Contemplare

XIII Settimana T.O. –

Le prime battute della prima lettura ci aprono ad uno sguardo assai particolare: <Quegli uomini si alzarono e andarono a contemplare Sodoma dall’alto, mentre Abramo li accompagnava per congedarli> (Gen 18, 16). Normalmente pensiamo sia l’uomo a mettersi in atteggiamento di contemplazione nei confronti di Dio e qui veniamo a sapere che è il Signore a porsi in contemplazione della vita di quanti vivono in Sodoma. Questo avviene subito dopo la splendida accoglienza che Abramo riserva ai tre visitatori cui corrisponde, al contrario, l’incapacità di accoglienza degli abitanti di Sodoma. Nel racconto si crea una meravigliosa tensione che assume i caratteri di una singolar tenzone. Infatti, anche Abramo si mette a contemplare la vita degli abitanti di Sodoma e si lancia in una serrata intercessione perché non accada che l’occhio catturato fino ad essere dominato dal male non sia in grado di scorgere la presenza anche di un solo <giusto> (18, 23).

Nella logica di questo meraviglioso racconto impariamo che contemplare è l’atto più efficace che possiamo porre nella storia e la contemplazione non è mai un’astrazione, ma la capacità di guardare fino i fondo senza mai fidarsi di ciò che salta all’occhio. L’Altissimo non se la sente di sembrare agli occhi di Abramo che lo ha accolto all’ombra della sua tenda con così grande premura un Dio che rischia di sterminare il giusto con l’empio e per questo si sente in dovere di dialogare e persino di farsi verificare dal suo servo Abramo: <Devo io tenere nascosto ad Abramo quello che sto per fare, mentre Abramo dovrà diventare una nazione grande e potente e in lui si diranno benedette tutte le nazioni della terrà?> (18, 17-18). Così il dialogo si fa pressante e altamente esigente fino alla sua conclusione che, in realtà, ha più il sapore di una conclusione: <Come ebbe finito di parlare con Abramo, il Signore se ne andò e Abramo ritornò alla sua abitazione> (18, 33).

Alla luce di tutto ciò possiamo intendere meglio ciò che troviamo nel Vangelo: <vedendo la folla attorno a sé, Gesù ordinò di passare all’altra riva> (Mt 8, 18). Per comprendere il senso di questo desiderio del Signore, l’evangelista Matteo chiede di misurare il nostro desiderio di sequela con la nostra disponibilità a ad andare ben oltre i nostri progetti di sequela per aprirci ad orizzonti di totalità: <Seguimi, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti> (8, 22). Una parola simbolica che non riguarda i <morti> che è più che doveroso seppellire, ma riguarda i vivi che non riescono a salpare verso gli spazi della vita e rimangono incagliati nei porti tanto sicuri quanto mortiferi: l’urgenza è di vivere che passa attraverso la scuola non informativa ma formativa della preghiera che è una <prodigiosa distilleria dell’invisibile>1.

Lasciamoci contemplare, lasciamoci trasformare, lasciamoci perdonare!


1. Ph. MAC LEOD, Avance en vie profonde, Ad Solem, Genève 2012, p. 52.

Toccati

Ss. Pietro e Paolo

Gli Atti degli Apostoli ci ricordano un particolare della vita di Pietro che può diventare il simbolo e il filo conduttore per celebrare e vivere questa solennità: <Ed ecco, gli si presentò un angelo del Signore e una luce sfolgorò nella cella. Egli toccò il fianco di Pietro, lo destò e disse: “Alzati, in fretta”> (At 12, 7). Lo stesso Paolo facendo memoria del suo cammino personale rammenta con una certa solennità: <Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza> (2Tm 4, 17). Da sempre gli apostoli Pietro e Paolo sono stati ricordati dalla Chiesa insieme quasi a testimoniare la perennità e la possibilità di quell’inviare i discepoli <a due, a due> (Lc 10, 1) da parte del Signore Gesù. Il primo miracolo e la testimonianza più grande che possiamo rendere al Vangelo per dare speranza all’umanità in cui siamo chiamati a vivere come lievito nella pasta è proprio questa volontà di ritrovarsi, nonostante tutto e attraverso tutte le diversità, a testimoniare insieme benché in modo personale e unico. Eppure, non bisogna mai dimenticare che ciò è possibile solo perché si è stato “toccati” in modo unico, eppure, condiviso da un’esperienza di grazia che si fa ministero di grazia per tutti.

Mentre celebriamo il martirio nel duplice senso della testimonianza e dell’effusione del sangue dei santi Pietro e Paolo, possiamo da una parte ripercorrere la loro vita e dall’altra prendere coscienza di quanto e di come il Signore ha toccato pure la nostra esistenza e ci chiede ogni giorno di alzarci e metterci di nuovo in cammino. Subito dopo che l’angelo del Signore tocca il fianco di Pietro si dice che <le catene gli caddero dalle mani> (At 12, 7). Anche l’apostolo Paolo evoca le sua <catene> (Fil 1, 13) come pure ricorda con forza che <fui liberato dalla bocca del leone> (2Tm 4, 17). Pietro e Paolo sono stati toccati per essere liberati dalle catene che potevano imprigionarli su se stessi. Per ambedue gli apostoli si è fatto sempre più chiaro e sempre più ampio il cammino pasquale cui erano chiamati e annunciato con solennità dal Risorto al discepolo recuperato all’amore e liberato dal rammarico: <ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi> (Gv 21, 18). 

Le parole dell’angelo avranno risvegliato nel cuore di Pietro quella parola pronunciata dal Signore Risorto sulla riva di quello stesso lago sulle cui sponde era risuonato l’appello alla sequela: <Metti il mantello e seguimi!> (At 12, 8). Si potrebbe dire che il cammino della sequela non è mai finito e ricomincia veramente ogni mattina. Non bisogna comunque dimenticare che se la sequela è di ogni giorno non è mai uguale, ma si misura con le esigenze e le sfide di ogni giorno in cui si aprono sempre nuove porte da attraversare e nuovi orizzonti da amare per evitare le prigioni del conformismo e delle ripetizioni mortifere. La grande professione di fede di Pietro: <Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente> (Mt 16, 15) diventa una professione esistenziale: <Ora so veramente che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode e da tutto ciò che il popolo dei Giudei si attendeva> (At 12, 11). 

Le <colonne>! Basti pensare alle rovine di un tempio… colonne solitarie che non sostengono più nessun frontone, nessuna volta, nessuna cuspide. Le colonne servono a portare più in alto altro e altri accettando di portarne il peso con gioia e gloria. A nulla varrebbero le colonne degli apostoli se la nostra fede e la nostra testimonianza non si appoggiassero fino ad innalzarsi offrendo un riparo di bellezza e di verità.

Touchés

Saints Pierre et Paul –

Les Actes des Apôtres nous rappellent une particularité de la vie de Pierre qui peut devenir un symbole et un fil conducteur pour célébrer et vivre cette solennité : «  Et voici qu’un ange du Seigneur se présenta et le cachot fut inondé de lumière. L’ange frappa Pierre au côté et le fit lever :  « debout, vite ! Dit-il »  ( Ac 12, 7 ). De même, Paul, se souvenant de son chemin personnel se remémore avec une certaine solennité : «  Le Seigneur pourtant était proche de moi et m’a donné la force » ( 2 Th 4, 17 ). Depuis toujours, l’Église se souvient de Pierre et Paul ensemble comme pour témoigner de la continuité et de la possibilité d’envoyer les disciples «  deux par deux » ( Lc 10, 1 ) de la part du Seigneur Jésus. Le premier miracle et le plus grand témoignage que nous pouvons rendre à l’Evangile pour donner à l’humanité l’espérance pour laquelle nous sommes appelés à vivre comme un levain dans la pâte est vraiment cette volonté de se retrouver, malgré tout et à travers toutes les diversités, pour témoigner ensemble, bien que de façon personnelle et unique. Et pourtant, il ne faut jamais oublier que ceci est possible uniquement parce qu’ils ont été «  touchés » de manière unique et qu’ils ont partagé une expérience de grâce qui se fait ministère de grâce pour tous.

Alors que nous célébrons le martyre- dans les deux sens du mot -du témoignage et de l’effusion du sang des saints Pierre et Paul, nous pouvons d’une part reparcourir leur vie et de l’autre prendre conscience de combien et de comment le Seigneur a touché aussi notre existence et nous demande chaque jour de nous lever et de nous mettre à nouveau en route. Dès que l’ange du Seigneur touche le côté de Pierre, l’on dit que «  les chaînes lui tombèrent des mains » ( Ac 12, 7 ). L’apôtre Paul aussi évoque sa «  chaîne » ( Ph1, 13 ) et de même il se souvient avec force qu’il «  fut libéré de la bouche du lion » ( 2 Th 4, 17). Pierre et Paul ont été touchés pour être libérés des chaînes qui pouvaient les emprisonner sur eux-mêmes. Pour les deux apôtres, le chemin pascal est devenu toujours plus clair et ample, appelés à annoncer avec solennité l’amour récupéré du Ressuscité au disciple, se libérant du regret : «  lorsque tu seras vieux, tu tendras tes mains et un autre te vêtira et t’emmènera là où tu ne voudras pas » ( Jn 21, 18 ).

Les paroles de l’ange auront réveillé dans le coeur de Pierre cette parole prononcée par le Seigneur Ressuscité sur la rive de ce même lac où apparut et résonna l’appel : «  Mets ton manteau et suis-moi ! » ( Ac 12, 8 ). L’on pourrait dire que le chemin pour suivre Jésus n’est jamais fini et recommence vraiment chaque matin. Il ne faut donc pas oublier que suivre se fait chaque jour, il n’est jamais pareil, mais se mesure par les exigences et les défis de chaque jour où s’ouvrent toujours de nouvelles portes à traverser et de nouveaux horizons à aimer pour éviter les prisons du conformisme et des répétitions mortifères. La grande profession de foi de Pierre : «  Tu es le Chris, les Fils du Dieu vivant » ( Mt 16, 15 ) devient une profession existentielle : «  Maintenant je sais vraiment que le Seigneur a envoyé son ange et m’a arraché de la main d’Hérode et de tout ce que le peuple des Juifs attendait » ( Ac 12, 11).

Les «  Colonnes » ! Il suffit de penser aux ruines d’un temple…colonnes solitaires qui ne soutiennent plus aucun fronton, aucune voûte, aucun sommet. Les colonnes servent à porter bien plus haut autre chose  en acceptant d’en porter le poids avec joie et gloire. Les colonnes des apôtres ne serviraient à rien si notre foi et notre témoignage ne s’appuyaient pas jusqu’à l’élévation, offrant un abri de beauté et de vérité.

Perdere

Cuore Immacolato di Maria –

Quando si entra nella logica della ricerca di Dio e nel desiderio di compiere la sua volontà, il prezzo è la disponibilità a perdere in termini di sicurezza e di comprensione. Il testo evangelico si conclude con una finestra sulla fatica di Maria e di Giuseppe che è pure la nostra: <Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro> (Lc 2, 50). Dopo aver contemplato il mistero del cuore di Cristo e del suo ineffabile donarsi a noi come via per ricomprendere e attraversare la vita nella logica propria del Vangelo, la Liturgia ci fa contemplare il cuore di sua madre. La prima lettura ci fa entrare nell’esultazione profonda che ha accompagnato, come un sottofondo inalterabile, la vita e l’esperienza di fede di Maria: <Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza, mi ha avvolto con il mantello della giustizia, come uno sposo che si mette il diadema e come una sposa che si adorna di gioielli> (Is 61, 10). Ma l’esultazione e la gioia che hanno segnato il cammino di Maria, la cui vita è stata totalmente a servizio del mistero dell’incarnazione e della piena umanazione del Verbo, ha conosciuto, sin dal primo istante dell’annunciazione fino all’attesa trepida della risurrezione, la realtà dell’angoscia.

Il Vangelo di quest’oggi ce lo ricorda in modo chiaro e condiviso con il padre del Signore, con Giuseppe sposo di Maria: <Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo> (Lc 2, 49). Il cuore di Maria non è stato poi così diverso da quello che sente e patisce il nostro stesso cuore: ha provato le gioie più indicibile come quella di stringere tra le braccia e accompagnare la crescita del Signore Gesù, ma ha anche patito tutti i turbamenti che nascono dall’incertezza di ogni cammino di fede che sia autentico. Il cuore di Maria ha dovuto imparare il ritmo di Dio fino ad entrare nel suo modo di guidare e di vivere la storia. Una cosa che sicuramente Maria ha imparato, prima di noi e forse persino un po’ per noi, è una verità fondamentale: per camminare nelle vie del Signore ci vuole tempo non tanto per capire quanto per aderire! <Tre giorni> (2, 46) sono il ritmo necessario alla fede perché diventi luogo di fede non a livello intellettuale, ma nella piena e generosa adesione del cuore.

Pur avendolo generato e accolto come un figlio, Maria e Giuseppe devono imparare a cercarlo e a trovarlo senza mai possederlo e questo processo interiore non solo non è mai scontato, ma è sempre giustamente doloroso. L’evangelista Luca ci fa intuire il disagio di Maria unitamente a quello di Giuseppe in cui si consuma la fatica di un cuore chiamato ad amare senza identificare l’amore con le proprie emozioni e i propri progetti: <Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro> (2, 50). Quante volte questo potrebbe essere detto di noi? Eppure, non capire può essere talora il primo passo per aderire al mistero dell’altro accettando che esso ci riveli a noi stessi in modo più ampio e più vero. Al cuore di Maria possiamo affidare tutte le nostre fatiche quando non capiamo molto della nostra vita e di quella di quanti amiamo, senza smettere di desiderare di camminare insieme mettendo in conto anche di doverci forse persino perdere: <Scese dunque con loro…> (2, 51). Per il cuore questa è la cosa più importante e irrinunciabile.

Spalle

Sacratissimo Cuore di Gesù –

Viene finalmente esaudito il nostro desiderio più grande espresso, a nome di tutti, dal mitissimo Mosè. Nel mistero pasquale di Cristo Signore possiamo vedere il volto di Dio non più di spalle (Es 32), ma sentirlo – a viva pelle – in un contatto intimo e unico sentendoci portati sulle sue <spalle> (Lc 15, 5). Come prega e medita Guglielmo di Saint Thierry: <Beati coloro che sono travolti dal tuo abbraccio! Beati coloro che, sepolti in questa profondità, sono stati nascosti da te nel segreto del tuo cuore, coloro che ti metti in spalla, lontano dal turbamento di questo mondo. Beati coloro la cui sola speranza sta nella dolcezza e nella protezione delle tue ali. La fortezza delle tue spalle ripara coloro che nascondi nel tuo cuore. Lì, possono dormire tranquillamente. Una dolce attesa li rallegra tra gli ovili di una santa coscienza e dell’attesa della ricompensa da te promessa. La loro debolezza non li fa svenire, né mormorare alcuna inquietudine>1.

L’apostolo Paolo sottolinea un aspetto particolare che dà al mistero di compassione rivelatosi in Cristo Gesù tutta la sua profondità e il suo spessore. Il dono dell’amore ci è stato fatto <quando eravamo ancora deboli> (Rm 5, 6). Non solo, l’amore ha manifestato la sua resistenza ad ogni assalto perché è stato capace di <morire> proprio <mentre eravamo ancora peccatori> (Rm 5, 7-8). La solennità del Sacro Cuore di Gesù è come il sigillo ultimo al lungo cammino percorso attraverso l’itinerario della Quaresima e della Pasqua e sembra darci una sorta di sguardo essenziale su quella che è l’attitudine di Dio nei nostri confronti che, nelle parole del profeta Ezechiele, è semplice e lapidaria: <Ecco, io stesso cercherò le mie pecore…> (Ez 34, 11). Il salmo responsoriale ci ricorda come questo perenne cercarci di Dio è <a motivo del suo nome> (Sal 22, 3), quasi per evitare accuratamente che le nostre resistenze all’amore possano segnare e fragilizzare l’infinita compassione di Dio per la nostra umanità.Come scrive in un verso il poeta spagnolo Garcia Lorca: <Dio si è coperto di una ferita d’amore che non guarirà mai>. Un mistico sufi diceva che <Quando uno si ammala di Gesù Cristo non guarisce più>! Oggi contempliamo la verità e la grandezza di un amore che <è stato riversato nei nostri cuori> (Rm 5, 5) e che continua a seguire la sua logica di ricerca, di attesa, di desiderio per ognuno di noi che è pecora per tanti versi smarrita che continuamente è cercata con l’ostinazione di una compassione che non si arrende davanti a nessun ostacolo per poter affermare con fierezza: <perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta> (Lc 15, 6). Una volta trovati siamo caricati sulle spalle di Cristo che rivelano la solidità delle spalle di Dio che non temono, ma si rallegrano del nostro peso. Le spalle di Dio sono solide e ci permettono persino di poterci smarrire in pace per essere ritrovati con <gioia> (15, 5). 


1. GUGLIELMO DI ST. THIERRY, Orazioni meditative, 8, 6.

Dieci anni!

XII Settimana T.O. –

Nella prima lettura ci viene narrato uno dei passaggi più delicati della storia di Abramo: <Così, al termine di dieci anni da quando Abram abitava nella terra di Canaan, Sarài, moglie di Abram, prese Agar l’Egiziana, sua schiava, e la diede in moglie ad Abram, suo marito> (Gen 16, 3). Abram e Sarai sono stanchi di aspettare – come spesso capita anche a noi – e decidono così di arrangiarsi. Dieci anni sono un tempo lungo e compiuto e questo arco di tempo rappresenta la necessaria pazienza senza la quale nulla può veramente radicarsi e fondarsi stabilmente nella nostra vita. Sara pensa di trovare una soluzione, ma questa soluzione, che cerca di aggirare l’ostacolo di un’attesa percepita come infinita e inutile, non fa che creare ulteriore fatica e dolore per tutti. Di Agar si dice che <la sua padrona non contò più nulla per lei> (16, 4). Di Sara si dice che <la maltrattò, tanto che quella fuggì dalla sua presenza> (16, 6). Di Abramo non sappiamo bene cosa pensare visto che si limita a non intromettersi tra le due donne che sono ormai sue mogli e una delle quali porta in grembo un suo figlio: <Ecco, la tua schiava è in mano tua: trattala come ti piace>!

Il Signore, attraverso il farsi presente del suo angelo, non resta a guardare, ma si fa vicino cercando di salvare e custodire la vita pur nel rispetto di quelle che sono le inevitabili conseguenze dei nostri arrangiamenti: <perché il Signore ha udito il tuo lamento> (16, 11). Abramo non è ancora diventato l’<uomo saggio> (Mt 7, 24) di cui ci parla il Signore Gesù nel Vangelo. Per costruire <sulla roccia> bisogna prendere tutto il tempo per scavare al fine di evitare la <rovina> (7, 27). Nondimeno bisogna riconoscere ad Abramo tutte le attenuanti del caso! Non è facile sentire nel proprio cuore il crepitio del fuoco di una promessa e dover sopportare il gelo di un continuo rimando che fa disperare ormai di una vera realizzazione. L’esperienza di Abramo e l’insegnamento del Signore Gesù aprono anche le nostre vite alla pratica di una pazienza che non è semplice rassegnazione, ma che si fa preparazione delle condizioni di più ampie realizzazioni.

Nel frattempo, dobbiamo non solo imparare ad aspettare, ma pure siamo chiamati a portare il peso delle conseguenze di scelte non del tutto sbagliate, ma chiaramente claudicanti: <Agar partorì ad Abram un figlio e Abram chiamò Ismaele il figlio che Agar gli aveva partorito. Abram aveva ottantasei anni quando Agar gli partorì Ismaele> (Gen 16, 15-16). Eppure, nonostante i suoi ottantasei anni e i dieci anni intercorsi dal suo arrivo nella terra di Canaan, c’è ancora un lungo cammino di fede e di speranza da compiere. Così pure per noi, nonostante forse talora ci sentiamo di dire con una certa fierezza rassicurante: <Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demoni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?> (Mt 7, 22) c’è ancora sempre molto cammino da fare per entrare nel mondo e nello stile di Dio. Come insegna Doroteo di Gaza ogni giorno dobbiamo ricominciare a costruire la nostra casa pietra dopo pietra: una pietra di pazienza, una pietra di compassione, una pietra di perdono, una pietra di vigilanza… senza dimenticare le pietre angolari della costanza e del coraggio1.


1. DOROTEO DI GAZA, Insegnamenti, XIV.

Tagliato

XII Settimana T.O. –

Le parole del Signore Gesù potranno sembrare un po’ eccessive, eppure sono parole che liberano il cuore da ogni forma di illusione come pure da ogni inutile argomentazione che non tocchi la concretezza e la verità della vita: <Ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco> (Mt 7, 19). È uno spettacolo che tutti ci ha affascinato almeno una volta quando eravamo bambini: guardare qualcosa bruciare ci permette di cogliere la cosa in una luce diversa e ci riporta alla sua essenzialità. È ciò che avviene per Abram mentre il Signore cerca di placare la sua angoscia e la sua ansia: <Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi> (Gen 15, 17). Abram fa fatica a cogliere in nesso necessario e imprescindibile tra la promessa di una discendenza e il distacco dal suo modo di pensare e di concepire il suo avverarsi concreto nella sua vita.

Ancora una volta Abram viene condotto <fuori> (15, 5) per guardare in <cielo> al fine di poter rientrare in se stesso e soppesare autenticamente il suo desiderio di un figlio al cospetto delle <stelle> accettando così di contestualizzare e relativizzare in senso buono il suo desiderio senza rinunciarvi ma sapendosi aprire a modi diversi di realizzarlo. Quando il Signore Gesù esorta i suoi discepoli: <Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi in veste di pecora, ma dentro sono lupi rapaci!> parla anche di noi stessi quando non riusciamo a smascherare le inevitabili incrostazioni egoistiche del nostro desiderio. Abram viene condotto <fuori> e il Signore ci chiede di non accontentarci mai delle apparenze non solo quelle degli altri, ma, prima di tutto, quelle che riguardano in prima persona.

Il misterioso sonno che vince le resistenze di Abram è lo stesso <tardemah> cui si lascia andare Adamo nel momento della creazione di Eva tratta dal suo cuore. È come se l’Altissimo avesse bisogno di addormentarci per poterci operare come fa un bravo chirurgo e aprire nuove speranze per una vita che rischia di attardarsi su se stessa.

Nome

Natività di san Giovanni Battista –

La nascita di Giovanni crea scompiglio sin dal primo momento del suo venire alla luce e ciò che avviene nella casa di Zaccaria, illuminata dalla gioia non più attesa della presenza di un bambino, è profezia di ciò che il Battista rappresenterà per il cammino della Chiesa. I parenti e i vicini sono meravigliati e un po’ contrariati: <Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome> (Lc 1, 61). Come spiega Jean Danielou: <Giovanni non porterà il patronimico che esprimerebbe semplicemente la sua appartenenza ad una famiglia. Dio gli assegna un nome personale che è l’espressione della sua vocazione unica>1. La rottura con il nome di suo padre Zaccaria rappresenta anche la rottura con la tradizione sacerdotale a favore di un riemergere del ministero profetico. Figlio di un levita, Giovanni avrebbe dovuto e potuto servire nel Tempio godendo di tutti i benefici del levirato sacerdotale e, invece, sin dal momento della sua nascita l’evangelista Luca ci ricorda che <Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele> (Lc 1, 80).

Se l’annunciazione della sua nascita, come leggiamo nella Messa della Vigilia, avviene all’interno del Tempio e nel pieno delle funzioni sacerdotali di Zaccaria, la sua nascita e la sua circoncisione, che prevede l’imposizione del nome, rompono con la tradizione levitica e già si fanno segno di quel ministero di <amico dello sposo> che farà del Battista l’anello di congiunzione tra tempi e modi diversi di sentire la presenza di Dio. In mezzo al popolo e a favore di tutta l’umanità, Giovanni sarà capace di spianare la strada alla pienezza di profezia che sarà la manifestazione in Gesù di Nazaret di un modo completamente nuovo di immaginare la relazione con Dio. Paolo lo ricorda nella sinagoga di Antiochia:<Diceva Giovanni sul finire della sua missione: “Io non sono quello che voi pensate! Ma ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di slacciare i sandali”> (At 13, 25).

Si compie per Giovanni la profezia di Isaia: <Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome> (Is 49, 1). Questo vale per Giovanni, ma vale per ciascuno di noi: la nostra identità e la nostra vocazione sono una cosa sola e si illuminano a vicenda. Il lungo tempo di deserto vissuto da Giovanni cui segue un tempo imprecisato di prigionia nelle segrete di Erode gli hanno permesso di maturare nella fede fino ad aprirsi – non certo senza fatica – non solo a preparare la strada all’avvento del Messia, ma pure ad essere in grado di superare lo <scandalo> (Lc 7, 23) che Gesù ha rappresentato per la sua sensibilità. Dall’inizio alla fine della sua vita Giovanni Battista accetta di essere riconosciuto come il <profeta> (7, 26) eppure superato in quella logica di misericordia e di assoluta grazia, che già presente nel suo nome, sarà donata in modo pieno dalle parole e dai gesti del Signore Gesù attraverso cui riceviamo <grazia su grazia> (Gv 1, 16).


1. J. DANIELOU, Jean Baptiste témoin de l’Agneau de Dieu, Seuil, Paris 1964, p. 163. 

Bene!

XII Settimana T.O. –

La conclusione del vangelo ha un pizzico di umorismo che non può che farci bene soprattutto nel travaglio quotidiano delle nostre relazioni più o meno intime e più o meno fraterne: <… allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio di tuo fratello> (Mt 7, 5). Il Signore Gesù non vuole assolutamente dirci che tutto vada bene così com’è e che non c’è nulla da cambiare e da correggere, ma ci ricorda che il primo passo per ogni correzione è la purificazione del proprio sguardo e del proprio cuore al fine di fare le cose “per bene” e non cadere nella trappola dell’esagerazione del male altrui e della minimizzazione del proprio limite e della propria fragilità. Se è vero che è un vero e proprio atto di carità quello di preoccuparci di aiutare l’altro a migliorare nel suo proprio cammino, rimane pur vero che questo non è possibile – in verità – se nel nostro cuore lasciamo la <trave> (7, 4) dell’ipocrisia ingombrare i nostri movimenti verso l’altro e persino la nostra capacità di cogliere in verità le situazioni.

Il criterio che il Signore Gesù ci offre può sembrare assai austero ed esigente, eppure bisogna riconoscere che è realmente capace di mettere ordine e di orientare chiaramente e sicuramente il nostro cammino in relazione ai nostri fratelli e sorelle senza cedere né alla tentazione di un “buonismo” che, in realtà, ci permette di non interessarci al cammino del nostro prossimo, né a quello di un “rigorismo” che ci rende temibili più che compagni di cammino: <perché con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi> (7, 2). L’inizio della lettura del ciclo di Abramo, ci ricorda come ogni cammino verso Dio è sempre un cammino che si fa condivisione di strada con gli altri. Se, infatti, la parola con cui si apre la storia del cammino di fede di Abramo ha un carattere così personale e così diretto: <Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò> (Gen 12, 1), la sua accoglienza si riflette su tutti coloro con i quali Abramo ha dei legami tanto che, insieme, <si incamminarono verso la terra di Canaan> (12, 5).

Di questo carattere condiviso di ogni segreto e intimo cammino di fede si fa testimone lo stesso Signore che con la sua parola allarga sempre di più lo sguardo del suo servo: <Alla tua discendenza io darò questa terra…> (12, 7). La terra che continuamente il Signore ci ridona è quella che potremmo definire il terreno della nostra relazione con Dio che si fa cammino di condivisione della speranza con i nostri fratelli e sorelle con cui siamo chiamati a interesse e ritessere rapporti di rinnovata fiducia e, per farlo <bene>, è necessario fare ogni giorno esodo da se stessi, per uscire dalle proprie chiusure talora aggravate dalla <trave> delle nostre paure e pregiudizi per costruire <un altare al Signore> (12, 8) da cui attingere il coraggio di levare <la tenda e andare> (12, 9).

L’intuizione di un cuore puro ci farà scoprire e amare il cammino del fratello: forse quella <pagliuzza> che ci piacerebbe scoprire essere presente nell’occhio del fratello, in realtà l’altro la conosce prima di noi e, soprattutto, è il primo a soffrirne e, forse, da molto tempo cerca di toglierla. La benevolenza più che l’insistenza del giudizio darà al fratello quella pace e quella serenità che forse gli renderà più facile quest’operazione tanto da fargli recuperare uno sguardo luminoso capace di aiutare noi stessi a spostare la trave dal nostro stesso cuore. 

Noi stessi

Ss. Corpo e Sangue di Cristo

Noi tutti siamo ministri del dono che riceviamo dal Signore Gesù che ci invia a tutti gli uomini e donne affamati di verità. Comunicare al corpo e al sangue di Cristo non è un affare privato e intimo: significa prendere parte alla missione stessa del Salvatore servendo tutti secondo la parola che il Signore rivolse ai suoi discepoli e continua a rivolgere a noi che vogliamo essere suoi discepoli: <Voi stessi date loro da mangiare> (Lc 9, 13). Il vescovo Agostino così ricorda ed esorta: <Queste cose, fratelli, si chiamano sacramenti proprio perché in esse si vede una realtà e se ne intende un’altra. Ciò che si vede ha un aspetto materiale, ciò che si intende produce un effetto spirituale. Se vuoi comprendere il mistero del corpo di Cristo, ascolta l’Apostolo Paolo che dice ai fedeli: “Voi siete il corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte” (1 Cor 12, 27). Se voi dunque siete il corpo e le membra di Cristo, sulla mensa del Signore è deposto il vostro mistero di voi: ricevete il mistero che siete. A ciò che siete rispondete: “Amen” e rispondendo lo sottoscrivete. Ti si dice infatti: “Il Corpo di Cristo”, e tu rispondi: “Amen”. Sii membro del corpo di Cristo, perché sia veritiero il tuo Amen>1.

Il fatto di non leggere il testo dell’istituzione dell’Eucaristia alla vigilia della Passione, ma un passo del ministero di compassione del Signore Gesù ci ricorda che tutta la vita del Signore Gesù fu una vita eucaristica come deve essere anche la nostra. Per questo il Vangelo comincia con una nota che contestualizza quella che non viene indicata come moltiplicazione ma come distribuzione dei pani, ma tutta la vita sacramentale della Chiesa: <Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure> (Lc 9, 11). Prima di tutto il Signore guarisce e poi sfama istituendo quell’ordine della compassione di cui l’Eucaristia è sacramento non cultuale ma esistenziale secondo l’esempio di Melchisedek evocato dalla prima lettura. Come le mani del terapeuta dicono la cura, come i gesti della tenerezza esprimono l’amore, il pane e il vino sono il segno di una presenza reale di Cristo nella nostra vita che si fa sacramento della vita che ci viene da Dio e che siamo chiamati a donarci reciprocamente sempre con quella qualità divina di assoluta gratuità che guarisce il cuore da ogni paura e da ogni illusione di inutile e triste autonomia.


1. AGOSTINO, Discorsi, 272.