panneau au-dessus de la croix, signe qui reprend ce que nous trouvons dans l’Evangile : «  Au-dessus de Lui, il y avait un écriteau : «  Celui-ci est le roi des Juifs » ( Lc 23, 38 ), énoncé dont l’évangéliste Jean s’attarda créant ainsi l’ultime motif de tension entre les Juifs et Pilate. Cet écriteau a été traditionnellement abrégé  ainsi dans notre tradition latine : «  INRI ». Quatre lettres, non plus imprononçables, mais bien plus gravement impensables et même terribles. Dire, en effet, que notre roi est celui qui pend à la croix est quelque chose qui exige une prise de position non seulement face à ce mystère, mais aussi face au mystère de l’amour qui est capable d’arriver «  jusqu’à la fin » ( Jn 13,1 ) et bien au-delà même de l’imaginable. Jean Chrysostome commente : «  Le paradis fermé depuis des milliers d’années a été ouvert pour nous «  aujourd’hui » par la croix. En effet, aujourd’hui, Dieu y a introduit le larron. Il accomplit en cela deux merveilles : il ouvre le paradis et y fait entrer un voleur. Aucun roi, certainement, ne permettrait à un voleur ou à un autre de ses sujets de s’asseoir avec lui alors qu’il fait son entrée dans une ville. Mais, ceci, au contraire, Christ l’a fait : lorsqu’il entra dans sa sainte patrie, il y introduisit un voleur avec lui »1.

Par la liturgie de ce jour, nous portons à son accomplissement non seulement cette année liturgique, mais aussi le troisième cycle liturgique qui nous fait lire, dans la succession des dimanches et des fêtes, l’Evangile en entier. Ainsi, la dernière parole est une vérité, l’ultime et le fondement de toute perception de la vérité qui n’est pas une auto-révélation de Jésus, mais bien l’adhésion à une relation : «  En vérité, je te le dis : aujourd’hui tu seras avec moi au paradis » ( Lc 23, 43 ). Les paroles que le Seigneur Jésus, mourant, adresse au voleur, sont comme le résumé de toute sa vie et la récapitulation de tous ses gestes d’accueil et de pardon dont l’évangéliste Luc insiste de manière unique par des paroles inoubliables – pensons à celles du fils prodigue – et ses magnifiques gestes – pensons à la femme pécheresse et à Zachée -. Sous la croix, ou mieux, sur la croix, se consume la dernière tentation du Christ dans laquelle nous pouvons reconnaître la subtile tentation qui traverse toujours notre vie : la démonstration. C’est juste à la fin des tentations dans le désert que l’on dit que « le diable s’éloigna de lui jusqu’au moment fixé » ( Lc 4,13 ). Et voici  venu ce grand rendez-vous où doit être assumé ce que le Seigneur Jésus a initié au désert, en l’assumant jusqu’à son extrême conséquence. Une fois encore, et pour bien trois fois –  exactement comme au désert – revient le terrible : «  Si… » qui accompagne l’histoire et le drame de notre liberté  depuis le premier dialogue avec le serpent ( Gn 3 ).

Le Seigneur Jésus, comme un véritable roi, donne audience à tous et depuis le très humble trône de la croix se met ainsi dans une position d’absolu vulnérabilité pour permettre à tous et à chacun de s’exprimer sans aucune crainte : tous parlent et tout le monde s’exprime : «  les chefs », « les soldats », «  l’un des malfaiteurs » et même «  l’autre ». Dans le mystère de cette fête, c’est à notre tour de nous exprimer face au Seigneur Jésus crucifié… ! La plus belle chose que nous pourrons lui dire est «  Nous voici, nous sommes tes os et ta chair » ( 2 Sam 5, 1 ). Ainsi, dans un amour reconnu et embrassé, la croix se transforme  d’échafaud en buisson ardent et sa logique devient notre tétragramme sacré, notre façon de concevoir Dieu et nous-mêmes : incapables de ne rien faire pour les autres, mais toujours disposés à vivre chaque chose «  avec » ( Lc 23, 43 )  ceux qui croisent notre chemin d’hommes ou de femmes. En effet, si nous acceptons de partager avec tous la «  peine » ( 23, 40 ) de vivre, nous nous retrouverons, presque par enchantement, «  au paradis » ( 23, 43 ) désormais «  libérés du pouvoir des ténèbres » ( Col 1, 13 ).


1. JEAN CHRYSOSTOME, Discours sur la Croix et le voleur, 1,2.

Depressione

XXXIII settimana T.O. –

Compare oggi nella traduzione italiana di un testo biblico un termine che è molto familiare alla nostra esperienza e alle nostre vicissitudini: <depressione> (1Mac 6, 9). E il testo biblico parlandoci dell’epilogo della vita di Antioco, persecutore di coloro che volevano servire il Signore, così annota crudamente: <Il re …. si mise a letto e cadde ammalato per la tristezza, perché non era avvenuto secondo quanto aveva desiderato. Rimase così molti giorni, perché si rinnovava in lui una forte depressione e credeva di morire> (6, 8-9). Non solo la Scrittura ci parla della depressione facendoci così sentire meno soli e, per certi aspetti, meno originali rispetto a questo male oscuro che attanaglia l’anima riuscendo a devastare il corpo, ma ci svela pure la possibile origine di questo grave disagio: l’attaccamento a se stessi. La tristezza, infatti, per i santi Padri, è sempre il segno di un attaccamento a se stessi, al proprio punto di vista che diventa assoluto: l’idolatria dei propri <desideri> senza la disponibilità a purificarli e ad accettare che, talora, si realizzino pure i desideri degli altri.

In questo senso, da qualche parte, talora veramente nascosta e invisibile, si può nascondere – normalmente senza nostra colpa – un’idolatria di se stessi che, piuttosto di accettare di cambiare punto di vista e comportamento, invece di accettare gli inevitabili fallimenti della vita, opta per una morte – in tutti i sensi – che avviene nella <più profonda tristezza> (6, 13). Sì, in ciascuno di noi si nasconde un piccolo tiranno come Antioco che cerca, magari in modo assai inconsapevole ma non per questo meno pericoloso, di <impadronirsi> (6, 3) della vita invece di porsi a suo servizio. Assolutamente diverso è l’atteggiamento di quella <donna> (Lc 20, 32) il cui caso, i <sadducei> (20, 27), con grande disinteresse verso la persona di cui parlano, presentano a Gesù. Per i sadducei si tratta di capire – perché è attorno a questa logica che si organizza la loro vita – <di chi sarà moglie> (20, 33). Il Signore invece ribadisce che la differenza tra questo mondo e il nostro modo di pensare la vita, e il mondo e il modo di Dio, sta proprio nel superamento del bisogno di “prendere” per sé.

Di fatto, il Signore non risponde alla domanda dei sadducei circa il mondo a venire ma esorta ciascuno di noi ad entrare nella logica che presiede alla vita degli <angeli> e che ci fa <figli della risurrezione> (20, 36) già in questa vita: essa consiste nel non voler più <impadronirsi> (1Mac 6, 3) della vita altrui, quanto piuttosto nel mettere la propria vita a servizio di un incremento della vita di tutti. Questa donna si lascia prendere da <sette fratelli> (Lc 20, 29) senza opporre resistenza e, per certi aspetti, senza neanche entrare in depressione per questa sua attitudine a fare della propria vita un dono e non un profitto. Quando sentiamo serpeggiare nel nostro animo il sottile male della depressione, oltre a tutti i motivi per essere benevoli e pazienti verso noi stessi, chiediamoci pure da quali attaccamenti morbosi forse siamo chiamati a prendere le distanze per credere un po’ di più che <Dio non è Dio dei morti, ma dei viventi, perché tutti vivono per lui> (20, 38). Un modo – tra molti – per superare la depressione è quello di vivere per… come il Signore Gesù! Si potrebbe dire che il “povero” <Antioco> non ha compreso di essere figlio della risurrezione e si è talmente illuso di poter dirigere la sua vita fino ad immaginare di dominare il mondo da essere poi vittima di se stesso perché isolato in se stesso: <Rimase così molti giorni, perché si rinnovava in lui una forte depressione e credeva di morire> (1Mac 6, 9). In realtà era già morto!

Ogni giorno

XXXIII settimana T.O. –

L’evangelista Luca ci ricorda che il Signore Gesù <ogni giorno insegnava nel tempio> (Lc 19, 47). Questa parola possiamo custodirla come una rassicurazione che vale più di ogni assicurazione sulla vita: il Signore Gesù ogni giorno ci parla nel tempio del nostro cuore. Secondo l’insegnamento del Signore è il cuore ad essere il luogo delle nostre decisioni ed è dal suo intimo che viene fuori la verità di noi stessi la quale si esprime attraverso le nostre decisioni che rivelano la verità dei desideri cui accettiamo di fare spazio nella nostra vita. La citazione delle Scritture è per il Signore Gesù la via per comunicarci quello che è il suo desiderio per noi: <La mia casa sarà casa di preghiera> (19, 45). Il suo commento ci fa intuire che cosa sia veramente in gioco: <Voi invece ne avete fatto un covo di ladri>. La preghiera è il modo in cui ogni giorno rimettiamo ordine nella nostra vita ristabilendo continuamente il giusto posto per ogni relazione e per ogni emozione. Tra le realtà che fanno il senso e la bellezza del nostro vivere certamente si rende necessario di rimettere sempre al centro della nostra attenzione la relazione con l’Altissimo che ogni giorno ci richiama a convertire la nostra vita rimettendola in cammino verso l’essenziale.

La reazione dei notabili del popolo è amarissima, ma devono comunque arrendersi alla realtà: <tutto il popolo pendeva dalle sue labbra nell’ascoltarlo> (19, 48). Ogni giorno può diventare per noi il primo dei giorni di quella ricreazione interiore che comincia sempre con la decisione di rimetterci ad ascoltare il Signore per far sì che la sua parola ricrei le condizioni di una vita segnata dalla grazia e disponibile a condividere i doni ricevuti. La decisione di Giuda e i suoi fratelli potrebbe diventare la nostra scelta quotidiana: <andiamo e purifichiamo il santuario e a riconsacrarlo> (1Mac 4, 36). I <nemici> evocati nella prima lettura sono tutti quei pensieri, emozioni e decisioni che turbano fino a snaturare il nostro cuore. Una nota che troviamo nella prima lettura può trovare un’applicazione spirituale assai utile. Tra i riti celebrati per la riconsacrazione del Tempio è scritto che <Poi ornarono la facciata del tempio con corone d’oro e piccoli scudi. Rifecero i portoni e le celle sacre, munendole di porte> (4, 57). Se il tempio è il nostro cuore allora dobbiamo non solo ornarlo per abbellirlo ma pure per difenderlo. I <piccoli scudi> dell’attenzione e della vigilanza terranno lontane le frecce e i dardi dei pensieri cattivi e di tutte quelle distrazioni che ci rendono vulnerabili. Inoltre, non bisogna dimenticare che è necessario munire il cuore di <porte> per saper decidere con libertà e con discernimento ciò che permettiamo di far entrare nell’intimo della nostra vita e ciò che invece va tenuto accuratamente alla porta. In un mondo in cui sembra che tutto sia in vendita – il tempo, la possibilità di essere ascoltati e persino quella di essere amati, accuditi, iniziati alla vita e persino accompagnati nella morte – il Signore ci riapre il tempio della gratuità.

Distrazione

XXXIII settimana T.O. –

Le parole del Signore Gesù ci commuovono e ci interrogano profondamente: <Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace!> (Lc 19, 42). Raramente il Signore Gesù usa il <se>, ma in questo caso lo usa in tutta la sua carica emotiva che tocca e un po’ anche sconvolge il cuore. In realtà non si tratta di interpretare questa parola del Signore riducendone il significato al rifiuto dei suoi contemporanei di accogliere il suo messaggio così esigente fino ad essere percepito troppo scomodo. Si tratta di sentire come e quanto ogni giorno il cammino del Signore è <vicino> alla <Gerusalemme> (19, 41) del nostro cuore e si fa pressante invito alla necessità e alla bellezza di accogliere la sua presenza per la nostra vita che si rivela pacificante e, al contempo, dinamizzante. Eppure, sappiamo bene, come spesso il nostro cuore è distratto. Come annota in un verso rovente Christian Bobin: <perdiamo il paradiso per distrazione>.

Potremmo reagire alle parole irrorate di lacrime del Signore Gesù con un piccolo proposito: essere meno distratti, essere meno distratti da noi stessi. Solo così potremo sottrarci a quella terribile esperienza che fa della nostra cittadella interiore una città devastata dall’incuria interiore: <distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te, e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata>.

Non così <Mattatia e i suoi figli> (1Mac 2, 16) i quali sono capaci di cogliere la visita di Dio attraverso le esigenza ben dure delle situazioni della vita dando prova di saper vivere col fatto di non avere timore a decidere. Il primo passo di questa capacità è di non cedere alle lusinghe: <Tu sei uomo autorevole, stimato e grande> (2, 17). Mattatia non dimentica che la sua grandezza è direttamente proporzionale alla sua capacità di farsi piccolo davanti alle esigenze di un’alleanza che accompagna nella misura in cui si accetta che sempre ci preceda. Dante, nella Divina Commedia, parla anche di coloro che hanno passato la loro vita senza fare né il bene né il male, i quali <vissero per se stessi> tanto che il paradiso chiude loro la porta e l’inferno non li vuole fare entrare. La loro punizione è quella di correre nudi inseguiti da migliaia di api. Per l’eternità dovranno rammentarsi del fatto che non si può vivere senza prendere posizione cedendo alla distrazione che rimanda continuamente senza mai assumere il peso di una decisione. 

La vita ci mette di fronte a delle scelte e si tratta della pace da scegliere, la pace da coltivare, la pace da condividere: la pace di oggi che radica nell’attenzione di ieri e nel desiderio rinnovato che prepara l’avvenire. Non dobbiamo sbagliare campo di battaglia: è il nostro cuore. Non dobbiamo rimandare all’infinito: è per oggi!