Convertire… in concime
III Domenica T.Q. –
Al cuore di uno dei testi fondamentali della Rivelazione come è il momento in cui l’Altissimo prende nome e si fa conoscere al suo servo Mosè, proprio di lui si dice che <si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio> (Es 3, 6). L’apostolo Paolo conclude la sua esortazione con una sorta di messa in guardia: <Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere> (1Cor 10, 12). Il Signore Gesù con la sua parola e, ancor prima, con il suo atteggiamento e il suo modo di porsi davanti agli avvenimenti della storia, cerca di farci passare da una paura sterilizzante e paralizzante ad una capacità di essere realmente responsabili nei confronti del nostro interiore cammino di trasformazione: <No, io vi dico, ma se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo> (Lc 13, 5). Questa parola del Signore Gesù non è una minaccia è, invece, una risposta a quanti se sentono in diritto di <riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici> (13, 1).
Il Signore Gesù reagisce in modo assai severo a quella tendenza con cui le sventure altrui rischiano di diventare una sorta di autocertificazione e di condanna dell’operato degli altri. La parabola che viene raccontata non è altro che la conferma di quello stesso atteggiamento rivelato a Mosè sul Sinai nella linea di una benevolenza di amplissimo respiro. Di ciò si fa interprete questo misterioso e così amabile vignaiolo: <Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato intorno e avrò messo il concime> (13, 8). Già nel deserto l’Altissimo sembra non avere trovato una risposta più belle di quella che garantisce una compagnia fedele e coinvolta con la storia di ciascuno: <Il Signore Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi> (Es 3, 15).
Da notare che la rivelazione del Nome a Mosè avviene solo quando questo servo di Dio ha accettato di pascolare e di prendersi cura del gregge di Ietro, di un gregge non suo dopo il fallimento del suo essere dapprima principe e poi “giustiziere”. Così il vignaiolo si mostra capace di prendersi cura di un albero che non gli appartiene su cui riversa tutte le sue cure in modo non solo gratuito, ma anche appassionato.