Strada

San Barnaba

La raccomandazione del Signore Gesù ai suoi apostoli è valida per i discepoli di ogni luogo e di sempre: <Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino> (Mt 10, 7). È chiaro che nulla si potrebbe vivere e condividere <strada facendo> se non si facesse il primo passo: quello di “fare strada” con gli altri! La memoria dell’apostolo Barnaba è l’occasione per riaccogliere il mistero del ministero apostolico in modo sganciato dal numero dei <Dodici> per sentire meglio che essere apostoli può significare molto più che essere annoverati nello stretto numero di quanti sono celebrati come colonne e fondamenta della realtà della Chiesa. Nella prima lettura possiamo contemplare come la <grazia di Dio> (At 11, 23) è ancora all’opera e spinge Barnaba a <cercare Saulo> (11, 25) nella coscienza di dover mettere tutte le migliori possibilità al servizio dell’annuncio del Vangelo di Cristo da annunciare <gratuitamente> (Mt 10, 8) come gratuitamente lo si è ricevuto. Siamo così messi di fronte a ciò che potremmo definire il dinamismo proprio di ogni respiro di evangelizzazione: la coscienza grata di essere stati raggiunti dalla grazia di Dio genera un movimento naturale che spinge a cercare gli altri là dove sono senza mai attenderli al varco di dove noi siamo stati posti non certo per nostro merito.

Non solo: l’insegnamento del Signore sottolinea oltre che la gratuità assoluta che esige la condivisione del dono ricevuto, anche una capacità di mettersi sulla strada degli altri senza attendere che siano gli altri a venire verso di noi: <In qualunque città o villaggio entriate, domandate chi là sia degno e rimanetevi finché non sarete partiti> (10, 11). Se meditiamo questa consegna del Signore ai suoi discepoli e ne contempliamo la sua continuazione esistenziale e attiva nella vita delle prime comunità cristiane, ci rendiamo conto di come non ci sia fedeltà al Vangelo che non sia eccentrica e centrifuga per sua stessa natura. Di Barnaba ci viene detto che è capace di rendersi conto di quanto la grazia sia all’opera nella vita della comunità fino ad essere capaci di intuire il tesoro di possibilità che si cela nel cuore dell’ultimo arrivato che è Saulo tanto che <si rallegrò ed esortava tutti a restare, con cuore risoluto, fedeli al Signore, da uomo virtuoso che era e pieno di Spirito Santo e di fede> (At 11, 23-24).

Il programma di viaggio della grande avventura dell’evangelizzazione si riassume in qualche verbo: <Guarite… risuscitate… purificate… scacciate i demoni> (Mt 10, 8). Tutto ciò, secondo le indicazioni e l’esempio del Signore, va vissuto e condiviso in uno stile dominato e informato da un avverbio: <gratuitamente>. Ambedue le cose sembrano impossibili senza un atteggiamento di libertà da se stessi che si esprime attraverso una sorta di spogliazione previa necessaria: <né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone> (10, 10). Tutto ciò per Barnaba significherà fare un passo indietro nel gruppo dei “nuovi apostoli” dando tutto lo spazio all’astro nascente che fu Paolo. Barnaba sembra essere un apostolo di seconda classe come noi, con il privilegio di essere tra quei <piccoli> che il Signore pone nella comunità come misura e criterio di discernimento.

Segreto

X settimana T.O.

Le Beatitudini non sono prima di tutto e fondamentalmente l’insegnamento di Gesù per la nostra vita, sono i tratti del suo volto e il ritmo dei suoi passi che annunciano ad ogni uomo e ad ogni donna un possibile cammino di pace e di felicità. Lo ricorda con una certa commozione Cromazio di Aquileia: <Occorreva che la legge nuova fosse proclamata su un monte, dato che la legge di Mosè era stata data su un monte. Una consiste in dieci comandamenti destinati a formare gli uomini in vista della condotta della vita presente, l’altra consiste in otto beatitudini, perché conduce coloro che la seguono alla vita eterna e alla patria celeste>1. Per questo la nostra preghiera non è quella di poter seguire Gesù sulla via delle beatitudini, ma prima di tutto quella di poterlo contemplare come modello di beatitudine nel suo cammino dalla Galilea al Golgota. La vita è sempre costellata di nuovi incroci che esigono una scelta rinnovata della direzione per la quale proseguire il nostro viaggio interiore. Se ci trovassimo ad un crocicchio con varie indicazioni: potere, fama, gloria, ricchezza, benessere… e una piccola indicazione che indicherebbe il sentiero della “felicità”, quale seguiremmo? Forse il nostro sesto senso ci farebbe prendere comunque il sentiero della felicità per quanto più impervio e meno tracciato e, soprattutto, molto meno battuto. E avremmo ragione di farlo perché, in realtà, tutte le altre cose non sono sentite se non come parte di questa felicità che, alla fine, è ben più grande di ogni ricchezza, gloria, fama successo.

Le ultime parole del Vangelo ci obbligano ad aprire gli occhi sula grado di difficoltà del sentiero della felicità che, come tutti i percorsi di montagna, esige un certo allenamento. Le parole del Signore suonano così: <Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate> (Mt 5, 11-12). Questa conclusione è certo inquietante se pensiamo alla sequela del Signore sulla via del Vangelo come un investimento per la vita; eppure se riflettiamo meglio ci rendiamo conto che è racchiusa nell’ultima beatitudine l’essenza stessa della felicità cui ci invita il Signore. Questa felicità è evocata in quella piccola glossa che, come la chiave di uno spartito, dà alla musica della felicità evangelica il suo tono inconfondibile e indimenticabile: <per causa mia>!

Si comprende allora come la storia di Elia diventi una sorta di mappa per muoversi nei cammini del Vangelo. Ciascuno di noi è chiamato a sperimentare la cura di Dio per la nostra vita e, allo stesso tempo, la capacità di rischiare tutta la nostra vita per il nostro Dio. L’immagine finale della prima lettura è commovente: <I corvi gli portavano pane e carne al mattino, e pane e carne alla sera; egli beveva al torrente> (1Re 17, 6). E intanto il profeta si preparava ai suoi combattimenti e alle sue rese custodendo il segreto della sua intimità con Dio. Se ci sforziamo di seguire la via delle beatitudini evangeliche come norme morali e non come storia di intimità non ne potremo godere la felicità più profonda perché ce ne sfuggirebbe il segreto capace di cambiare la vita, senza nulla mutare della nostra vita sempre povera e spesso afflitta.


  1. CROMAZIO DI AQUILEIA, Discorsi, 39.

Appartenenza

X Domenica T.O.

Nel Giardino delle origini si attua sin da subito lo stesso dinamismo di contrapposizione che vediamo all’opera attorno al Signore Gesù: isolare e insospettire! Davanti all’evidenza così forte e incoraggiante di Gesù che <scaccia i demoni>, gli scribi e i farisei arrivano a darne una spiegazione tanto assurda quanto intrigante: <è posseduto da Beelzebùl e scaccia e demoni per mezzo del capo dei demòni> (Mc 3, 22). Dal canto loro i familiari di Gesù – e Marco non esclude neppure <sua madre> (3, 31) – non si arrischiano nell’interpretare da dove venga la capacità del loro “augusto parente” nel fare cose così prodigiose. Tentano così di tirarlo fuori da questa situazione imbarazzante – che imbarazza prima di tutto loro stessi – cercando di portarselo via e adducendo come motivazione proprio quella che noi stessi proponiamo quando non sappiamo più cosa dire né cosa fare: <È fuori di sé> (3, 21). Non è sostanzialmente diverso quello che accade nel Giardino piantato da Dio per la gioia e la crescita delle sue creature. A un certo punto alla fiducia e al reciproco abbandono che crea un’atmosfera di pace e una possibilità reale di vivere nel riposo – per istigazione del <serpente> (Gn 3, 13) – fa ingresso nella storia dell’umanità la possibilità di essere ingannati. Questa percezione è sempre il risultato di essersi già ingannati da se stessi magari senza rendersene conto. In ogni modo il risultato è la genesi non più della vita così come la possiamo contemplare – con sfumature diverse nei due racconti biblici della creazione – bensì il triste irrompere della paura. Per quanto possiamo o vogliamo disapprovare la debolezza di Adamo, nostro padre, dobbiamo riconoscergli una buona capacità di discernimento unito ad una dose non trascurabile di schiettezza quando alla prima domanda – da cui tutte le altre nascono e fioriscono – del Signore Dio risponde in modo autentico: <Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto> (3, 10). Ma se di tutto questo non siamo sufficientemente convinti allora saremo sempre assai vulnerabili perché il nostro cuore sarà <diviso> (Mc 3, 26). Se invece conserviamo salda questo senso di mutua appartenenza e la gioia di stare con tutti <accanto> al Signore Gesù allora anche per noi sarà la parabola profetica del Maestro: <Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire i suoi beni, se prima non lo lega. Soltanto allora potrà saccheggiare la casa> (3, 27). Che non ci capiti di cadere in trappola come il nostro padre Adamo che non fu capace di custodire il dono più grande che il Signore Dio gli aveva fatto nella nostra madre Eva. Invece di sostenerla perché rimanesse <in piedi> (3, 25) davanti al serpente si comportò veramente come uno che <è fuori di sé> (3, 21) che non sa portare il <momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione> (2 Cor 4, 17).

Appartenance

X Dimanche du T.O. 

Dans le Jardin des origines s’actualise tout de suite le même dynamisme d’opposition que l’on voit à l’œuvre autour du Seigneur Jésus : isoler et suspecter ! Face à l’évidence si forte et encourageante de Jésus qui ” chasse les démons”, les scribes et les pharisiens arrivent à en donner une explication aussi absurde qu’intrigante : ” Il est possédé par Béelzeboul et chasse les démons par l’intermédiaire du chef des démons ” ( Mc 3, 22 ). Pour leur part, les familiers de Jésus –  et Marc n’y exclut même pas ” sa mère ” ( 3, 31 ) –  ne se risquent pas à interpréter d’où vient la capacité de leur ” auguste parent ” à faire des choses aussi prodigieuses. Ils essaient ainsi de l’entraîner hors de cette situation embarrassante – qui, avant tout, les embarrasse eux-mêmes – en cherchant de l’emmener plus loin en ajoutant comme motivation, celle que justement nous proposons lorsque nous ne savons plus quoi dire ou que faire : ” Il a perdu la raison” ( 3, 21 ). Ce n’est pas forcément différent de ce qui arrive au Jardin planté par Dieu pour la joie et la croissance de ses créatures. D’une certaine manière, dans la confiance et l’abandon réciproque qui créent une atmosphère de paix et une possibilité réelle de vivre calmement, la probabilité d’être trompé – par l’instigation du ” serpent ” -( Gn 3, 13 )  fait son entrée dans l’Histoire de l’humanité. Cette perception est toujours le résultat de s’être déjà trompé soi-même, peut-être sans s’en rendre compte. De toute façon le résultat est la genèse, non plus de la vie comme nous pouvons la contempler – avec différentes nuances dans les deux récits bibliques de la création – mais plutôt de la triste effraction de la peur. Pour autant que nous comprenons et désapprouvons la faiblesse d’Adam, notre père, nous devons lui reconnaître une bonne capacité de discernement liée à une dose non négligeable de franchise quant à la première question – d’où découlent et fleurissent toutes les autres – lorsqu’il répond de façon authentique au Seigneur Dieu : ” J’ai entendu ta voix dans le jardin : j’ai eu peur, car je suis nu et je me suis caché ” ( 3, 10 ). Mais si nous ne sommes pas convaincus par tout cela, alors nous serons toujours assez vulnérables car notre cœur sera ” divisé ” ( Mc 3, 26 ). Si, au contraire, nous conservons solidement ce sens d’appartenance mutuelle dans la joie de rester ” près ” du Seigneur Jésus avec tous, alors, la parabole prophétique du Maître nous concernera aussi : ” Personne ne peut entrer dans la maison d’un homme fort et voler tous ses biens s’il ne l’a d’abord ligoté. Alors seulement, il pourra saccager sa maison ” ( 3, 27 ). Qu’il ne nous arrive pas de tomber dans le piège comme notre père Adam qui ne fut pas capable de protéger le plus grand don que le Seigneur Dieu lui avait fait  en notre mère Eve. Au lieu de la soutenir pour qu’elle reste ” debout ” ( 3, 25 ) face au serpent, il se comporta vraiment comme quelqu’un ” qui a perdu la raison ” ( 3, 21 ) et ne sait pas porter le ” momentané, léger poids de notre tribulation ” ( 2 Co 4, 17 ).

Manifestazione

IX settimana T.O.

La conclusione della lettura annuale del Vangelo secondo Marco viene preparata da una parola dell’apostolo che ci rimanda alla conclusione della sua stessa vita divenuta ormai una vera e propria <offerta> (2Tm 4, 6). Così si conclude la prima lettura di quest’oggi: <Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione> (4, 8). Eppure la manifestazione del Signore sembra passare attraverso la nostra capacità e volontà di diventare con tutta la nostra vita una vera manifestazione di ciò che il <Vangelo> (4, 5) ha seminato nei nostri cuori diventando in noi seme di vita nuova. Paolo sembra finalmente pacificato proprio perché finalmente si sente riconciliato con il suo <ministero> che diventa quello del suo discepolo. Dopo una vita fatta di combattimento e vissuta come una perenne <corsa> (4, 7) non raramente ad ostacoli, finalmente sembra che Paolo abbiamo compreso che la cosa più importante non sia quella di parlare di Gesù, ma di essere interamente e completamente conformato a lui nel suo mistero pasquale.

A conferma di tutto ciò, il Vangelo secondo Marco ci lascia su questa immagine non solo suggestiva e commovente, ma pure eversiva che viene fatta notare con dovizia di particolari da Gesù ai suoi discepoli: <In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri> (Mc 12, 43). Per evitare ogni malinteso, il Signore Gesù non solo porta questa vedova all’attenzione attenta dei suoi discepoli, ma si sente obbligato a spiegare ulteriormente: <Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere> (12, 44). Così questa donna che rimarrà per sempre un’icona del discepolo e un simbolo dell’offerta pasquale di Cristo stesso: una vera manifestazione senza nessuna automanifestazione.

Ci congediamo dalla lettura del vangelo di Marco portando nel cuore l’immagine di questa vedova la cui grandezza sta nella sua <miseria> che non le ha impedito di dare tutto. Questa donna ci aiuta a capire senza scandalizzarci quello che sta per avvenire allo stesso Signore Gesù nell’imminente mistero pasquale in cui il Messia di cui si parlava ieri sarà così umiliato da poter essere vera <manifestazione> (2Tm 4, 1) del Regno che ci è promesso. La sua realizzazione dipende anche da noi: dalla nostra capacità di dare <tutto> dopo avere accolto di attraverso la <miseria> della perdita di tutto ciò che se ci dà sicurezza rischia nondimeno di farci perdere in libertà.

Accedere

Cuore di Gesù

Dopo aver contemplato il mistero dell’Amore, nella meditazione della Trinità e dell’Eucaristia, ecco che ci avviciniamo al simbolo umano per eccellenza dell’amore: il cuore. La solennità del Cuore di Gesù aiuta i credenti a ripetere spiritualmente il gesto del discepolo amato che, reclinatosi sul petto di Gesù, avverte l’indicibile profondità e commozione davanti all’imminenza della sua Pasqua (Gv 13, 21-25). Questa parte del corpo di Gesù si trova ad essere evidenziata dall’evangelista Giovanni all’inizio del racconto della Passione (Gv 13, 25) e nel suo punto culminante in cui viene squarciato da una lancia (Gv 13, 31-34). Ma questo punto preciso del corpo del Signore ricompare nei racconti della Risurrezione, quando l’incredulità di Tommaso viene vinta dall’invito di Gesù risorto: <tendi la tua mano e mettila nel mio fianco> (Gv 20, 27). Con questa festa, la Chiesa vuole che entriamo più profondamente nel mistero dell’amore di Dio che si è manifestato nella sua incarnazione nel cuore di Gesù Cristo. Le parole che Gesù rivolge a Santa Margherita Maria Alacoque sono fatte, in questa festa, ridondare in tutta la Chiesa: <Ecco questo cuore che ha tanto amato gli uomini>. Potremmo commentare tutto ciò con le parole di Paolo in cui si manifesta il nocciolo incandescente del <mistero nascosto da secoli in Dio, creatore dell’universo, affinché, per mezzo della Chiesa, sia ora manifestata ai Principati e alle Potenze dei cieli la multiforme sapienza di Dio, secondo il progetto eterno che egli ha attuato in Cristo Gesù nostro Signore> e continua <nel quale abbiamo la libertà di accedere a Dio in piena fiducia mediante la fede in lui> (Ef 3, 9-12).

Veramente il cuore di Cristo è un canale e d è quella <porta> attraverso cui ciascuno di noi <entrerà e uscirà e troverà pascolo> (Gv 10, 9). Davanti a una simile proclamazione ciascun credente è invitato ad inabissarsi in questo mistero di amore e a chiedersi come sant’Ignazio davanti al crocifisso: <Tu hai fatto così tanto per me e io cosa farò per te?>. Il dialogo d’amore è già avviato certo nella sua semplicità, ma pure nella sua grande forza ed esige una crescente capacità di saperne stimare – come si fa con una perla – <l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità> al fine di <conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio> (Ef 3, 19). Accedere al cuore del Signore Gesù significa tornare al proprio cuore e dirigere i propri passi verso il cuore della propria vita e della propria fede <che supera ogni conoscenza> e ci fa <camminare tenendolo per mano> (Os 11, 3). Mentre celebriamo questa solennità non possiamo di certo dimenticare tutti i nostri tradimenti nei confronti di ciò che il nostro cuore ci sussurra dentro e non possiamo che rinnovare il nostro impegno a tornare al cuore per accedere al mistero del cuore di Cristo. Come il discepolo amato potremo trovare là il nostro riposo e, soprattutto, la chiave per vivere e morire in un amore appassionato e ardente.

Catene

IX settimana T.O.

L’inizio della prima lettura di quest’oggi crea nella nostra mente un’immagine assai forte della situazione dell’apostolo Paolo a partire proprio dalle sue stesse parole: <soffro fino a portare le catene come un malfattore> (2Tm 2, 9). Non è difficile immaginare il combattimento interiore di un devoto fariseo che al contempo si sente fieramente cittadino romano e che si trova – a motivo del <Vangelo> (2, 8) – doppiamente incatenato. Le catene di Paolo sono infatti la conseguenza di una scelta assai coraggiosa e, di certo non facile, che mette in crisi le coordinate fondamentali della sua vita: l’appartenenza al popolo eletto e l’appartenenza alla struttura di potere vincente! Per la sua adesione al Vangelo queste due realtà così fondamentali per Saulo di Tarso entrano non solo in crisi all’interno della sua coscienza, ma sembrano rivoltarsi contro di lui dovendo così portare le catene che sono il segno esteriore di un grande conflitto interiore che lo contrappone alle strutture che per una vita intera lo avevano sostenuto.

Ciò che l’apostolo chiede a Timoteo con calde parole di esortazione è, di certo, ciò che per prima ha richiesto a se stesso e che ora viene richiesto a ciascuno di noi se vogliamo realmente camminare come discepoli: <Sforzati di presentarti a Dio come una persona degna, un lavoratore che non deve vergognarsi e che dispensa rettamente la parola della verità> (2, 15). Il Vangelo ci offre un esempio particolarmente fulgido di cosa possa significare dispensare la verità. Il modo con cui il Signore reagisce alla domanda di <uno degli scribi> (Mc 12, 28), in realtà, non ha nulla di speciale accontentandosi di riprendere quella che era la catechesi ordinaria della sinagoga e delle scuole rabbiniche. Eppure il modo con cui il Signore Gesù risponde a questo scribi evidenzia non tanto la particolarità delle parole che passano tra i due interlocutori, ma piuttosto lo stile. Si tratta di uno stile sincero di incontro e non di provocazione, di autentico desiderio di confronto che non ha niente a che vedere con le <vane discussioni> (2Tm 2, 14) stigmatizzate da Paolo e spesso sopportate dal Signore Gesù. 

L’evocazione dei comandamenti che, spesso, è stato motivo di amarezza tra Gesù e gli scrivi diventa in questo caso motivo di reciproca ammirazione: <Hai detto bene, Maestro…> (Mc 12, 32) cui segue una delle parole più belle di tutte le Scritture: <Non sei lontano dal regno di Dio> (12, 34). La ripresa dei comandamenti e delle consuetudini che spesso erano motivo di attrito tra Gesù e gli scrivi proprio a motivo di un’interpretazione che potremmo definire incatenante, diventa in questo caso assolutamente e magnificamente liberante. La <catene> portate da Paolo, in realtà sono il prezzo della libertà che non è più un bene riservato a pochi eletti sia a livello religioso che politico, ma è un dono che è per tutti nella misura in cui ciascuno accetta di entrare in un processo di liberazione dall’egoismo per aprirsi a un cammino che ha come spinta una sola parola: <Amerai…> e ancora <amerai> (12, 30-31). 

Aspettare

IX settimana T.O.

L’apostolo Pietro sembra essere radicalmente fiducioso: <Noi infatti, secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia> (2Pt 3, 13). Il breve racconto che viene oggi evocato dal Vangelo ci mette di fronte ad un Gesù in cui abita un senso di <giustizia> che non sfugge nemmeno ai suoi nemici i quali <rimasero ammirati di lui> (Mc 12, 17). Eppure, sembra che non basi l’ammirazione a colmare quel fossato che si è creato nel cuore di quanti ormai sembrano aver smarrito quell’immagine di Dio che pure è impressa – per il dono della grazia attraverso i doni della natura – nel cuore di tutti. Potremmo intendere la risposta del Signore rivolta a ciascuno di noi e riguardante la nostra stessa vita: <Perché volete mettermi alla prova? Portatemi un denaro: voglio vederlo> (12, 15). Siamo richiamati a guardare noi stessi come fossimo una moneta per cercare di capire che cosa riusciamo a dire di noi stessi e, soprattutto, in relazione a chi progettiamo e spendiamo la nostra vita.

Un testo di un monaco medievale può aiutarci a ripensare la nostra realtà di creature chiamata a non perdere la memoria di se stesse: <Ecco che il vaso di porcellana sfugge dalla mano di colui che l’ha impastato; sfugge dalla mano che lo tiene e lo porta. Se gli succedesse di cadere dalla tua mano, sarebbe un disastro, perché si romperebbe in mille pezzi, si ridurrebbe a nulla. Egli lo sa, e per tua grazia non cade. Abbi pietà, Signore, abbi pietà: tu ci hai modellati, e noi siamo argilla (Ger 18,6; Gen 2,7). Fin qui restiamo fermi, fin qui la mano della tua forza ci porta; siamo sospesi alle tue tre dita, la fede, la speranza e la carità, con le quali sostieni la massa della terra, la solidità della tua santa Chiesa. Abbi compassione, sostienici; la tua mano non ci lasci cadere. Raffinaci al fuoco dello Spirito Santo il cuore e la mente (Sal 26,2); consolida ciò che in noi hai modellato, affinché non ci disgreghiamo e non ci riduciamo all’argilla che eravamo o al nulla>1.

La preghiera è forse la scuola in cui siamo chiamati ogni giorno a ripulire la moneta della nostra vita perché sia veramente capace di favorire lo scambio e l’incontro piuttosto che essere motivo di opposizione e di oppressione. Se sapremo sempre meglio <di chi> (Mc 12, 16) siamo e a chi vogliamo realmente assomigliare, allora la nostra vita potrà conoscere uno splendore inimmaginato eppure assolutamente riconoscibile. Il primo passo che ci viene richiesto è quello di fare verità: in realtà il solo fatto che i notabili abbiano una moneta romana dice chiaramente che si servono della moneta della nazione occupante e così ne accettano, in realtà, l’amministrazione e il dominio con tutte le angherie che ciò comporta soprattutto per i più poveri. Allora risuona ancora più forte l’esortazione dell’apostolo: <Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia> (2Pt 3, 14)!


1. GUGLIELMO DI ST. THIERRY, Orazioni meditative, 1, 1.


Santamente

IX settimana T.O.

Sembra ci siano due modi ben diversi di vivere e di relazionarsi. Il primo è quello di cui ci parla l’apostolo Pietro e che può diventare il programma di tutta una vita: <Per questo mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l’amore fraterno, all’amore fraterno la carità> (2Pt 1, 5-7). Il secondo è quello, ben diverso, con cui i notabili del popolo si relazionano – sarebbe meglio dire che non si relazionano – al Signore Gesù e dapprima <cercavano di catturarlo> e poi, vinti dalla <paura della folla>, <Lo lasciarono e se ne andarono> (Mc 12, 12). Ciò che rende inaccettabile e pericoloso il modo di pensare e di comportarsi da parte dei notabili del popolo è la loro fatica a comprendere di essere a servizio e non di essere padroni. Così, quasi a loro stessa insaputa, comportandosi da padroni si rivelano usurpatori che invece di aggiungere e di condividere i frutti di una vita giusta non fanno che sottrarre e impadronirsi ingiustamente della speranza che è di tutti ed è per tutti. 

Coloro che erano chiamati a riconoscere, ad accogliere e ad indicare la presenza del <figlio> (…) scelgono invece di farlo sparire dall’attenzione fino ad ordire la sua morte. Il motivo è la paura di perdere quel senso di privilegio e di immunità su cui si fonda ogni sentimento di casta che rischia di contaminare anche il nostro cuore ogni volta che non riusciamo ad amare il nostro posto e il nostro ruolo lasciandoci prendere da sentimenti e da pretese che non possono che farci dare il peggio di noi stessi. Ma Pietro ci ricorda che non siamo chiamati ad entrare in competizione bensì a vivere una relazione trasformante: <affinché per loro mezzo diventiate partecipi della natura divina> (2Pt 1, 4). Questo è un dono che comunque esige l’<impegno> (1, 5) di una vita che si orienti sempre più decisamente verso quella logica che fa del padrone un uomo di cuore: <piantò una vigna, la circondò con una siepe, scavò una buca per il torchio e costruì una torre> e come se non bastasse <La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano> (Mc 12, 1). Nell’atteggiamento di questo padrone vi è una grande fiducia che sembra quasi ingenua! Non sembra temere che i suoi servi possano ingannarlo e, al <momento opportuno, mandò un servo dai contadini a ritirare da loro la sua parte del raccolto> (12, 2). Inoltre, nonostante quello che viene fatto ai suoi servi non si capacità di tanta cattiveria tanto da pensare di rischiare di mandare <un figlio amato> (12, 6).

Attraverso il linguaggio e il ritmo proprio della parabola, il Signore Gesù aiuta i suoi uditori ad entrare nel dramma del rifiuto che segna la storia tra Dio e il suo popolo. Eppure sembra che non tutte le speranze siano perdute poiché <lo lasciarono e se ne andarono>. Ma dove mai se ne vanno i notabili del popolo? Dove mai ci nascondiamo noi stessi quando non riusciamo a sostenere in confronto esigente e spiazzante della parola? Spesso dimentichiamo che <La sua potenza divina ci ha donato tutto quello che è necessario per una vita vissuta santamente> (2Pt 1, 3).


Fermento

Corpus Domini

Nella Colletta di questa solennità viene chiaramente evidenziato il “nesso pasquale” di questa festa: <Signore Gesù Cristo, che nel mirabile sacramento dell’Eucaristia ci hai lasciato il memoriale della tua Pasqua>. La Chiesa vuole invitare i suoi figli a adorare, cioè a rendersi conto della grandezza del dono che viene fatto loro perché l’opera della redenzione – frutto della Pasqua di Cristo – sia sempre più benefica. L’Eucaristia è per la Chiesa la garanzia del legame al suo Signore. Infatti, a partire dalla Pentecoste essa non cessa di celebrare l’Eucaristia fino al giorno del suo ingresso nel banchetto del Regno. Vi è un profondo legame tra la contemplazione del Dio-Amore e il Cristo presente nel sacramento. L’Eucaristia è infatti il mezzo – sacramento – attraverso cui la vita di Dio viene riversata nella nostra stessa vita, tanto da fare della Chiesa il Corpo di Cristo per mezzo del Corpo mistico di Cristo. Come dice Efrem il Siro: <Il fuoco e lo Spirito sono nel nostro battesimo ma anche nel calice sono il fuoco e lo Spirito>. Quando la Chiesa ci invita a porci in relazione particolare al mistero dell’Eucaristia lo fa nella speranza che ciascun credente possa, in tal modo, prendere coscienza o rettificare la sua coscienza di fronte a questo dono che nutre e fortifica la vita di ogni battezzato. Ma quante volte si rischia di dimenticare ciò che Agostino dice così fortemente: <il mistero che voi siete è nelle vostre mani>? Proprio come quella misteriosa <brocca d’acqua> (Mc 14, 13) che indica la strada per la sala al <piano superiore> (14, 15). L’Eucaristia è il luogo in cui impariamo a vivere come Cristo donando la vita fino a portare l’acqua come fanno le donne e come farà Gesù – nel vangelo di Giovanni – amando i suoi <fino alla fine> (Gv 13, 1). Attraverso l’Eucaristia, Dio stesso – in Cristo Gesù – si mette nelle nostre mani, entra nel nostro stesso corpo per assimilarci al suo e farci una cosa sola con tutti i credenti. Infatti, comunicare con Cristo risorto significa far entrare dentro di noi un seme di vita incorruttibile che desidera trovare nella nostra vita il terreno buono e fertile in cui portare frutto abbondante. Il seme di risurrezione posto dentro il nostro stesso corpo vuole essere in noi fermento di <immortalità> come scriveva Ignazio di Antiochia e questo <in virtù del proprio sangue> (Eb 9, 12). Questo fermento avrà fatto la sua opera solo, quando la nostra vita sarà una vita da risorti, ossia segnata dalla medesima logica del Cristo: l’autodonazione, il dono totale di sé, il lasciarsi prendere al pari di un nutrimento e di una bevanda. Mangiare e guardare per essere assorbiti e assorbire una presenza del Mistero che ci trasformi, assieme a tutti i credenti, nello stesso Corpo di Cristo in cammino verso l’unità. Un Dio che accetta di mettersi nelle nostre mani non può che aspettarsi da noi che facciamo altrettanto: non solo che ci rimettiamo nelle sue mani, ma che ci abbandoniamo fiduciosi alle mani degli altri.