Convertire… in concime

III Domenica T.Q. 

Al cuore di uno dei testi fondamentali della Rivelazione come è il momento in cui l’Altissimo prende nome e si fa conoscere al suo servo Mosè, proprio di lui si dice che <si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio> (Es 3, 6). L’apostolo Paolo conclude la sua esortazione con una sorta di messa in guardia: <Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere> (1Cor 10, 12). Il Signore Gesù con la sua parola e, ancor prima, con il suo atteggiamento e il suo modo di porsi davanti agli avvenimenti della storia, cerca di farci passare da una paura sterilizzante e paralizzante ad una capacità di essere realmente responsabili nei confronti del nostro interiore cammino di trasformazione: <No, io vi dico, ma se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo> (Lc 13, 5). Questa parola del Signore Gesù non è una minaccia è, invece, una risposta a quanti se sentono in diritto di <riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici> (13, 1).

Il Signore Gesù reagisce in modo assai severo a quella tendenza con cui le sventure altrui rischiano di diventare una sorta di autocertificazione e di condanna dell’operato degli altri. La parabola che viene raccontata non è altro che la conferma di quello stesso atteggiamento rivelato a Mosè sul Sinai nella linea di una benevolenza di amplissimo respiro. Di ciò si fa interprete questo misterioso e così amabile vignaiolo: <Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato intorno e avrò messo il concime> (13, 8). Già nel deserto l’Altissimo sembra non avere trovato una risposta più belle di quella che garantisce una compagnia fedele e coinvolta con la storia di ciascuno: <Il Signore Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi> (Es 3, 15).

Da notare che la rivelazione del Nome a Mosè avviene solo quando questo servo di Dio ha accettato di pascolare e di prendersi cura del gregge di Ietro, di un gregge non suo dopo il fallimento del suo essere dapprima principe e poi “giustiziere”. Così il vignaiolo si mostra capace di prendersi cura di un albero che non gli appartiene su cui riversa tutte le sue cure in modo non solo gratuito, ma anche appassionato.

Convertir… en compost

III Dimanche T.Q. –

Au coeur de l’un des textes fondamentaux de la Révélation, comme l’est ce moment où le Très-Haut se nomme et se fait connaître à son serviteur, l’on dit de celui-ci qu’« il se couvrit le visage, car il avait peur de regarder vers Dieu » ( Ex 3, 6 ). L’apôtre Paul conclut son exhortation par une sorte de mise en garde : «  Ainsi donc, que celui qui se flatte d’être debout, prenne garde de tomber » ( 1 Co 10, 12 ).  Le Seigneur Jésus par sa parole, et avant encore, par son attachement et sa façon de se tenir face aux événements de l’Histoire, cherche de nous faire passer d’une peur stérilisante et paralysante à une capacité d’être réellement responsables face à notre chemin de transformation intérieure : «  Non, je vous le dis, mais si vous ne faites pénitence, vous périrez tous pareillement » ( Lc 13, 5 ). Cette parole du Seigneur Jésus n’est pas une menace, mais, au contraire, une réponse à ceux qui se sentent en droit de « rapporter à Jésus ce qui était arrivé aux Galiléens dont Pilate avait mêlé le sang  à celui de leurs victimes » ( 13, 1 ).

Le Seigneur Jésus réagit de façon assez sévère à cette tendance de considérer les aventures des uns comme une sorte d’auto-certification et de condamnation des œuvres des autres. La parabole qui est racontée, n’est rien d’autre que la confirmation de ce même attachement révélé à Moïse sur le Mont Sinaï dans le sens de la bienveillance  d’un souffle d’une grande ampleur. Ce mystérieux et si aimable vigneron en est l’interprète : «  Maître, laisse-le encore cette année, le temps que j’y creuse tout autour et que j’y mette du compost » ( 13, 8 ). Au désert, déjà, le Très-Haut semble ne pas avoir de plus belle réponse que celle qui garantit une compagnie fidèle et impliquée dans l’histoire de chacun : «  Le Seigneur, Dieu de vos Pères, Dieu d’Abraham, d’Isaac, et de Jacob, m’a envoyé vers vous » ( Ex 3, 15 ).

Il est à noter que la révélation  du Nom à Moïse advient seulement lorsque ce serviteur de Dieu a accepté, après son état de prince et celui de «  justicier », d’emmener en pâturage et de prendre soin d’un troupeau qui n’est pas le sien, mais celui de Jéthro.  Ainsi, le vigneron se montre également capable de s’occuper d’un arbre qui ne lui appartient pas, mais dont il prend soin de manière non seulement gratuite, mais aussi de façon passionnée.

Convertire… la verga

II settimana T.Q.

Il profeta Michea si profonde in una supplica che sembra profetizzare la decisione del figlio minore della parabola ormai sprofondato nell’umiliazione della miseria e della perdita di dignità: <Pasci il tuo popolo con la tua verga, il gregge della tua eredità, che sta solitario nella foresta tra fertili campagne> (Mi 7, 14). Al culmine della sua umiliazione, non disgiunta da una certa depressione, il figlio minore <ritornò in sé> e prese la decisione della sua vita: <Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: “Padre ho peccato contro il Cielo e davanti a te> (Lc 15, 17-18). Possiamo ben immaginare quali fossero i pensieri e i timori di questo figlio che non si sente più <degno di essere chiamato tuo figlio> (15, 19). Nella più nera disperazione, la sua grande speranza sarà stata la <verga> di un padre che lo avrebbe giustamente punito purché lo avesse riaccolto non tanto tra le sue braccia, ma nella sua casa dove c’è <pane in abbondanza> (15, 17). Il pane sembra essere diventato il pensiero fisso di questo giovane cui vengono negate quelle stesse <carrube di cui si nutrivano i porci> (15, 16). Eppure, il ritorno a casa coincide con la grande sorpresa del ritorno tra le braccia di un padre che è ferito non dalla mancanza di rispetto del proprio figlio, quanto piuttosto dal fatto che uno dei suoi figli rischia di sperperare non tanto il patrimonio, quanto la sua stessa vita.

Al cuore della terza parabola della misericordia, quasi come spartiacque tra la storia del figlio minore e quella del figlio maggiore, Luca incastona la perla di un primo piano sul volto e sul cuore del vero protagonista: <Quando ancora era lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si getto al collo e lo baciò> (15, 20). In un solo versetto ci viene svelato il volto di Dio e viene tracciato l’esigente cammino di conversione cui ciascuno di noi è chiamato per essere veramente figli di Dio. Eppure, sembra ricordarci il vangelo, non basta recuperare come il figlio minore o mantenere come il figlio maggiore il proprio statuto filiale, se questo non genera la capacità e la creatività di essere fratelli. Sembra proprio che sia la mancanza di compassione fraterna ad addolorare il cuore di questo padre piuttosto che la mancanza di rispetto verso la sua autorità paterna.

All’immagine così materna di un padre che accoglie nel suo seno il figlio che torna da lontano, si affianca un’immagine più drammatica che rischia di riguardarci ancora di più: <Suo padre allora uscì a supplicarlo> (15, 28) di ricordare quel legame di fratellanza che è indistruttibile quanto quello della figliolanza: <perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato> (15, 32). Non basta che il Padre ci ritrovi, è necessario che ci ritroviamo reciprocamente fino ad accettare di ricominciare a camminare fraternamente trasformando ogni giorno la <verga> (Mi 7, 14) in <compassione> (Lc 15, 20). La misericordia, diventa così più che una parola, diventa uno stile in cui la miseria e il cuore non sono che una sola cosa, quasi invocandosi reciprocamente, e riesce a mettere insieme gli <umiliati dalla vita> e la bellezza come amava ripetere Camus facendone i poli di un’esigente e difficile fedeltà alla nostra opera di umanizzazione. In tal modo ci viene ricordato, come si indicano le porte di sicurezza prima di decollare, che per quanto si possa cadere in basso, non si può mai cadere più in basso che nelle braccia di Dio che <perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità> (Sal 102, 3).

Convertire… in meraviglia

II settimana T.Q.

Le ultime parole della prima lettura riascoltate in un Venerdì di Quaresima ci portano direttamente sotto la croce del Signore: <lo spogliarono della sua tunica, quella tunica con le maniche lunghe che egli indossava, lo afferrarono e lo gettarono nella cisterna: era una cisterna vuota, senz’acqua> (Gen 37, 23-24). La figura di Giuseppe e la sua storia così piena di malintesi e di dolore ci aiuta a preparare il cuore alla comprensione del mistero e dello scandalo pasquale: <Passarono alcuni mercanti madianiti; essi tirarono su ed estrassero Giuseppe dalla cisterna e per venti sicli d’argento vendettero Giuseppe agli Ismaeliti. Così Giuseppe fu condotto in Egitto> (37, 28). Il salmo ci aiuta ad interpretare il racconto: <Davanti a loro mandò un uomo, Giuseppe, venduto come schiavo> (Sal 104, 17). Non è difficile immaginare quante volte il Signore Gesù deve aver letto e meditato la storia di Giuseppe preparandosi a vivere la sua propria storia in cui il malinteso e il rifiuto avrebbero avuto un così grande ruolo. La parabola raccontata dal Signore Gesù ci fa entrare nella comprensione che il Signore stesso ha del suo cammino verso la Pasqua e, al contempo, ci pone una domanda seria ed esigente: <Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?> (Mt 21, 40).

Prima di rispondere a questa domanda dobbiamo stare molto attenti per non firmare la nostra condanna per mancanza di consapevolezza e di vigilanza su noi stessi: <Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo> (Mt 21, 41). Eppure, sembra che l’attenzione del Signore Gesù vada oltre e si fa invito ad aguzzare lo sguardo e l’attenzione del cuore: <La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi> (21, 42). Questo versetto del salterio sarà un ritornello insistente nei giorni della ritrovata gioia pasquale ed è la memoria non solo delle meraviglie della risurrezione del Signore dalla morte, ma, in questo mistero, è la continua meraviglia per tutti quegli scarti di umanità che diventano il luogo privilegiato di elezione e di amore da parte di Dio a confusione di quanti coltivano la logica del semplice profitto personale. 

I capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo sono sufficientemente furbi per capire che la parabola li riguarda profondamente eppure <ebbero paura della folla, perché lo considerava un profeta> (Mt 21, 46). A noi di scegliere se stare dalla parte della folla, che intuisce in Gesù il profeta dei tempi e dei modi nuovi di vivere veramente ed esigentemente da <fratelli> (Gen 37, 4), oppure di lasciarci dominare dalla cultura dello scarto che, infine, rischia di avvelenare la nostra stessa vita. Lavorare non solo per se stessi, ma per la gioia di tutti, diventa una vera rivoluzione che può veramente cambiare radicalmente e durevolmente il cammino della storia. Fare della propria vita non semplicemente un’esperienza tesa a coronare i nostri desideri e a soddisfare i nostri bisogni, ma un luogo in cui si possa veramente e gioiosamente condividere la mensa della vita come fratelli. Non bisogna dimenticare che fratelli non si nasce ma si diventa e questo cammino esige una disponibilità ad uscire da se stessi talora molto costosa oltre che sempre faticosa.

Sabato – 22 Marzo

Convertire… in corrente

II settimana T.Q.

La parola del profeta Geremia è la chiave di lettura per comprendere il senso più profondo della parabola raccontata dal Signore Gesù. In realtà, la differenza fondamentale tra quell’<uomo ricco> Lc 16, 19) e il <povero di nome Lazzaro> (16, 20) sta proprio nel <cuore> che, secondo la parola del profeta <difficilmente guarisce> (Ger 17, 9). Il fatto che sia difficile guarire il cuore non significa che non lo si possa guarire. Per farlo bisogna accettare, per rimanere nella parabola vegetale usata da Geremia, di impegnarsi quotidianamente nello stendere le proprie radici esistenziali <verso la corrente> (17, 8). Ciò che il ricco sembra non fare è di dare alla sua vita una corrente, richiudendola in una sorta di stagno ove l’acqua non scorre più, tanto da imputridire. Quella <porta> (Lc 16, 20) così scrupolosamente sbarrata per preservare la propria serenità e il proprio comodo, in realtà, non fa altro che interrompere il flusso della vita. Invece Lazzaro, pur nella sua estrema indigenza, sembra mantenersi vivo tanto che i <cani venivano a leccare le sue piaghe> (16, 21).

Certamente la parabola evangelica ci esorta ad essere attenti a coloro che stanno alla porta della nostra vita e ci chiedono condivisione e attenzione, ma ancora più urgentemente il Signore Gesù ci chiede di non dimenticare che la vitalità del nostro cuore e la sua salute spirituale è direttamente proporzionale alla sua capacità di non separarsi dalla corrente della vita. Anche a livello fisiologico il ruolo del cuore è di pompare il sangue per assicurare che la vita circoli. Dal punto di vista spirituale bisogna continuamente vigilare di non rinchiudersi per lasciare che la vita circoli e questo significa accettare che la vita disturbi e ci chieda continuamente il coraggio di fare un passo in più verso la corrente della vita per non rimanere inesorabilmente isolati. Da questo punto di vista le parole di Abramo più che una punizione non solo altro che una constatazione: <Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi> (16, 26).

Nell’iconografia orientale il giudizio finale è spesso rappresentato come un fiume di fuoco che sgorga dal trono di Cristo e sulle cui due sponde si tengono i salvati e i reprobi. La domanda si pone: <Perché gli uni sono bruciati da questo fuoco e gli altri ne sono rallegrati?>. Così risponde Michel Quenot: <Questo fuoco è l’amore di Dio. Quanti hanno amato lasciando che il calore dello Spirito radicasse nella loro vita, stanno tranquillamente accanto al fuoco, poiché il fuoco non brucia il fuoco. Quanti, invece, hanno coltivato l’odio, l’indifferenza verso gli altri fino ad indurire il loro cuore rendendolo sempre più freddo, non sopportano l’ardore del fuoco che li brucia. Così l’amore di Dio diventa il loro giudizio>1.


1. M. QUENOT, Personne n’a jamais parlé comme Lui, Saint Maurice 2010, p. 126.

Dare un nome

San Giuseppe.

Nell’annunciazione a Giuseppe secondo Matteo, l’angelo senza nome aiuta quest’uomo a passare dalla paura di dover rinunciare al suo sogno d’amore con Maria, alla gioia di poter sognare ancora più in grande. A Giuseppe viene data l’opportunità di iscrivere il suo amore in modo ancora più radicale nel disegno globale dell’amore tra Dio e l’umanità, tanto da diventare una storia assolutamente unica e non solo rara: <ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati> (Mt 1, 21). Dare il nome, nella tradizione biblica, ha un senso profondissimo e altissimo che suppone un’intimità di desiderio e di destino condiviso. In Giuseppe contempliamo il mistero della redenzione di ogni sogno della nostra umanità chiamato a trasfigurarsi in segno di un amore più grande che ci precede e ci accompagna. Per Giuseppe, l’accoglienza di Gesù come suo figlio e di Maria, non più solo come sua sposa amata e desiderata, ma come il segno di un compimento ben più grande della bellezza del proprio piccolo grande amore, è stata una vera trasfigurazione. Così il desiderio di ogni uomo di farsi un nome fino alla totale confusione di Babele si trasforma nella semplice accettazione di “dare un nome” attraverso la propria carne, il proprio sangue eppure ben più in là della propria carne e del proprio sangue perché <Eredi dunque si diventa in virtù della fede, perché sia secondo la grazia, e in tal modo la promessa sia sicura> (Rm 4, 16).

Giuseppe incarna la possibilità che una creatura possa diventare icona dello stesso Creatore accettando e impegnandosi radicalmente in una cura che esige la castità di chi accetta di superare ogni forma di possesso sull’altro: <Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio> (2Sam 7, 14). Non c’è proprio spazio per una condiscendenza malaticcia che, come dice Claudel, parlando di Giuseppe <fa sorridere gli uomini superiori>. Il parallelo con Abramo va pesato con la memoria di ciò che avvenne sul monte Moria e di ciò che avvenne nel cuore di Giuseppe, quando dovette rivedere il suo sogno senza rinunciarvi, non senza rinunciare. In Giuseppe, padre del Signore, possiamo contemplare non un’umanità dimezzata dalla rinuncia al coronamento di un sogno d’amore secondo il proprio desiderio e le proprie prospettive, ma un’umanità portata a compimento attraverso un’accoglienza generosa del bisogno e della necessità dell’altro – la madre e il bambino – che rende quest’uomo persona fino in fondo.

Leggendo i Vangeli certamente scopriamo sempre di più e sempre meglio il volto e i sentimenti del Signore Gesù, ma non possiamo e non dobbiamo dimenticare che l’umanità di Cristo fu forgiata alla scuola di questo padre che seppe portare, fino in fondo, il peso del proprio ruolo senza mai imporsi eppure accompagnando senza mai tirarsi indietro. La tradizione non ci tramanda neppure una parola di Giuseppe, forse perché molte delle sue parole – almeno le più importanti – sono quelle che amò ripetere il Signore confermandole sempre con quei gesti appresi nell’intimità virile e tenera della casa e della bottega di Nazaret.

Convertire… in spada

II settimana T.Q.

Le ultime parole della prima lettura rischiano di toglierci il sonno: <Ma se vi ostinate e vi ribellate, sarete divorati dalla spada, perché la bocca del Signore ha parlato> (Is 1, 20). Certamente è una minaccia, ma, ancor più certamente, questa parola rappresenta un’opportunità per dare alla propria vita una direzione sempre più capace di dare senso e profondo significato all’esistenza di tutti e di ciascuno. La spada minacciosa può e forse deve diventare il taglio necessario alla nostra vita per prendere decisamente una direzione chiara e operativa. Allora le parole del profeta arrivano direttamente al cuore del nostro combattimento quotidiano e vi portano la luce di un ordine continuamente desiderato e quotidianamente ritrovato: <Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova> (1, 16-17). Il cammino quaresimale è l’occasione propizia per trovare la forza e la decisione di fare tutta una serie di scelte che rimettono ordine nella nostra esistenza. Solo così potremo assumere come criterio per le nostre scelte e come orientamento per i nostri cammini l’attenzione e la cura del più debole senza dimenticare di avere occhi e cuore per la parte più debole di noi stessi.

Il Signore Gesù è capace di dare ancora più concretezza al taglio necessario per essere fedeli al suo Vangelo. Si tratta di tagliare ogni inutile ricerca dell’apparenza e, soprattutto, bisogna dare sempre più spazio alla cura della serenità nostra e dei nostri fratelli e sorelle, cercando radicalmente di non cadere nella trappola dell’ipocrisia mascherata di inutile devozione: <Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato> (Mt 23, 11). Questa parola del Signore non vuole certo essere una “pia esortazione”, è, invece, un’orientazione chiara del cammino discepolare continuamente chiamato a misurarsi con le esigenze di una rinuncia a se stessi e alla propria tendenza a mettersi al centro, per affrontare il buon combattimento di un continuo ri-orientamento della vita attraverso scelte concrete di decentramento. Come discepoli del Signore siamo chiamati ogni giorno a tagliare con tutto ciò che ci induce esigere titoli che ci permettano di legare <fardelli pesanti e difficili da portare> (23, 4).

La spada della conversione è posta nelle mani della nostra decisione per recidere le funi che legano, appesantiscono, paralizzano una vita di comunione e di solidarietà radicale che si gioca nella convinzione profonda di essere tutti e sempre fratelli senza presumere di essere <guide> (23, 10) di nessuno. Il Signore non ha certo paura né di affrontarci né, tantomeno, di essere affrontato, ma ci sfida alla relazione: <Su, venite e discutiamo> (Is 1, 18). Il primo passo per ogni cammino di conversione è la capacità e la volontà di liberare la parola accettando il rischio di una relazione che può richiederci di riconoscere i nostri limiti fino a richiederci un passo ulteriore nel coraggio e nell’umiltà: <Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve>!

Convertire… in consapevolezza

II settimana T.Q.

Questa nuova tappa del nostro cammino quaresimale, si apre all’insegna di una crescita in consapevolezza che ci mette in grado di fare un passo ulteriore nella capacità di decisione. Il profeta Daniele si fa interprete di quello che, in termini moderni, chiameremmo stream of consciousness. Non è raro, ed è altamente importante, che ci troviamo, talora, di fronte alla nostra coscienza con un senso di vergogna di e di smarrimento davanti a ciò che non siamo riusciti a fare e a ciò che, nonostante tutte le nostre buone intenzioni e decisioni sempre rimandate, non siamo riusciti a mettere in atto nella nostra vita. La preghiera diventa terapeutica perché ci permette da una parte di nominare la nostra debolezza e guardare in faccia la nostra fragilità senza paura e con lucidità e, dall’altra, ci aiuta a non rassegnarci a noi stessi. Il profeta Daniele ci offre il vocabolario della presa di coscienza, senza dimenticare di assicurarci la sintassi della fede in Dio e in noi stessi come soggetti che restano sempre capaci di cambiamento e di miglioramento. Se la parola che ci tocca forse di più perché ci rappresenta è questa: <Signore, la vergogna sul volto a noi, ai nostri re, ai nostri principi, ai nostri padri, perché abbiamo peccato contro di te> non va sottovalutata l’ultima parola che non è su noi stessi e suona come una professione di fede: <al Signore, nostro Dio, la misericordia e il perdono, perché ci siamo ribellati contro di lui> (Dn 9, 8). Non è certo un caso che il testo cominci proprio così: <Signore Dio, grande e tremendo, che sei fedele all’alleanza e benevolo verso coloro che ti amano e osservano i tuoi comandamenti> (9, 4).

La parola del Signore Gesù sembra indicarci la strada per uscire da questo impasse di <vergogna> (9, 7) attraverso un recupero di dinamismo e di creatività. Tutto ciò si fa esortazione a sognare su noi stessi come capaci di andare oltre gli stretti confini – perlopiù asfissianti – di noi stessi: <Siate misericordiosi, come il padre vostro è misericordioso> (Lc 6, 36) Questa parola del Signore è una parola medica che dà sollievo alla nostra più antica e profonda ferita. Quella di esserci convinti attraverso l’esperienza delle nostre fragilità, di non essere in grado di assomigliare a Dio la cui immagine pure sentiamo essere il segreto e l’essenza più profonda della nostra identità. Pertanto il Signore ci sprona a credere che siamo capaci di essere come Dio e non nella logica della tentazione diabolica che ci fa immaginare chissà quali privilegi e chissà quali potenze, ma nella logica di un amore capace di dono unilaterale e assoluto: <Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurata a voi in cambio> (6, 38).

L’invito all’amore fa tutt’uno con l’invito a perdonare senza misura e senza calcolo non come “operazione virtuosa”, ma come recupero delle proprie “possibilità divine”. Il nostro cammino quaresimale continua all’insegna di una profonda consapevolezza dei nostri limiti intimamente e radicalmente connessa all’invincibile coscienza del mistero divino che ci abita così profondamente da essere il trampolino sempre possibile della speranza non solo per noi stessi, ma per tutti: <Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati> (6, 37). Se noi svuotiamo davanti a Dio il sacco del nostro cuore, l’Altissimo lo riempirà di un amore debordante, un amore che colmerà il nostro vuoto e ci permetterà di farci canali di benevolenza e di perdono.

Convertire… il fuori

II Domenica T.Q. 

Questa seconda grande tappa del nostro quaresimale è ritmata da una memoria che si fa monito o, più precisamente, indicazione di rotta: <Dio condusse fuori Abram e gli disse: “Guarda in cielo…> (Gn 15, 5). Non sembra poi così diverso quello che fa il Signore Gesù con i suoi discepoli quando: <prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare> (Lc 9, 28). L’accostamento dei due testi ci aiuta a comprendere meglio il senso di uno degli elementi caratteristici del cammino quaresimale che, unitamente al digiuno e all’elemosina, è proprio la preghiera. Questa sembra non essere altro che il consenso della nostra umanità ad uscire fuori dai confini della propria abitudine per aprirsi al <cielo> e per salire con la dovuta fatica <il monte>. Sia per Abram che per Gesù e i suoi discepoli si tratta in realtà di acconsentire ad una trasfigurazione – termine che Luca non usa – del proprio sguardo attraverso cui leggere la realtà con un’intelligenza nuova.

Lo sguardo trasfigurato è propriamente quello degli innamorati o di una puerpera nei confronti del proprio neonato… si tratta di una capacità di vedere oltre fino a cogliere ciò che gli altri non possono nemmeno immaginare. Se questo è il lato stupendo dell’amore, non bisogna mai dimenticare che entrare in questo modo di guardare che riflette il modo abituale con cui l’Altissimo ci guarda e ci trasfigura continuamente, non bisogna dimenticare che vi è connessa la necessità di una immolazione imprescindibile. Per Abram nella notte del passaggio di Dio come Signore della sua vita come per i discepoli nella notte di condivisione della preghiera del loro Maestro c’è un passo da fare che esige la disponibilità a immolare il proprio modo di pensare e persino di avere paura. Il <terrore> (Gn 15, 12) che assale Abram non è poi molto diverso della <paura> (Lc 9, 34) che stringe il cuore dei discepoli davanti a quello strano discorso che Gesù intesse con Mosè ed Elia circa quel <suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme> (Lc 9, 31).

L’apostolo Paolo conosce bene quanto sia difficile entrare e rimanere nel cammino pasquale tanto da implorare i suo fratelli nella fede <con le lacrime agli occhi> perché nessuno imiti o si lasci ammaliare dai <nemici della croce di Cristo> (Fil 3, 18). In questa seconda domenica di quaresima ci è chiesto di fare un ulteriore passo <fuori> per ascendere con Gesù verso <il monte> che già prefigura il Calvario che diventa il trampolino imprescindibile per sperimentare la gioia di avere la <cittadinanza nei cieli> (3, 20).

Convertir… dehors

II Dimanche T.Q. –

Cette seconde grande étape de notre Carême est rythmée par un souvenir qui devient un avertissement, ou plus précisément une indication d’itinéraire : «  Dieu conduisit Abraham dehors et lui dit : «  Regarde le ciel… » ( Gn 15, 5 ). Ce n’est pas tellement différent de ce que fait le Seigneur Jésus avec ses disciples lorsqu’ « il prit avec lui Pierre, Jean et Jacques et grimpa sur la montagne pour prier » ( Lc 9, 28 ). Le rapprochement des deux textes nous aide à mieux comprendre le sens de l’un des éléments caractéristiques du chemin de Carême qui, avec le jeûne et l’aumône est vraiment la prière. Cela semble ne rien être d’autre que le consentement de notre humanité à sortir au-delà des frontières de notre propre confort pour s’ouvrir au « ciel » et grimper avec l’effort exigé sur « la montagne ». Que ce soit pour Abraham ou pour Jésus et ses disciples, il s’agit en réalité de consentir à une transfiguration – expression que Luc n’emploie pas – de notre regard pour y lire la réalité avec une nouvelle intelligence.

Le regard transfiguré est justement celui des amoureux ou d’une jeune mère face à son nouveau-né…il s’agit d’une capacité de voir plus loin, jusqu’à découvrir ce que les autres ne peuvent même pas imaginer. Si cela est le côté merveilleux de l’amour, il ne faut jamais oublier qu’entrer dans cette manière de voir, reflet du regard du Très-haut qui nous transfigure continuellement, nécessite l’indispensable connexion d’une immolation Pour Abraham, dans la nuit du passage de Dieu comme Seigneur de sa vie, tout comme pour les disciples pendant la nuit de partage de la prière avec leur Maître, il y a un pas à faire qui exige la disponibilité d’immoler sa propre façon de penser et même d’avoir peur. La «  terreur » ( Gn 15, 12 ) qui assaille Abraham n’est pas très différente de la «  peur » ( Lc 9, 34 ) qui étreint le coeur des disciples face à l’étrange discours que Jésus  entretient avec Moïse et Elie concernant  «  son exode, qu’il voulait accomplir vers Jérusalem » ( Lc 9, 31 ).

L’apôtre Paul connaît bien la difficulté d’entrer et de rester sur le chemin pascal jusqu’à implorer ses frères dans la foi «  les larmes aux yeux » afin que personne n’imite ou se laisse fasciner par «  les ennemis de la croix du Christ » ( Ph 3, 18 ). En ce deuxième dimanche de Carême, il nous est demandé de faire un pas supplémentaire «  au dehors » pour monter avec Jésus  vers «  la montagne » qui préfigure déjà le Calvaire qui devient le tremplin indispensable pour expérimenter la joie d’avoir la «  citoyenneté dans les cieux » ( 3, 20 ).