Convertire… in bacio

Settimana Santa

Ciò che fa la differenza tra il lavare i piedi di un servo e quello di un amante è il bacio che riesce a trasformare radicalmente la realtà pur senza mutarla. Ciò che fa la differenza tra un patibolo ignominioso e il trono dell’amore è il bacio che oggi – non solo il celebrante – ma tutti i fedeli pongono sul legno della croce rendendolo così un ramoscello di vita. Mentre ci avviciniamo alla croce per baciarla possiamo sentirci tutto come un ranocchio che ha bisogno di un bacio per diventare principe e ritrovare così tutta la propria bellezza e la propria dignità in un amore capace di andare oltre le apparenze e di sfidare tutte le negazioni che annichiliscono e annientano l’immagine meravigliosa di Dio che si nasconde in ciascuna delle sue creature.

Il grido del Crocifisso non solo raggiunge ma si fa interprete di ogni grido umano, trasformandolo così in una supplica di presenza e di amore: <Dio mio, Dio mio…>! Come spiega poeticamente Christian Bobin <Questa parola di Cristo è la parola la più amorosa che si possa immaginare. Ciascuno ne conosce la vibrazione intima. Nessuna vita può fare l’economia di questo grido. Questa parola è il cuore dell’amore, la sua fiamma tremolante, si addormenta ma non si spegne. Questa è la sola prova dell’esistenza di Dio: non ci si rivolge infatti così al nulla. Quest’ultimo scintillìo della parola fa di Cristo qualcosa di più di un angelo: il nostro fratello angosciato e fragile. Questo grido che si infrange contro la gola di marmo di un Dio ammutolito, da di Colui che lo lancia la realtà più intima tanto da renderlo il più prossimo dei nostro possibili prossimi: noi stessi quando la fiducia se ne va come il sangue scorre da una vena tranciata eppure continuiamo a parlare amorosamente a chi ci sta uccidendo. Bisogna che il buio si accentui perché sorga la prima stella>1.

Nel salmo di questa liturgia non funebre, ma nuziale, troviamo le parole più serene e confidenti che dovrebbero diventare parte integrante del nostro stesso vocabolario: <Alle tue mani affido il mio spirito> (Sal 30, 6). Il profeta Isaia sembra protestare contro tutte le apparenze e ci aiuta a cogliere la posta in gioco del mistero della croce che sfida tutte le logiche mondane e le annienta: <Ecco il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente> (Is 53, 13). In questo memoriale della passione del Signore siamo chiamati ad andare oltre per riconoscere sotto le apparenze del fallimento, la vittoria di un amore che si lascia annientare senza lasciarsi vincere quando a dedizione e donazione. Per questo le parole della Lettera agli Ebrei ci raggiungono diritto al cuore della nostra ricerca del modo di dare una risposta a tanto amore: <Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno> (Eb 4, 16).

Avvicinarci alla croce come ad un trono da cui speriamo di ricevere la misericordia e la grazia di preparare il tempo in cui toccherà a noi di rispondere alla vita con lo stesso stile e con la stessa passione del Signore. Pilato lo offre anche a noi quale modello, quale via, quale sguardo: <Ecco l’uomo> (Gv 19, 6).


1. Ch. BOBIN, L’homme-joieL’iconoclaste, Paris 2012. 

Convertire… il diavolo

Settimana Santa

Il triduo pasquale comincia, attraverso la lezione del Vangelo che ne segna le coordinate fondamentali, con due note apparentemente così contrastanti da sembrare inconciliabili. La prima suona così: <Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta l’ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine> (Gv 13, 1). A questo sfondo, dominato da un amore la cui immensità pare travolgere la storia, sembra che l’evangelista Giovanni abbia bisogno subito di dare una pennellata di scuro per farcene percepire tutta la profondità: <Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo…> (13, 2). Il gesto della lavanda dei piedi e quello del dono di un pezzo di pane e di un sorso di vino diventano così il modo con cui Gesù dichiara guerra al Maligno e alla sua logica di tradimento dell’amore. Una guerra dichiarata senza smettere di amare <fino alla fine> perfino e, prima di tutto, quel discepolo che lo consegna illudendosi di diventare così protagonista della storia e placando così il suo complesso di inesistenza a motivo della sua reale inconsistenza. Il modo di reagire del Signore a ciò che <il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda> è un di più di amore, un eccesso assoluto di amore che si esprime nel gesto di <lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarlo con l’asciugamano di cui si era cinto> (13, 5).

Vale per il gesto del lavare i piedi ciò che Paolo riferisce all’altro gesto eucaristico dello spezzare il pane e versare il vino: <Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga> (1Cor 11, 26). Possiamo applicare questa parola alla nostra vita quotidiana dicendo che <ogni volta> che sentiamo nel nostro cuore la morsa della tentazione che ci spinge a chiuderci all’amore, l’unica via è quella di aprirci ad un amore ancora più grande. Infatti, solo l’eccesso e l’esagerazione possono arginare l’opera del <diavolo> che lavora sempre nella linea del risparmio (non si poteva vendere per trecento denari) per arrivare a far trionfare la morte delle relazioni più belle e più significative. Simon Pietro lo intuirà cogliendo nella reazione del Maestro la posta in gioco di un passaggio fondamentale: <Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!> (Gv 13, 9). Il salmista ci aiuta a non dimenticare, perché la dimenticanza rischia sempre di essere l’inizio di un’insensibilità e per questo si interroga: <Che cosa renderò al Signore per tutti i benefici che mi ha fatto?> (Sal 115, 3).

Potremmo entrare nella celebrazione dei santi misteri cercando di fare l’elenco dei benefici che abbiamo ricevuto nella nostra vita. Solo questa memoria ci potrà rendere immuni dalla tentazione del <diavolo> di cedere all’oblio e concentrarci per questo sulle nostre paure e sui nostri bisogni più immediati e passeggeri. La prescrizione rituale dell’Esodo assumerebbe così un valore assai particolare: <Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno> (Es 12, 5). L’agnello è Cristo, l’agnello dobbiamo essere noi resistendo ad ogni tentazione di trasformarci in lupi. L’Esodo continua con le sue note rituali che sono, in realtà, orientamenti esistenziali: <Ecco in quale modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta. È la Pasqua del Signore!> (Es 12, 12). Celebriamo la Pasqua per imparare l’arte di vivere che è sempre l’arte di amare, così antica e così magnificamente nuova perché richiede di ricominciare ogni momento: <Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi> (Gv 13, 15). Tutto ciò è pane per il cammino e vino per non perdere il ritmo e l’ebbrezza della marcia.

Convertire… in discepolo

Settimana Santa

La Parola di Dio ci fa fare un piccolo passo indietro per svelarci, attraverso il vangelo secondo Matteo, l’antefatto di ciò che ci viene raccontato per ben due volte in due giorni: il tradimento di Giuda il quale <andò dai capi dei sacerdoti e disse: “Quanto volete darmi perché io ve lo consegni?> (Mt 26, 14-15). Siamo messi di fronte all’abisso, non solo del cuore umano, ma dell’abisso ancora più insondabile del cuore di un discepolo, del nostro cuore di discepoli. Non finiremo mai di riflettere e di interrogarci abbastanza sulle motivazioni profonde che hanno spinto Giuda a tradire il suo Maestro e, forse, persino a non accorgersi fino in fondo di tradirlo. Sono stati molti gli scrittori e gli artisti che hanno cercato di immaginare e di spiegare questo gesto di assoluta negazione di ogni relazione. La parola del Signore Gesù non interviene per prevenire o bloccare il tradimento di Giuda, ma semplicemente prende posizione per non lasciare il discepolo ignaro di ciò che veramente sta avvenendo, prima di tutto e innanzitutto, nel profondo del suo cuore.

Giuda si presenta ai sacerdoti con una proposta: <… perché io ve lo consegni> e ancora <cercava l’occasione propizia per consegnare Gesù> (26, 15-16). Il Signore Gesù, nella solenne e commovente cornice della cena pasquale preparata con una cura non solo particolare, ma unica, chiarisce a tutti – e soprattutto a Giuda – quello che veramente sta succedendo. In tal modo si rivela che ciò che sta accadendo è ciò che deve avvenire: <In verità io vi dico: uno di voi mi tradirà> (26, 21). Giuda pensa di consegnare il Maestro, il Signore Gesù rivela al discepolo che non può consegnare chi già si è consegnato liberamente. Per questo Giuda, nella confusione più totale del suo cuore smarrito e ottenebrato, pone con una certa ingenuità e sincerità la domanda: <Rabbì, sono forse io?> (26, 25). Giuda pensa di consegnare – il gioco di parole nelle lingue antiche è strettissimo – e da Gesù viene a sapere di essere un traditore; Giuda pensa di essere il soggetto del suo atto di consegna, che sembra quasi un ultimo sussulto di protagonismo possibile contro il sempre più chiaro anti-protagonismo storico del Maestro, e scopre invece di essere soggetto, nel senso di prigioniero, della sua delusione e della sua rabbia che lo hanno reso una pedina più che un protagonista.

In realtà, il vero dramma di Giuda, che rischia di essere il nostro stesso dramma, è quello di non essere mai stato un vero discepolo, non avendo accettato il suo posto e il suo proprio ruolo. Ciò che il profeta Isaia indica come l’atteggiamento proprio del <discepolo> (Is 50, 4) viene smarrito dall’apostolo Giuda che in realtà si tira <indietro> nell’aprire <l’orecchio> (50, 5) preferendo, almeno da un certo punto in avanti, di perdersi nell’illusione di poter persino dirigere il destino del suo Maestro. Il Signore Gesù chiarendo e rivelando che <il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui> (Mt 26, 24) fa crollare l’illusione di Giuda di avere assunto un ruolo nella storia. La parola di Dio ci parla di uno degli apostoli che a un certo punto decide di smettere di essere <discepolo>, il pericolo di cadere in questa medesima trappola non è da sottovalutare per ciascuno di noi, per la Chiesa stessa, chiamata ad essere in tutto conforme al cuore del suo Sposo e Signore. Non dobbiamo mai dimenticare che quando si vende qualcuno, in realtà, non si fa altro che vendere se stessi. Giuda “vende” il suo Maestro al prezzo dello schiavo e della donna. Giuda ha bisogno di de-prezzare il Maestro per sovrastimare se stesso, ma il Signore non è schiavo proprio perché vuole essere un servo. Quel terribile <Guai> che ci atterrisce sarebbe da tradurre con <poverino!>. Giuda sceglie di consegnare Gesù senza rendersi conto che Gesù si consegna per lui per dargli ancora un po’ di tempo per ascoltare veramente.

Convertire… presto

Settimana Santa

La Parola di Dio che accompagna la nostra corsa verso la Pasqua del Signore ci chiede di maturare nel nostro rapporto con il tempo perché sia il più possibile uno spazio di compimento e non di inutili tergiversazioni. Le parole che il Signore Gesù rivolge a Giuda durante la cena pasquale sono una vera e propria <spada affilata> (Is 489, 2) che trafigge il cuore: <Quello che vuoi fare, fallo presto> (Gv 13, 27). Non è molto diverso ciò che il Signore dice a Simon Pietro cercando di rettificare la sua stessa domanda: <Signore, perché non posso seguirti ora?> (13, 37). Due discepoli, ciascuno a loro modo, ci mettono di fronte alla sfida di essere discepoli a nostra volta in modo efficace. Sembra che per il Maestro la cosa più importante è quella di condurci in modo sereno e deciso nella verità di noi stessi senza permetterci assolutamente di continuare a barare con il nostro cuore. Mentre la Pasqua si avvicina con il suo carico di rivelazione e di oppressione, il Signore desidera che tutto sia chiaro per tutti: <In verità io vi dico: uno di voi mi tradirà> (Gv 13, 21). Anche se può meravigliarci fino a turbare il nostro cuore, è proprio in questo dinamismo di dichiarazione senza tergiversazioni che si compie nel Signore Gesù quanto era stato profetizzato da Isaia: <Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra> (Is 49, 6).

Ciò che Simeone aveva profetizzato nella cornice del Tempio prendendo tra le braccia il bambino Gesù, è compiuto dal Signore nella penombra pasquale del Cenacolo. Il primo passo di ogni autentica esperienza di salvezza passa attraverso la dichiarazione di ciò che sta avvenendo dentro e fuori di noi. Giovanni non fa alcun mistero del fatto che il cuore di Cristo sia <turbato> (Gv 13, 21), eppure il turbamento non induce Gesù a nascondere a se stesso e ai suoi discepoli il dramma già in atto del tradimento, ma lo dichiara perché possa aprirsi un percorso possibile di salvezza legato sempre e ineluttabilmente all’esercizio della libertà. Le parole del servo del Signore avranno certamente interrogato Gesù: <Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze>. Ma se questa sensazione è assolutamente probabile, è ancora più certo che il Signore Gesù abbia fatto sua la continuazione di quello che possiamo definire una sorta di “stream of consciousness” di chi vive fino in fondo il dramma della fedeltà al proprio cuore: <Ma, certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa presso il mio Dio> (Is 49, 4).

Ciò che rende saldo il cuore di Cristo davanti alla sua stessa passione è un senso di radicamento assoluto nella relazione con il Padre. Per questo dopo, e solo dopo, che Giuda <fu uscito>, Gesù sembra poter dichiarare solennemente: <Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui> (Gv 13, 31). Nell’amore non c’è nessun rimando possibile ed è impensabile tergiversare. La <freccia appuntita> riposta nella <faretra> (49, 2) è quella che verrà scoccata nel momento dell’offerta pasquale di Cristo sulla croce in cui il suo cuore sarà trafitto perché il nostro cuore si lasci trafiggere e interrogare in verità. La progressione nella sofferenza in cui la lettura dei carmi del servo, ci introduce è un invito a progredire nell’amore che non ammette né ritardi né dilazioni, ma è sempre e solo <Ora> (Gv 13, 31). 

Convertire… l’atmosfera

Settimana Santa

Nello spazio di pochi versetti, per ben due volte, il profeta Isaia evoca uno dei doni messianici per eccellenza: <egli porterà il diritto alle nazioni> (Is 42, 1) e ancora <proclamerà il diritto con verità> (42, 3). In contrasto con il quest’immagine del diritto il Vangelo ci mette di fronte al rischio, sempre incombente per ogni discepolo, di tradire il Signore molto prima di consegnarlo nelle mani dei suoi nemici. L’evangelista commenta il disappunto di Giuda davanti al tenero e profetico gesto di Maria con parole forti: <Disse questo non perché gli importasse dei poveri, ma perché era un ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro> (Gv 12, 6). Il cammino di questi santi giorni si apre con la duplice memoria di un gesto pieno di tenerezza e di eccesso compiuto da Maria cui si contrappone quello pieno di disprezzo e di calcolo che si forma come una cancrena, nel cuore di Giuda. Il nostro cuore non è mai certo di trovarsi dall’una o dall’altra parte. Pertanto, siamo chiamati, rivivendo i giorni della Passione, a fare il punto delle nostre passioni per dare spazio alla passione del cuore capace di fare della nostra vita un gesto di speranza che si fa compagnia amorosa in ogni tribolazione: <Lasciala fare, perché ella lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri, infatti, li avete sempre con voi, ma non sempre avete me> (Gv 12, 7).

Queste parole del Signore alla vigilia della sua Passione ci fanno intuire il senso profondo di quel <diritto> che è uno dei doni messianici più sperati e attesi. Il Messia umiliato ristabilisce per tutti il diritto ad essere <poveri> senza per questo essere né esclusi, né umiliati. Nel mistero della Pasqua ci è restituita la gioia di poter donare con eccesso come pure di essere oggetto di un amore esagerato senza doversi per nulla vergognare. Il dono pasquale che ci viene dal Signore è di poter amare e di lasciarsi amare in una pienezza che mette in imbarazzo fino a smascherare tutte le altre logiche segnate e dominate, invece, da un calcolo mortifero al cui centro di valutazione siamo noi stessi con i nostri piccoli e grandi interessi: <I capi dei sacerdoti allora decisero di uccidere anche Lazzaro, perché molti Giudei se ne andavano a causa di lui e credevano in Gesù> (Gv 12, 11).

Il diritto ad amare, secondo il proprio cuore e ad essere amati secondo il proprio bisogno e i propri desideri, ha una caratteristica fondamentale e inconfondibile: <Non griderà né alzerà il tono> (Is 42, 2). Come per Elia sull’Horeb, il segno distintivo del passaggio di Dio nella nostra vita e del nostro entrare nella vita stessa di Dio non può che essere quel “fine silenzio” (1Re 19,12) che avvolge e contrassegna i gesti di grande valore i quali non si impongono mai, eppure si impongono da se stessi: <Maria allora prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo> (Gv 12, 3). Lasciamo che nel nostro cuore si crei l’atmosfera più adeguata a vivere questi santi giorni: il silenzio, l’attenzione, la cura dei particolari e, soprattutto, una disponibilità radicale a farci interrogare dalle esigenze di un amore che sia degno di questo nome.

Convertire… le pietre

Domenica delle Palme 

La parola che il Signore rivolge ai farisei che gli chiedono di mettere a tacere i discepoli e la folla può essere assunta come chiave di lettura e portale di ingresso per la Settimana Santa: <se questi taceranno, grideranno le pietre> (Lc 19, 39). Le pietre che solitamente hanno un valore alquanto negativo, perché indicano la durezza e chiusura del cuore, come pure una certa modalità inerte della vita spirituale, diventano qui il segno di una radicale trasformazione. Essa può toccare così profondamente l’uomo posto davanti al mistero di Dio – mistero che si rivela nell’abbassamento pasquale di Cristo – da aprirlo ad una fede chiara e testimoniale. Il vangelo di Luca, nel racconto della Passione, ci offre un particolare in cui conferma ulteriormente una delle note più caratteristiche di questo testo ovvero: la fiducia spassionata per la quale, ogni uomo e donna, possano riaprirsi alla relazione con Dio. Essa è resa ancora più profondamente vera – le conferisce una sorta di spessore di qualità – da quella che può essere l’esperienza del peccato che distanzia e allontana.

Per questo, accanto a Gesù, la presenza di due <malfattori> diventa per Luca l’occasione per dare ancora una volta la parola al perdono che si fa promessa: <Oggi sarai con me in paradiso> (Lc 23, 43). Questo malfattore riconosce in Gesù la speranza, non di essere sottratto al suo supplizio, ma di avere la possibilità di attraversarlo non più da solo. Il Signore restituisce al “buon ladrone”, come comunemente lo chiamiamo, la gioiosa possibilità di poter riscoprire la sua radicale innocenza. La croce, non solo quella di Gesù, ma pure quella del ladrone, diventa il luogo di un parto ove la nostra umanità può aderire pienamente al mistero di quel bambino a lungo negato, e il quale è riscoperto proprio nel momento della <giusta> punizione. Finalmente un uomo <condannato alla stessa pena>, permette a quest’altro che tutti ci rappresenta, di confessare la sua pena e di rivelare il suo desiderio più profondo: chiedere di essere portato in braccio nel regno dei cieli, nel paradiso, nella vita, nell’amore, nel desiderio, nella speranza.

In questa figura si ricapitolano tutte quelle figure che costellano il vangelo di Luca: dal figlio prodigo, alla peccatrice, a Zaccheo, al pubblicano che non osa levare lo sguardo verso il cielo… a noi! Entriamo nei misteri di questa Settimana Santa seguendo certamente il Signore Gesù che sale al Calvario con la sua croce, ma vogliamo salire anche noi con la nostra croce, con la croce che siamo. La speranza più grande è quella che questi giorni possano essere, per ciascuno di noi una, vera scuola di vita che non può mai omettere la lezione fondamentale sul mistero della sofferenza e della morte. Oggi leviamo in alto le palme come i bambini di Gerusalemme e prepariamo noi stessi ed essere innalzati alla stessa altezza del Crocifisso per potergli infine parlare in una intimità e una verità che ci renderà capaci di pensare a noi stessi in un modo completamente nuovo. È ormai vicina <la discesa del monte degli Ulivi> (Lc 19, 37) che precede di poco l’erta del Calvario, ma non siamo soli… e non lasciamolo solo! Allora la morte – ogni morte – non sarà che una porta spalancata di <paradiso>. Sì, le <pietre> (19, 40) dei nostri cuori, addolciti dalla grazia di questi giorni, potranno stupirsi ancora davanti alla pietra rotolata via dal sepolcro e intoneranno, presto, il canto della vittoria dell’amore.

Visite il giorno 25 Aprile

ore 10.30 e 11.30

ore 15,30: Visita speciale – Presbiterio/Biblioteca/Cappella di sant’Eldrado

Convertire… purificarsi

V settimana T.Q.

L’evangelista Giovanni annota che sono molti coloro che salgono a Gerusalemme <per purificarsi> (Gv 11, 55). Anche noi siamo ormai chiamati a salire a Gerusalemme con Gesù e per Gesù al fine di purificare la nostra vita e poter celebrare la Pasqua. La purificazione comporta abitualmente un lavacro e sarà proprio il Signore Gesù a lavare i piedi dei suoi discepoli nell’imminenza della sua passione. Per noi vale lo stesso: dobbiamo purificarci da tutto ciò che non ci permette di stare serenamente e amorevolmente ai piedi dei nostri fratelli, accettando – cosa ancora più difficile talora – che qualcuno lavi i nostri piedi. Nondimeno c’è pure un altro modo di celebrare, o di prepararsi a celebrare, la Pasqua ed è quella dei sacerdoti, dei farisei, del sommo sacerdote che sono così presi dalla preservazione del loro sistema di vita da non aver nessun timore nel sacrificare la vita di altri pur di non mettere assolutamente in pericolo il proprio equilibrio e le proprie abitudini: <Voi non capite nulla! Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!> (Gv 11, 50). 

La soluzione del sommo sacerdote parrà abbastanza equilibrata e per certi aspetti saggia – la “ragion di stato” che può diventare persino “ragion di Chiesa” – entra in contrasto con quella volontà salvifica universale che non sopporta nessuna logica sacrificale che immola l’altro, bensì che offre sempre e solo se stesso. L’evangelista Giovanni, come spesso avviene sotto la sua penna, spiega teologicamente quanto il sommo sacerdote ha appena detto: <profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi> (11, 51-52). Giustamente, la Liturgia prepara l’ascolto del Vangelo riprendendo un testo del profeta Ezechiele in cui il desiderio di ricondurre e di radunare è inseparabile da quello di liberare e purificare e si conclude con una solenne promessa: <e saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio> (Ez 37, 23).

Alla vigilia dell’inizio della Settimana Santa, come credenti e come discepoli siamo chiamati a purificare il nostro cuore per entrare con Gesù a Gerusalemme in piena disponibilità a fare dono della nostra vita come il Signore. Sicuramente anche per noi è necessaria una certa purificazione interiore, e la Parola di Dio racchiusa nelle Scritture ci indica la via e il modo di questa purificazione che non può accontentarsi semplicemente di qualche rito, ma deve toccare profondamente il nostro vissuto. Per essere degni e atti a celebrare la Pasqua di Cristo è necessario assumere la sua logica che non può avere nulla in comune con quella dei notabili, così preoccupati di se stessi tanto che <Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo> (Gv 11, 53). Per costoro sembra necessario far sparire i segni del Regno che viene in Gesù: che i ciechi sanati recuperino la loro cecità, che i raddrizzati ritrovino la loro barella, che i risuscitati, come Lazzaro, siano più decisamente uccisi e fatti scomparire. Naturalmente, mentre contempliamo la scena di questa iniqua decisione – aggravata dalla sua apparenza religiosa – siamo chiamati a dubitare di noi stessi. Non è poi così sicuro e non è assolutamente scontato che il nostro modo di pensare, di agire, di decidere sia veramente diverso da quello dei notabili del popolo. Così pure non è detto che la nostra benevola curiosità come quella di quanti salgono a Gerusalemme per la Pasqua sia veramente innocua: <Che ve ne pare? Non verrà alla festa?> (11, 56). Sarà proprio quella medesima folla ad acclamare Gesù come Messia e a richiedere insistentemente a Pilato la sua condanna a morte. Non è facile sapere dove siamo con il nostro cuore, la nostra mente, la nostra volontà, il nostro discernimento. Certo, possiamo purificarci come la folla, ma ancor più essenziale è che ci lasciamo purificare dai nostri <idoli> (Ez 37, 23). 

Convertire… in denuncia

V settimana T.Q.

La Liturgia bizantina aiuta il fedele ad entrare nel mistero di questo ultimo venerdì di Quaresima con queste parole: <Due dei discepoli sono oggi mandati, come sta scritto, a prendere il puledro, sul quale Cristo salirà e verrà splendido per prepararsi una lode divina dalla bocca dei fanciulli: affrettiamoci con zelo ad andargli incontro, portandogli palme di azioni virtuose> (Anthologhion II, 904). Mentre contempliamo i discepoli – secondo la liturgia orientale – che sono alla ricerca del puledro adatto a portare il dolcissimo peso della mitissima regalità dell’umile Salvatore di tutti, la Parola di Dio di quest’oggi ci fa aprire gli occhi sul dove questo puledro porterà il Signore Gesù e lo fa, ancora una volta, attraverso le parole del profeta Geremia attraverso cui possiamo sentire le emozioni e i sentimento dello stesso Cristo : <Sentivo la calunnia di molti: “Terrore all’intorno”> (Gr 20, 10). Il terrore da cui si sente accerchiato si materializza nel vangelo: < i Giudei raccolsero delle pietre per lapidare Gesù> (Gv 10, 31).

Eppure, né il profeta né tantomeno il Signore si lasciano intimidire ma, al contrario, reagiscono assumendo su se stessi il peso della denuncia forte e chiara che si fa sulla bocca di Gesù aperta provocazione a prendere coscienza del male che si sta compiendo, pur accettando di esserne vittima: < Vi ho fatto vedere molte opere buone da parte del Padre: per quale di esse volete lapidarmi?> (10, 32). Non rischiamo di essere precipitosi nel pensare che questa domanda rivolta da Gesù ai Giudei non ci riguardi. Essa, infatti, è una denuncia di tutto ciò che in noi lapida il vangelo che ci è stato donato e affidato con le pietre della nostra indifferenza, del nostro sospetto, della nostra chiusura e della nostra insensibilità. Tra le nostre mani abbiamo molte più pietre di quanto possiamo immaginare e, nondimeno, esse sono capaci di uccidere dentro di noi e attorno a noi quel seme divino di cui la Scrittura attesta solennemente quando dice: <Voi siete dèi> (10, 34).

Il Signore Gesù come tutti i profeti che vengono da Dio e parlano in suo nome in modo <vero> (10, 41) non fanno che risvegliare e riattivare in noi questa coscienza di divina parentela che, di certo, non può che essere di fastidio a quanti vogliono ridurre i loro fratelli a semplici ingranaggi di un meccanismo che assicuri loro privilegi e potere. Ogni volta che ci si trova in una situazione del genere non si può che fare propria la parola così del profeta: <Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso, per questo i miei persecutori vacilleranno e non potranno prevalere; arrossiranno perché non avranno successo, sarà una vergogna eterna e incancellabile> (Gr 20, 11). Nell’orazione dopo la comunione, la Chiesa ci fa pregare così: <Non ci abbandoni, Signore, la forza di questo sacramento che ci unisce a te, e allontani sempre da noi ogni male>. Il male più grande è proprio quello della confusione che il Signore denuncia con impeto nei Giudei che è in ciascuno di noi: avere una tale attrattiva per il peggio da confondere le <molte opere buone> (Gv 10, 32) con il male che ci rode dentro.

Convertire… il nome

V settimana T.Q.

Le parole che il Signore Dio rivolge al nostro padre nella fede rappresentano un momento di rinascita: <Non ti chiamerai più Abram, ma ti chiamerai Abramo, perché padre di una moltitudine di nazioni ti renderò> (Gen 17, 5). I Giudei che discutono con il Signore Gesù dimostrano di non aver ben compreso la portata di questo intervento dell’Altissimo nella vita e nel percorso del comune padre nella fede: <Sei tu più grande del nostro padre Abramo, che è morto? Anche i profeti sono morti. Chi credi di essere?> (Gv 8, 53). In realtà, il Signore Gesù aveva cercato di attirare la loro attenzione su ciò che ci rende immortali, non nel senso dell’essere imperituri o di una grandezza semplicemente umana, bensì di una relazione che struttura fino a ristrutturare continuamente le radici stesse della nostra personalità: <In verità, in verità io vi dico: “Se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno> (8, 51). Il cammino compiuto da Abramo non è altro che il difficile passaggio da una fecondità a partire da se stesso, già contenuta nel significato del suo nome che richiama “un padre alto”, per aprirsi ad una nuova fecondità assai più ampia e duratura che è frutto di una relazione con il “padre altro” che è il padre di tutti.

Il Signore Gesù sembra quasi supplicare i suoi ascoltatori, che si riveleranno ben presto come i suoi persecutori, di aprirsi a questa relazione qualificante: <Se io glorificassi me stesso, la mia gloria sarebbe nulla. Chi mi glorificherà è il Padre mio, del quale voi dite “E’ nostro Dio”> (Gv 8, 54). Il passaggio che spetta ciascuno di noi è di accettare che il nostro nome divenga sempre più quello di “figlio”. Per tutti si presenta la sfida di vivere il passaggio dal bisogno di essere padri alla soddisfazione, serena e rasserenante, di essere figli: <Voi, stirpe di Abramo, suo servo, figli di Giacobbe, suo eletto> (Sal 104, 6). Per questo disse Dio ad Abram divenuto ormai Abramo: <Da parte tua devi osservare la mia alleanza, tu e la tua discendenza dopo di te, di generazione in generazione> (Gen 17, 9). Il Signore Gesù sigilla nel suo mistero pasquale questa fedeltà ad oltranza, che non si arresta davanti a nessuna esigenza e sembra passare oltre ogni minaccia per coronare una fedeltà ineludibile: <Allora raccolsero delle pietre per gettarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio> (Gv 8, 59).

Credere che il Cristo è colui che è nel presente in cui si ricapitola il passato e si prepara il futuro è ciò che può veramente fare la differenza nella vita. Il Dio che si fa nostra salvezza non si identifica mai con ciò che è stato né si rimanda a ciò che sarà, ma si dona in un presente di eternità che fa della realtà una possibilità ulteriore di divinizzazione. Per questo non ci resta, si fa per dire, che lavorare a noi stessi per diventare realmente ciò che siamo: figli! Figli da generare continuamente, in una capacità continuamente rinnovata di aprirsi a nuove tappe di cammino e di crescita senza nostalgie né rammarichi che rischiano, in realtà, di impoverire attraverso l’illusione di grandezze che, in realtà, non sono altro che la gonfiatura delle nostre frustrazioni più profonde. Il Signore Gesù mette in crisi i dottori della Legge proprio perché si fa testimone di un modo di essere vivo che non ha nulla a che vedere con un atteggiamento museale contro cui anche noi dobbiamo tenerci sempre vigilanti per avere ogni giorno la sorpresa di riaccogliere il mistero di noi stessi attraverso un nome sempre da riscoprire e, per certi aspetti, da reinventare.