Giustizia

XXXII settimana T.O.

Nel mondo in cui viveva Gesù la <vedova> (Lc 18, 3) era il simbolo della desolazione assoluta, della povertà senza rimedio. Ciascuno di noi si sente, di fronte al male che talora può toccare la nostra esistenza, come una vedova che fa esperienza della propria radicale povertà nel senso di mancanza di quei mezzi necessari per affrontare ciò che rischia di umiliare e mortificare la vita. L’evangelista Luca mette in scena prima il <giudice> (18, 2) e solo in seguito parla <anche> (18, 3) di questa vedova. In questo modo è come se l’ingiustizia riempisse già la scena della storia e delle vicissitudini umane: <In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno> (18, 2). Con sano realismo, il Vangelo ci mette di fronte alla realtà e lo fa con grande semplicità e senza mistificazione alcuna: il male, l’ingiustizia, la prevaricazione… sono parte della vita proprio come quell’<avversario> evocato dall’andirivieni della vedova presso il giudice. Il vero problema non è chiedersi se sia giusto o meno che essi esistano, quanto piuttosto cercare di comprendere come arginare tutto ciò senza permettere che si dilati fino al punto di togliere la speranza di un modo migliore di stare al mondo.

La parabola che il Signore Gesù racconta ha un fine preciso e una sorta di interpretazione autentica: <sulla necessità di pregare sempre senza stancarsi> (18, 1). La preghiera è una rivolta contro ogni forma di ingiustizia e di prevaricazione perché, contando sulla relazione con l’Altissimo, non ci si piega alle logiche persuasive di chi vuole convincere che le cose debbano andare in un certo modo. Pregare è gridare a Dio la nostra fatica, restando sotto il suo sguardo per avere la forza di rimanere dignitosamente in questo mondo senza lasciarci piegare e soprattutto evitando accuratamente che ci si abitui al male. Il solo fatto di congiungere le mani, di levare lo sguardo al cielo, di mettersi in ginocchio… e pregare, è un modo per ribadire come l’unico signore della storia sia proprio il Signore. Pregare è mettere in pratica l’esortazione dell’apostolo che troviamo nella prima lettura: <diventare collaboratori della verità> (3Gv 8). 

La sfida è di passare da essere oranti devoti a diventare dei credenti oranti. La fede è, infatti, il duplice esercizio della nostra fiducia assoluta in Dio cui si congiunge del tutto naturalmente il nostro impegno a rendere il nostro mondo – quello interiore e quello esteriore – degno di Dio perché capace di dare ospitalità a tutti assumendo il grido della giustizia soprattutto quando viene soffocato o semplicemente ignorato. Il profilo del giusto che ci viene presentato dal salmo responsoriale diventa così un luogo di continua revisione di vita: <Felice l’uomo pietoso che dà in prestito, amministra i suoi beni con giustizia. Egli non vacillerà in eterno: eterno sarà il ricordo dei giusti> (Sal 111, 5-6). Eppure il problema più grande sembra essere più radicale: <Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà troverà la fede sulla terra?> (Lc 18, 8).

Seduttori

XXXII settimana T.O.

L’apostolo ci mette in guardia dai <seduttori che non riconoscono Gesù venuto nella carne> e sottolinea che questo è il <seduttore e l’anticristo!> (2Gv 7). Il Signore Gesù, da parte sua non lesina nel metterci in guardia da tutto ciò che rischia di renderci ciechi e insensibili davanti a quei segni che ci spingono ad andare sempre più in là delle apparenze e delle illusioni e ci offre la chiave d’oro del discernimento spirituale: <Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà; ma chi la perderà, la manterrà viva> (Lc 17, 33). La parola del Signore Gesù, unitamente all’esortazione dell’apostolo, ci portano al cuore del combattimento spirituale che si identifica con una lotta senza quartiere contro tutto ciò che rende la nostra vita appiattita sul presente. Quando cediamo al fascino dell’immediato, facilmente ci ritroviamo a smarrire il senso dell’orientamento e la capacità di andare oltre le apparenze. Così ci viene ricordato che i nostri antenati: <mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano…> (17, 28), ma senza rendersi realmente conto di quello che stava succedendo e di ciò che prezioso stavano perdendo in termini di profondità e di senso.

Sullo sfondo di una realtà dominata dalla superficialità e dall’oblio, si staglia la figura di Noè il quale, mentre tutti sembrano addormentati in una incapacità di guardare oltre l’immediato, <entrò nell’arca e venne il diluvio e li fece morire tutti> (17, 27). Potremmo immaginare il dolce Noè che costruisce un barcone mentre impera sulla terra una grande siccità e mentre in cielo non si scorge nemmeno una nuvola… si può immaginare quanto sia stato deriso fino ad essere compatito. Eppure solo Noè con i pochi della sua famiglia sarà in grado di attraversare la storia fino a permettere che questa conosca un nuovo inizio. Il Signore Gesù evoca Noè, ma non dimentica di evocare pure la <moglie di Lot> (17, 32). Essere discepoli significa non fermarsi mai e non guardarsi mai indietro, ma procedere verso il futuro accettando che dietro e dentro di noi crollino su se stesse le piramidi delle illusioni e delle tergiversazioni.

La lettura della seconda lettera di Giovanni ci lascia nel cuore un senso di profonda consolazione mista ad una sana inquietudine: <Questo è l’amore: camminare secondo i suoi comandamenti> e ancora <Il comandamento che avete appreso da principio è questo: camminate nell’amore> (2Gv 6). Secondo l’apostolo, amare fa tutt’uno con camminare. Pertanto, camminare è sempre un modo per accedere alla <verità> (4) accettando che tutta una serie di cose scompaiano e muoiano senza cercare in alcun modo di arrestare l’inevitabile: <così, chi si trova nel campo, non torni indietro> (Lc 17, 31).

Attenzione!

XXXII settimana T.O.

La lettura del Vangelo secondo Luca è come se accelerasse il nostro battito cardiaco come quando un’emozione forte ci prende il cuore e l’anima. La risposta che il Signore Gesù dà ai farisei arriva direttamente nell’intimo e nella verità delle nostre attese e dei nostri desideri più profondi: <Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione> (Lc 17, 20). Questo proprio perché esso si offre come una realtà, piccola e fragile, che ha bisogno di tutta la nostra attenzione senza che si voglia imporre assolutamente all’attenzione di nessuno. La parola del Signore Gesù ci mette in guardia da ogni appariscenza e da ogni schiacciante evidenza per confermare ancora una volta il segno distintivo della via del Vangelo. Lo stile inconfondibile del Vangelo lo si può evincere dalla discrezione e da un modo di presenza che non ha nulla a che fare con il presenzialismo e una sorta di ricerca continua di evidenze schiaccianti cui non si dovrebbe poter resistere.

Al contrario dell’evidenza e dell’appariscenza, il Signore ci apre davanti la via di un’apertura al mistero della sua presenza fatta di delicatezza e d’amore, di intimità e della discrezione che è propria dell’amore. Per questo come discepoli siamo messi in guardia: <non andateci, non seguiteli. Perché come la folgore, guizzando, brilla da un capo all’altro del cielo, così sarà il Figlio dell’uomo nel suo giorno> (17, 24). Un testo che ha nutrito la devozione e il combattimento spirituale di intere generazioni cristiane ricorda che: <Se gli avrai preparato, dentro di te, una degna dimora, Cristo verrà a te e ti offrirà il suo conforto. Infatti, ogni lode e ogni onore, che gli si possa fare, viene dall’intimo; e qui gli piace abitare. Per chi ha spirito di interiorità è frequente la visita di Cristo; e, con essa, un dolce discorrere, una gradita consolazione, una grande pace, e una familiarità straordinariamente bella. Coraggio, dunque, prepara il tuo cuore a questo sposo, cosicché si degni di venire presso di te e di prendere dimora in te>1.

Un simile atteggiamento di intimità non ha niente a che fare con forme malaticce di intimismo. La prima lettura di quest’oggi, infatti, ci dà tutta la misura della rivoluzione evangelica che, pur non rivoluzionando nulla e rispettando le strutture e le dinamiche vigenti, le trasforma radicalmente, rifondandole sui principi evangelici della libertà e dell’amore. Scrivendo al suo discepolo Filemone, l’apostolo Paolo intercede per l’altrettanto suo discepolo Onesimo ponendosi così all’incrocio di relazioni difficili come quella di uno schiavo fuggitivo dal suo padrone fino a trasfigurarle attraverso un amore fattivo e concreto: <pur avendo in Cristo piena libertà di ordinarti ciò che è opportuno, in nome della carità piuttosto ti esorto> (Fm 8-9). Paolo non richiede a Filemone se non ciò che è disposto ad offrire e a vivere in prima persona: <Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso> (17). Solo la <folgore> (Lc 17, 24) di un amore dato fino in fondo è segno del passaggio e dell’avvento del Regno di Dio in mezzo a noi perché dentro di noi: <Ma prima è necessario che egli soffra…> (17, 25). 


1. Imitazione di Cristo, libro II, cap. 1,1-2.

Indietro

XXXII settimana T.O.

Il senso ultimo del nostro cammino è quello di essere sempre più in grado di essere maggiormente <giustificati per la sua grazia> per diventare <eredi della vita eterna> (Tt 3, 7). Nel Vangelo ci viene narrato il modo in cui la grazia non solo viene donata, ma pure esige di essere accolta e quasi metabolizzata perché sia in grado di illuminare e trasformare la vita in modo reale e profondo. Si potrebbe riassumere il messaggio delle due letture di oggi così: <Non basta essere <purificati> (Lc 17, 17) per essere realmente <giustificati> (Tt 3, 7). La differenza si fa mediante il segno di quel cammino all’<indietro> (Lc 17, 18) che permette di andare oltre il proprio bisogno e di intercettare il desiderio più profondo che abita il nostro cuore umano, il desiderio di potersi relazionare nel segno di una gratitudine capace di approfondire i legami e non solo di offrirsi reciprocamente delle prestazioni. Quando sentiamo semplicemente che il Signore viene incontro alle nostre necessità non siamo ancora entrati nel dinamismo della grazia che esige la capacità di tornare sui propri passi per celebrare una relazione accolta e riconosciuta. Questo avviene quando a spingere verso l’altro non è più solo il bisogno. Questo può avvenire quando a muovere i passi è il desiderio di non lasciar cadere nell’oblio la sofferenza che può diventare luogo di grazia attraverso l’esercizio di una memoria grata.

Le parole del salmo assumono in questo contesto un peso assai particolare: <mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome> e ancora <il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza> come pure <bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita> (Sal 22). Il salmista ci aiuta ancora una volta a comprendere il mistero di questo saper leggere il mistero della nostra vita all’indietro in una capacità sempre più consapevole di fare memoria del dono di una relazione con Dio che ci restituisce alla piena relazione con i nostri simili. La vera lebbra da cui tutti noi abbiamo bisogno di essere purificati è quel senso di isolamento che rischia di renderci non solo estranei, ma persino ostili gli uni agli altri. L’apostolo si lascia prendere da un giusto entusiasmo: <Ma quando apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia> (Tt 3, 4-5).

Possiamo sentire così tutta la forza dell’osservazione di Gesù che ci interpella: <Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?> (Lc 17, 17-18). Imparare a tornare indietro resistendo a tutti quegli stimoli – interiori ed esterni – che spingono ad andare sempre avanti senza mai soffermarsi sulla vita che noi stessi abbiamo la gioia e il compito di vivere. Laddove la nostra supplica si fa fervente e insistente, non dobbiamo mai dimenticare di fare memoria dei doni ricevuti per aprirci alla gratitudine che è il primo grado e il primo passo di ogni versa guarigione:<Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!> (Lc 17, 19).

Libertà

XXXII settimana T.O.

Alla fine dell’ascolto del Vangelo che ci ripropone un’altra parabola sentiamo di essere aiutati ad entrare nella modalità divina di vivere e di relazionarsi, si avverte un sentimento profondo ed efficace di liberazione. La frase che il Signore Gesù si augura possa fiorire sulle labbra dei suoi discepoli è liberante e, al contempo, coinvolgente: <Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare> (Lc 17, 10). Riuscire a pronunciare questa frase non solo senza rammarico, ma con una fiera serenità sembra essere il fine del combattimento spirituale di un’intera esistenza: essere infine liberati dalla paura di non essere all’altezza della vita per sentirsi liberi di vivere nella misura del possibile e del fattibile. L’esortazione dell’apostolo Paolo ci spinge nella medesima direzione: <insegna quello che è conforme alla sana dottrina> (Tt 2, 1). A questo punto ci aspetteremmo da parte dell’apostolo una sequenza di insegnamenti e di dottrine e, invece, ci troviamo di fronte ad una carrellata di quelle che sono le situazioni ordinarie della vita in cui le generazione e i caratteri incrociano continuamente i loro cammini e i loro sguardi: gli <anziani>, <le donne anziane> che vivono in relazione con le <giovani>, e ancora <i più giovani>.

Tutti e ciascuno sono chiamati – siamo continuamente chiamati – a farci canali di una <grazia> che <porta la salvezza a tutti gli uomini> (2, 11). Evidentemente la parola dell’apostolo e l’esortazione del Signore sono alquanto esigenti e sembrano strapparci continuamente ed efficacemente alla tentazione di adagiarci nel nostro comodo e nella ricerca dei nostri piccoli e striminziti interessi. Eppure, l’esigenza di una vita continuamente in lotta contro i lacci dell’egoismo si rivela un luogo di autentica libertà che non è mai libertà di fare quello che si vuole, ma corrisponde sempre al difficile ed entusiasmante cammino di essere in grado di mettere la propria vita a servizio di un incremento possibile di felicità. Nel linguaggio della parabola, la parola del padrone sembra una minaccia: <Prepara da mangiare, stringiti la veste ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu> (Lc 17, 8).

A questo punto, proprio quando tutto sembra perduto e la condizione del servo sembra completamente assoggettata e minorata nella libertà, scocca come una freccia una domanda: <Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?> (17, 9). A questa domanda, in realtà, non viene data una risposta! Eppure conoscendo, attraverso il Vangelo, il cuore di Dio, possiamo veramente osare affermare che il nostro Dio è pieno di gratitudine perché continuamente ci dona la sua grazia <nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo> il quale <ha dato se stesso per noi> (Tt 2, 13-14). Ora tocca a noi di fare altrettanto con la medesima grazia e, soprattutto, con la medesima libertà interiore. Il salmo ci conforta: <Sta’ lontano dal male e fa’ il bene e avrai sempre una casa> (Sal 36, 27). La nostra dimensione creaturale non è motivo di diminuzione, ma di felicità nella relazione, come il disegno di un bambino attaccato allo sportello del frigo che è capace di rendere felice il bimbo e ancor più i suoi genitori non per il suo pregio, ma per il segno di un amore ricevuto e ridonato.

Abbiamo fatto quanto dovevamo fare… abbiamo fatto quanto potevamo fare!

Ospitale

XXXII settimana T.O.

Tra le molte note che l’apostolo Paolo evoca per tratteggiare i caratteri di un pastore degno di questo nome ve n’è una che ci colpisce un po’ di più fin quasi a sorprenderci in modo attrattivo: <ospitale> (Tt 1, 8). Quest’attitudine che sembra un requisito fondamentale per il ministero illumina e, in certo modo, orienta nella giusta interpretazione della conclusione della prima lettura: <fedele alla Parola, degna di fede, che gli è stata insegnata, perché sia in grado di esortare con la sua sana dottrina e di confutare i suoi oppositori> (1, 9). Esortare, certo, fino a confutare chiaramente e indubbiamente… ma con un animo ospitale! L’esortazione dell’apostolo che riguarda i pastori della Chiesa, in realtà tocca il cuore del nostro essere discepoli chiamati a praticare un’ospitalità che se si esprime nella capacità di accogliere, raggiunge il massimo di espressione evangelica nella capacità di perdonare: <Se il tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli> (Lc 17, 3).

La parola del Signore Gesù ci spinge veramente lontano: <E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: “Sono pentito”, tu gli perdonerai> (17, 4). Al cuore della parola di oggi vi è un’esortazione chiara: <State attenti a voi stessi!> (17, 3). Questo non è un avvertimento che insinua il sospetto su tutto, ma il sereno annuncio di un amore più grande che ci permette di accogliere e di far crescere in modo responsabile noi stessi e gli altri, noi stessi con gli altri. Quest’attenzione riguarda certo la vigilanza necessaria ad evitare per quanto possibile di essere complici di quegli <scandali> che pure avvengono in modo <inevitabile> (17, 1). Nondimeno anche l’attenzione per non essere sospettosa e ossessiva va sempre congiunta alla capacità di andare oltre gli scandali – piccoli e grandi – per essere capaci di curare tutte le malattie con il balsamo necessario della misericordia. Ogni discepolo è chiamato ad essere come il vescovo <amministratore di Dio> (Tt 1, 7) che significa essere capace di offrire a tutti un volto ospitale di Dio stesso verso le necessità e le esigenze di tutti. 

Dinanzi a questo compito non possiamo che fare nostra la preghiera degli apostoli: <Accresci in noi la fede!> (Lc 17, 5). Questa supplica potrebbe diventare <accresci in noi l’ospitalità>. Sì, perché la nostra fede in Dio è sempre congiunta ad un senso di accoglienza degli altri il cui mistero, non esente da ombre come è la nostra stessa vita, è sempre un riflesso dello stesso mistero di Dio. La piccola fede in Dio che genera quei piccoli passi di fiducia nei confronti dei nostri fratelli è capace di grandi cose nella misura in cui crediamo veramente in Dio e negli altri. Solo allo specchio di una ospitalità generosa al mistero di Dio che si riflette e ci visita fino ad interpellarci attraverso le necessità e le fragilità dei nostri fratelli, potremo avere una giusta considerazione di noi stessi per metterci a servizio di tutti senza ingenuità e senza inutili durezze. 

Vedove

XXXII Domenica T.O.

Possiamo veramente dire che questa è la domenica della vedova… delle vedove! Ritroviamo questa figura nella prima e nella terza lettura e, soprattutto, ritroviamo una vedova come speranza del grande profeta Elia e come motivo di ammirazione del Signore Gesù. Forse persino come luogo di identificazione di quel cammino di assoluta perdita e di completa offerta che sta per compiersi in Lui. Tutti noi, certo, siamo commossi e ammirati davanti a questa vedova povera – per nulla una povera vedova – la quale mette nel tesoro del tempio tutto ciò che le rimane per vivere. Infatti, la vita che le resta è percepita talmente come un dono da non poter – per sua stessa natura – essere trattenuto, ma semplicemente donato. Davanti a questo “esempio”, ciascuno di noi è spinto a porsi la domanda su quanto sia o meno capace di avere la stessa attitudine che anima in modo così profondo e naturale la vita di questa donna. Prima di parlarci di noi e del nostro comportamento, prima di parlarci di quella donna e del suo gesto, la liturgia ci parla del Signore Gesù. Per questo ci aiuta la seconda lettura in cui si dice: <Cristo nella pienezza dei tempi è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso> (Eb 9, 26). La vedova è animata da questo medesimo desiderio e dallo stesso coraggio del Signore Gesù nell’offrire la totalità di se stessa perché ormai libera dalla paura di rimanere senza niente. Tutti noi portiamo nel cuore la ferita di una mancanza, la spina di un’assenza, la povertà di una solitudine isolante: tutti noi siamo come delle vedove e, ancora più certamente, tutti noi siamo dei poveri. Oggi il Signore Gesù ci invita a seguirlo sulla via del dono coraggioso. Ben altro è il <superfluo> (Mc 12, 44) dalla capacità di donarci ancora proprio quando – dopo aver perso tutto – non ci rimane che pochissimo a cui aggrapparci. Il Signore Gesù ci invita con forza e dice: “non aggrapparti, ma dona” poiché <il Signore rimane fedele per sempre> (Sal 145, 7). Subito dopo aver invitato i suoi discepoli a imparare da questo vedova che non si accorge di essere stata scorta e additata come esempio, il Signore Gesù annuncia ai suoi discepoli la distruzione del Tempio di cui non rimarrà <pietra su pietra> (Mc 13, 2). Questo non fa che rafforzare la gratuità dell’obolo di questa donna che dona in pura perdita e senza neppure la garanzia che Dio tenga in piedi ciò che lei cerca di sostenere piamente con il suo dono. Infatti – come dice il salmo – solo <il Signore regna per sempre> (Sal 145, 10). Del resto i gesti di un amore così grande e così definitivo non può che radicarsi in una fede grande nel mistero di una vita più grande che ci attende: la vita eterna. Questa donna che sa attirare amabilmente lo sguardo ammirato del Signore Gesù compie la legge fino all’ultimo <iota> (Mt 5, 18).

Veuves

XXXII Dimanche du T.O. 

Nous pouvons vraiment dire que ce dimanche est le dimanche de la veuve…des veuves ! Nous retrouvons cette figure dans la première et la troisième lecture, et surtout, nous retrouvons une veuve comme espérance du grand prophète Elie et comme motif d’admiration du Seigneur Jésus. Peut-être même aussi comme le lieu d’identification de ce chemin de perte absolue et d’offrande totale qui est en train de s’accomplir en Lui. Bien sûr, nous sommes tous émus et admiratifs face à cette veuve pauvre – qui n’a rien d’une pauvre veuve – qui met dans le trésor du temple tout ce qui lui reste pour vivre. En fait, la vie qui lui reste est perçue totalement comme un don – de par sa nature même – qui ne peut être maintenu, mais simplement donné. Face à cet ” exemple “, chacun de nous est poussé à se poser la question sur sa capacité d’avoir plus ou moins la même attitude qui anime de manière si profonde et naturelle la vie de cette femme. Avant de parler de nous et de notre comportement, avant de parler de cette femme et de son geste, la liturgie nous parle du Seigneur Jésus. La seconde lecture nous aide pour cela en disant : ” Christ est apparu dans la plénitude des temps pour annuler le péché en se sacrifiant lui-même ” ( He 9, 26 ). La veuve est animée du même désir et du même courage que le Seigneur Jésus en offrant la totalité d’elle-même car, désormais, libérée de la peur de rester sans rien. Nous portons tous dans le coeur la blessure d’un manque, l’épine d’une absence, la pauvreté d’une solitude isolante : nous sommes tous comme des veuves et, plus encore, nous sommes tous des pauvres. Aujourd’hui, le Seigneur Jésus nous invite à le suivre sur le chemin du don courageux.  Tout autre est le ” superflu ” ( Mc 12, 44 ) de la capacité de se donner encore surtout lorsque – après avoir tout perdu – il ne nous reste que très peu à quoi s’agripper. Le Seigneur Jésus nous invite avec force et nous dit : ” ne t’agrippe pas, mais donne ” car le Seigneur demeure fidèle pour toujours ” ( Ps 145, 7 ). Tout de suite après avoir invité ses disciples à  apprendre de cette veuve qui ne se rend pas compte d’être découverte et citée en exemple, le Seigneur Jésus annonce à ses disciples la destruction du Temple dont il ne restera ” aucune pierre ” ( Mc 13, 2 ) Ceci ne fait que renforcer l’obole de cette femme qui donne en pure perte et sans même la garantie que Dieu maintienne ce qu’elle cherche à soutenir pieusement par son don. En effet, – comme le dit le psaume – seul ” le Seigneur règne pour toujours ” ( Ps 145, 10 ).  D’autre part, les gestes d’un amour si grand et si définitif  ne peuvent que s’enraciner dans une grande foi en le mystère d’une vie plus grande encore qui nous attend : la vie éternelle. Cette femme qui sait attirer aimablement le regard admiratif du Seigneur Jésus accomplit la loi jusqu’au dernier ” iota ” ( Mt 5, 18 ).

Soglia

Dedicazione del Laterano

La parola di Dio ci fa entrare in questa festa della Dedicazione della basilica del Laterano con un’immagine liminare: <Un uomo, il cui aspetto era come di bronzo, mi condusse all’ingresso del tempio e vidi che sotto la soglia del tempio usciva acqua verso oriente> (Ez 47, 1). Sembra che il tempio non serva per quello che avviene dentro di esso, ma per ciò che a partire da esso si può vivere il più ampiamente e il più lontano possibile. La visione di Ezechiele continua, facendo del tempio un elemento di orientamento e non di accentramento. Per questo il profeta viene ancora condotto da quell’uomo <fuori dalla porta settentrionale e mi fece girare all’esterno> (47, 2). L’immagine del tempio se si mantiene in continuità con gli usi e le sensibilità dei popoli e delle culture vicine, nella sensibilità – in particolare quella mediata e ravvivata dai profeti di Israele – si discosta da ogni rischio di automatica identificazione del luogo sacro con una relazione autentica con Dio. Il tempio sta in mezzo al popolo come memoria di un’assenza che si fa presente non in modo magico e autoreferenziale, ma in modo eccentrico: <Queste acque scorrono verso la regione orientale, scendono nell’araba ed entrano nel mare: sfociate nel mare, ne risanano le acque…> (47, 8).

Alla luce di questa visione, in cui si invera il modo di sentire la presenza di Dio, possiamo avvertire il grande peso di responsabilità che provengono dalla consapevolezza di cui si fa interprete l’apostolo Paolo: <Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio che siete voi> (1Cor 3, 16-17). Sembra che un modo di distruggere il tempio, come luogo di presenza continuamente in osmosi con la realtà della vita, è quello di chiuderne le porte tanto da non permettere più alla <soglia> di fungere da luogo di comunicazione e di scambio tra l’interno e l’esterno. Il malinteso che si crea tra il Signore Gesù e i Giudei riguarda proprio quest’attitudine di apertura che rifugge da ogni ripiegamento comodo, egoistico, commerciale, mascherato di devozione. La nota dell’evangelista Giovanni ci emoziona sempre: <Ma egli parlava del tempio del suo corpo> (Gv 2, 21). Come discepoli del Signore ogni volta che entriamo in un luogo di preghiera siamo chiamati a rammentarci a fare del nostro corpo quale spazio in cui ciò che portiamo dentro incontra ciò che sta fuori di noi e attende da noi un <segno> (2, 18), dobbiamo fare memoria che siamo tempio e siamo tempio aperto da cui la vita e l’amore fluiscono e vanno lontano.

La formula con cui il Vescovo di Roma, Francesco, si è assiso sulla cattedra di Pietro ha dato un respiro nuovo al modo di concepire il servizio di carità della Chiesa di Roma ripristinando il modo antico e originale di immaginarlo e di proporlo: <Questo è il luogo eletto e benedetto, dal quale, fedelmente nello scorrere dei secoli, la roccia su cui è fondata la Chiesa, conferma nella verità della fede tutti i fratelli, presiede nella carità tutte le Chiese e con ferma dolcezza tutti guida sulle vie della santità>. La Chiesa diventa una soglia verso la vita e la gioia per tutta l’umanità!

Amministratori

XXXI settimana T.O.

Dall’amministratore <disonesto> (Lc 16, 8) siamo chiamati ad imparare come essere onesti al massimo delle nostre possibilità. Sembra che la cosa più importante sia quella di non adagiarsi su ciò che si è già realizzato nella vita per imparare a dare di più creando un ulteriore incremento della propria speranza che, in modo del tutto naturale, sembra essere una speranza per gli altri. L’apostolo Paolo non esita ad offrire se stesso come modello fino a dire: <fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi> (Fil 3, 17). Sembra che al cuore del messaggio della Parola di Dio che ci viene incontro quest’oggi vi sia un invito a considerare che il tesoro più importante da custodire sono proprio le relazioni con i nostri fratelli e sorelle in umanità. Infatti, ciò che rende lodabile questo <amministratore disonesto> è il fatto che nel momento della difficoltà non trova di meglio che fare ricorso alle persone con cui, comunque, ha saputo intessere relazioni amicali o comunque di solidarietà e per questo <Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone> (Lc 16, 5).

Per comprendere la preziosità del modello che ci viene dal protagonista della parabola è necessario partire dalla conclusione del testo ove è lo stesso Signore Gesù a farsi interprete del racconto che ha appena esposto ai suoi uditori: <I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce> (16, 8). Anche in altri passi del Vangelo, il Signore Gesù non esita a paragonare il giudizio di Dio a quello di un giudice ingiusto (18, 1-8), come pure invita i suoi discepoli ad imparare l’astuzia dai serpenti (Mt 10, 6). Possiamo dire che sono i contrasti più forti ad evidenziare più profondamente i valori sommamente importanti perché la vita vada avanti comunque. Con queste immagini forti, esigenti e paradossali, il Signore chiede ai suoi discepoli di mettere a disposizione del Regno non solo tutte le proprie energie, ma pure di essere capaci di farlo al meglio, proprio come si farebbe nel caso si sentisse venir meno la sicurezza della propria vita e la speranza di un futuro vivibile.

Il ragionamento interiore dell’amministratore non fa una piega: <Che cosa farò ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua> (Lc 16, 3-4). Laddove noi siamo inclini a pensare alla vita spirituale come un continuo gioco al ribasso, il Signore Gesù ci spinge a giocare al rialzo stimolandoci potentemente senza omettere una buona dose di provocazione e di audacia che si spinge fino al limite cercando di rimanere dentro il limite. Detto questo, possiamo ritenere la conclusione della prima lettura come epilogo del vangelo, analogamente alla fine di una favola, e dire: <rimanete in questo modo saldi nel Signore> (Fil 4, 1) senza inutili paure e dannose timidezze per essere veramente ed efficacemente <figli della luce> anche in mezzo alle tenebre.