Convertire… non trascinare

Giovedì dopo le Ceneri

Stiamo ancora compiendo i primissimi passi del nostro cammino quaresimale, ma la Parola di Dio – racchiusa nelle Scritture – sembra non darci tregua e ci chiede di prendere subito posizione. Le parole del Deuteronomio sembrano mettere il dito sulla piaga: <Ma se il tuo cuore si volge indietro e se tu non ascolti e ti lasci trascinare a prostrarti ad altri dèi e a servirli, oggi vi dichiaro che certo perirete> (Dt 30, 17-18). Il Signore Gesù non è da meno quanto a chiarezza e perentorietà: <Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua> (Lc 9, 23). La forza e la radicalità della parola con cui siamo obbligati a misurarci ci mette di fronte all’esigenza improrogabile di prendere su di noi la <croce> della nostra libertà, della nostra consapevolezza, della nostra umanità. Non è raro che giochiamo a nascondino con noi stessi facendo finta di desiderare ciò che, in realtà, non ci interessa affatto o, comunque, troppo poco per mettere in movimento il meglio di noi stessi.

Per riprendere la parola del Deuteronomio potremmo dire che la sfida quotidiana è quella di non <trascinare> la croce di <ogni giorno> ma di portarla con dignità. Il primo modo per non farsi come costipare interiormente è di avere uno sguardo semplice e lucido. La nota di quotidianità sottolineata dal Signore Gesù con l’evocazione di <ogni giorno> è, in realtà, ben più di un’esortazione è, invece, uno stile. Se, infatti, non sappiamo abitare il presente in cui la nostra libertà è sfidata ad essere attiva e responsabile, rischiamo di lasciarci appesantire dalle croci del passato e persino paralizzare da quelle che immaginiamo nel nostro futuro. Nella prima lettura possiamo avvertire una certa urgenza che scaturisce da una profonda passione: <Scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio> (Dt 30, 19-20).

Il Signore Gesù ci interroga severamente rimandandoci a noi stessi e, per certi aspetti, spingendoci ad un severo esame di intelligenza senza il quale persino l’esame di coscienza rischia di essere una trappola: <Infatti, quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma perde o rovina se stesso?> (Lc 9, 25). Se non sappiamo cosa vogliamo veramente, qualunque cammino di conversione sarebbe impensabile e la fatica rischia di essere inutile tanto che la vita rischia di essere trascinata e non vissuta in pienezza persino quando ci tocca sperimentare la morte. I giorni, che si stendono davanti a noi con l’immensità ammaliante e inquietante di un deserto, ci sono dati come un’occasione propizia per dare ad ogni nostra fatica il tocco di una dignità e quasi di una signorilità che fa la differenza.

Scegliere è il più grande onore che abbiamo e il fatto di non tirarci indietro nella capacità di decidere e nella volontà di essere fedeli sarà il segno che non siamo dei servi, ma siamo dei figli capaci di essere sempre più fratelli. Se matureremo interiormente in questa attitudine, allora la <croce> non solo non ci spaventerà più, ma sarà il segno inequivocabile della nostra libertà, il sigillo della nostra discepolanza non solo desiderata e sventolata come fosse una bandiera, ma compiuta amorevolmente nel solco esigente e magnifico della nostra quotidianità sempre più da amare, e non trascinare.

Convertire… senza parole

Mercoledì delle Ceneri

Ogni anno, il cammino quaresimale ci chiede di metterci silenziosamente e serenamente in fila per ricevere sul capo un pugnetto di cenere e sentirci ripetere con austera solennità: <Convertitevi e credete al Vangelo>. La liturgia non ci chiede di rispondere nulla e di non aggiungere neanche un <Amen> rituale a questa parola. Sembra che la nostra risposta debba essere silenziosa e il nostro silenzio sia il modo più promettente per lasciarci interpellare senza fare promesse, ma semplicemente mettendoci in cammino aspettando che la risposta sia data dalla strada che sapremo percorrere in verità. La parola del Signore ci aiuta a radicare il nostro cammino di conversione nelle esigenze proprie del Vangelo che sembrano fare tutt’uno con la nostra vita intima e con la nostra umana compagnia. La preghiera deve essere segreta; l’elemosina non può che essere un segreto tra noi e il fratello più povero; il digiuno e la rinuncia non possono che toccare l’intimità del nostro corpo avvertito come luogo di relazione, di amore, di crescita. Tutto è ritmato da un ritornello: <e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà> (Mt 6, 4). Questo ritornello è come l’intonazione inconfondibile di ogni Quaresima per diventare il ritmo segreto e intimo della nostra stessa vita di discepoli.

Il tempo della Quaresima è un tempo propizio, l’apostolo lo dichiara <un momento favorevole> (2Cor 6, 2). Il cammino di preghiera, di carità, di attenzione è come una possibilità che doniamo a noi stessi per essere in verità ciò che sentiamo di essere profondamente. Il profeta Gioele si fa interprete della passione di Dio per noi che aspetta, da ciascuno di noi, una risposta e ci ricorda come e quanto <Il Signore si mostra geloso per la sua terra e si muove a compassione del suo popolo> (Gl 2, 18). Così il <corno> (2, 15) di guerra diventa l’invito a lottare contro tutto ciò che in noi e attorno a noi può oscurare il volto di Dio <misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore> (2, 13) stando attenti a non <suonare la tromba> (Mt 6, 2) della vanagloria. La cenere che profuma il nostro capo non è solo memoria della nostra mortalità e del nostro limite, è anche memoria della passione di Dio per noi che lo rende capace di ridurre a nulla – in cenere! – tutte le nostre colpe e i nostri errori. Come spiega padre Delfieux: <all’inizio della Quaresima non ci viene solo ricordato che siamo vasi fragili, caduchi e mortali>. Se il nostro venire dalla terra e ritornare alla terra è la verità prima non è né l’ultima né, tantomeno la principale, poiché <in questo vaso di argilla il Signore ha posto il tesoro della sua stessa vita>1.

Un passo ci viene chiesto per primo: metterci in fila e accogliere sulla nostra testa il segno di ciò che siamo, da cui veniamo e verso cui andiamo. Eppure, in questo silenzio potremo sentire uno sguardo su di noi ed è uno sguardo di fuoco capace di ridurre in cenere tutte le nostre paure facendoci sentire peccatori… perdonati e amati. Per sentire questo dobbiamo esporci fino a consegnarci al Padre mettendoci alla sequela del Signore Gesù che sale a Gerusalemme senza temere di scendere verso l’umiliazione. Forse nel silenzio assordante del Golgota la frase che ci viene oggi consegnata ha sostenuto la speranza del Crocifisso nel momento del più grande digiuno, il digiuno da se stessi: <ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà> (Mt 6, 18).


1. P. M. DELFIEUX, Évangéliques, Parole et Silence, Les Plans 2013, p. 32.

Già ora

VIII settimana

Il disagio dei discepoli davanti alla fuga di quel tale così amato dal Signore da sentirsi troppo amato da preferire di continuare il suo cammino lontano da Lui raggiunge livelli di guardia significativi: <Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito> (Mc 10, 28). Il Signore Gesù non contraddice Pietro che si fa portavoce non solo degli apostoli, ma dei discepoli di ogni tempo, e nondimeno lo porta oltre la coscienza della rinuncia per coglierne più profondamente il senso. Questo passo viene fatto dal Signore con i sette riferimenti precisi che concretizzano quel generico <tutto> evocato da Pietro e diventa concretamente: <casa, fratelli o sorelle, o madre o padre o figli o campi> (10, 29). Eppure, la rinuncia a tutto che viene confermata dal Signore deve essere continuamente come ulteriormente verificata per non cadere nella stessa disperazione di quel tale e questo può avvenire solo a ripartire dalle motivazioni profonde: <per causa mia e per causa del Vangelo>! Se la rinuncia è una rinuncia cristologica ed evangelica, allora è già una piena ricompensa che non ammette né ritardi, né rimandi: <che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto… insieme a persecuzioni e la vita eterna nel mondo che verrà> (10, 30). Stranamente e significativamente manca all’appello il <padre>!

Come spiega Bernardo di Chiaravalle: <Non ti rimanda all’ultimo giorno, quando tutto ti sarà dato realmente e non più nella speranza; egli parla del presente. Certo, grande sarà la nostra gioia, infinita la nostra esultanza, quando comincerà la vita vera. Ma già la speranza di una tale gioia non può essere senza gioia. Nell’animo di chi ha seminato per la giustizia, questa gioia è prodotta dalla convinzione che i suoi peccati sono perdonati. Chiunque tra voi, dopo gli inizi amari della conversione, ha la fortuna di vedersi alleggerito dalla speranza dei beni che attende, raccoglie fin d’ora il frutto delle sue lacrime. Il Signore Gesù si mostra molto buono verso chi riceve da lui non soltanto la remissione delle sue colpe, ma anche il dono della santità e, meglio ancora, la promessa della vita eterna. Beato chi ha già raccolto una così bella messe>1.

L’esortazione del Siracide assume così tutta la sua forza e la sua straordinaria ricchezza: <Non presentarti a mani vuote davanti al Signore> (Sir 35, 6) e ancora <In ogni offerta mostra lieto il tuo volto, con gioia consacra la tua decima> (35, 11). Tutto ciò nel Vangelo diventa offerta di se stessi in pienezza assumendo quella logica pasquale che non ammette più nessun calcolo se non quello della pienezza che si identifica con l’assoluta perdita: <Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi saranno primi> (Mc 10, 31) Tutti ciò avviene per un motivo tanto semplice quanto rivoluzionario: <perché il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone> (Sir 35, 14). Come pure non c’è differenza di tempi e già ora è donata la pienezza del Regno se ne assumiamo la logica con cuore e <occhio contento> (Sir 35, 10) e questo <già ora> (Mc 10, 30).


1. BERNARDO DI CHIARAVALLE, Discorsi sul Cantico dei Cantici, 37.

Misericordia

VIII settimana

Il Siracide sembra voler sostenere la nostra speranza senza in alcun modo dare adito all’illusione o alla superficialità: <Quanto è grande la misericordia del Signore, il suo perdono per quanti si convertono a lui!> (Sir 17, 29). In una sola e densa frase, siamo messi di fronte all’abisso infinito della misericordia di Dio in cui possiamo quasi annullare il piccolo abisso del nostro peccato normalmente frutto di dimenticanza o di sovra estimazione di noi stessi. Se, infatti, il Siracide ci conforta con la rassicurazione che la misericordia del Signore è così grande, al contempo ci ricorda che tutta la vita ci è donata come una possibilità e una sfida di continua conversione: <Non perseverare nell’errore…> (17, 26). Alla luce delle calde esortazioni della prima lettura possiamo, forse, comprendere meglio quale sia l’errore di questo tale che si avvicina a Gesù con così nobili intenzioni e si allontana da Lui <scuro in volto> e profondamente <rattristato> (Mc 10, 22). Se leggiamo con attenzione il testo ed entriamo nel dialogo tra il Maestro e questo potenziale,  ma mancato discepolo, possiamo dire che a questo tale mancò il coraggio della misericordia verso se stesso che gli impedì di chiedere misericordia piuttosto che esibire la sua rettitudine praticata con zelo fin dalla <giovinezza> (10, 20).

Clemente d’Alessandria si interroga sulla situazione interiore di questo tale cercando di andare un po’ oltre la sua pretesa: <Perché quel giovane che compiva i comandamenti della Legge così fedelmente fin dalla giovinezza si sarebbe gettato ai piedi di un altro uomo per chiedere l’immortalità? Quell’uomo osservava tutta la Legge e l’aveva praticata fin da piccolo. Ma avverte che, se non manca nulla alla sua virtù, manca ancora qualcosa alla sua vita. Ecco perché viene a domandarla a colui che solo può dargliela; è sicuro di essere a posto con la Legge, tuttavia implora il Figlio di Dio. Gli ormeggi della Legge non lo difendono dal rullio; insicuro, lascia l’ancoraggio pericoloso e viene a gettare l’ancora nel porto del Salvatore. Gesù non gli rimprovera di aver mancato alla Legge, ma si mette ad amarlo, commosso dall’impegno del buon discepolo. Tuttavia, lo definisce ancora imperfetto: è buon operaio della Legge, ma senza lo slancio per la vita eterna. La santa Legge è come un pedagogo che conduce verso i perfetti comandamenti di Gesù e verso la sua grazia>1.

Potremmo analizzare il nostro desiderio di essere discepoli specchiandoci, riga dopo riga, nella riflessione di Clemente d’Alessandria cercando di capire onestamente quale sia la nostra situazione reale e che cosa veramente ci manca come pure che cosa veramente desideriamo. Le parole del salmo responsoriale sono capaci di farci fare un passo in più rivelandoci come la beatitudine e la pace del cuore non potranno mai essere il frutto essenziale dei nostri sforzi –pur necessari – ma l’esperienza ardente di una grazia ricevuta e accolta a piene mani e a pieno cuore: <Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e perdonato il peccato> (Sal 31, 1). E il più grave peccato è di presumere di non avere bisogno che di misericordia. I cinque verbi con cui il Signore Gesù concretizza la proposta di risposta al suo amore rivelano in questo tale la paura di amare e di lasciarsi amare. Al piccolo pentateuco della sequela: <va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri… e vieni! Seguimi!> (10, 21) corrisponde una triste fuga al posto di un ardente e appassionato abbraccio. E l’amore non insegue mai, ma sa trasformarsi in misericordia e assoluto rispetto senza risentimento alcuno: <Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio> (10, 27).


1. CLEMENTE D’ALESSANDRIA, Quale ricco potrà salvarsi?

Una parola che dica

VIII Domenica T.O. 

Possiamo cogliere e accogliere l’invito dell’apostolo: <fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, prodigandovi sempre nell’opera del Signore> (1Cor 15, 58). Certamente anche a ciascuno di noi piacerebbe poter dire con Giobbe: <Io ero gli occhi per il cieco> (Gb 29, 15). Ma la Parola di Dio subito ci mette in guardia da parole o gesti più grandi di noi o, più precisamente, non corrispondenti alle nostre vere possibilità e capacità: <Può forse un cieco guidare un altro cieco?> (Lc 6, 39). Il Signore Gesù ci allerta riguardo a certe frasi pronunciate con la tipica untuosità sotto cui, di solito, si cela una <buca> (Lc 6, 39): il tranello di un buco vuoto al posto di un cuore sovrabbondante.

La frase untuosa suona così: <Permetti che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio> (Lc 6, 42). Frase innocua – persino cortese! – ma che rischia di compromettere radicalmente la carità e la misericordia in quanto non ci si pone accanto all’altro ma si assume l’atteggiamento di chi vede di più, sa di più, pensa di poter fare e offrire di meglio. E il Signore Gesù ci ammonisce: <Se foste ciechi non avreste alcun peccato, ma siccome dite: “Noi vediamo!” Il vostro peccato rimane> (Gv 9, 41).

La Parola di Dio ci invita alla sapienza che, secondo quanto ci viene indicato nella prima lettura, esige una distanza e un certo tempo: il tempo necessario a filtrare attraverso il vaglio e la necessaria distanza per provare attraverso il fuoco; la calma attenzione indispensabile per verificare – attraverso il dispiegarsi della conversazione – la verità e la consistenza di un uomo attraverso la qualità e la densità della sua parola.

L’immagine dell’albero e dei suoi frutti, che pure ritorna nel Vangelo, rafforza ancora di più questo invito alla pazienza del discernimento che non si fida di quello che vede – le tante foglie che rendono un albero attraente – ma che sa sedersi in attesa che il frutto – bello e buono – ne indichi non solo l’attrattiva, ma la capacità di <dare frutto a suo tempo> (Mt 21, 41). In tal modo si rivelerà la vera natura dell’albero permettendo così finalmente di comprendere il mistero della radice, il mistero di un cuore che custodisce qualcosa di più grande di noi – il tesoro della presenza di Dio – oppure una collezione di pagliuzze raccattate qua e là e gelosamente custodite per consolarci e lasciarci immobili come una <trave> che fu albero ma non lo è più!

Quale l’opera che il Signore si attende da noi? Quale frutto il Signore viene a cercare sotto l’albero che siamo chiamati a diventare nonostante forse sembriamo più un rovo ingarbugliato che un albero in crescita? Sembra darci una risposta Ben Sirach: <il frutto mostra come è coltivato l’albero, così la parola rivela il mistero dell’uomo> (Sir 27, 6): una parola che non punga come le spine ma sia dolce come il fico; una parola che non laceri come il rovo ma fortifichi come il frutto di una buona vendemmia.

Une parole qui dit

VIII Dimanche T.O. –

Nous pouvons recueillir et accueillir l’invitation de l’apôtre : «  Ainsi donc, mes frères bien-aimés, montrez-vous fermes, inébranlables, toujours en progrès dans l’œuvre du Seigneur » ( 1 Co 15, 58 ). Cela plairait certainement à chacun d’entre nous de pouvoir dire avec Job : « j’étais les yeux de l’aveugle » ( Jb 9, 15 ). Mais, rapidement, la Parole de Dieu nous met en garde des paroles et des gestes plus grands que nous, ou, plus précisément, qui ne correspondent pas à nos véritables possibilités et capacités : «  Un aveugle peut-il guider un autre aveugle ? « ( Lc 6, 39 ). Le Seigneur Jésus nous alerte par rapport à certaines phrases prononcées avec cette onctuosité typique sous laquelle se cache souvent un « trou » ( Lc 6, 39 ) : le piège d’un trou vide à la place d’un coeur surabondant.

La phrase onctueuse résonne ainsi : « Permets-moi d’enlever la paille qui est dans ton oeil » ( Lc 6, 42 ). Phrase inoffensive – voire courtoise ! – mais qui risque de compromettre radicalement la charité et la miséricorde  dans le sens où elle ne se positionne pas du côté de l’autre, mais elle assume l’attachement de celui qui voit mieux et qui pense pouvoir faire et offrir  davantage. Et le Seigneur Jésus nous prévient : « Si vous étiez des aveugles, vous seriez sans pécher ; mais vous dites : Nous voyons ! Votre péché demeure » ( Jn 9, 41 ).

La Parole de Dieu nous invite à la sagesse, et, d’après ce qui nous est indiqué dans la première lecture, elle exige une distance et un certain temps : le temps nécessaire pour être filtrée à travers la projection et la distance du test par le feu ; une paisible attention indispensable pour vérifier – à travers le déroulement de la conversation – la vérité et la consistance d’un homme par sa qualité et la densité de sa parole.

L’image de l’arbre et de ses fruits, qui revient aussi dans l’Evangile, renforce encore d’avantage cette invitation à la patience du discernement qui ne se fie pas à ce que l’on voit – les nombreuses feuilles qui rendent un arbre attrayant – mais qui sait s’asseoir en attendant que le fruit – beau et bon – indique, non seulement l’attraction, mais la capacité de «  donner du fruit en son temps » ( Mt 21, 41 ). C’est ainsi que se révélera la vraie nature de l’arbre, permettant ainsi de comprendre, finalement, le mystère de la racine, le mystère d’un coeur qui protège quelque chose de plus grand que nous – le trésor de la présence de Dieu – ou une collection de fétus de paille récoltée ça et là et gardé jalousement pour nous consoler et rester immobile comme une «  poutre » qui fut un arbre, mais qui ne l’est plus !

Quelle est l’oeuvre que le Seigneur attend de nous ? Quel fruit le Seigneur cherche-t-il sous l’arbre que nous sommes appelés à devenir alors que nous ressemblons plus à un buisson entremêlé qu’à un arbre en croissance ? Ben Sira le Sage semble nous donner une réponse : «  le fruit montre comment est cultivé l’arbre, ainsi la parole révèle le mystère de l’homme » ( Si 27, 6 ) : une parole qui ne pique pas comme les épines, mais qui est douce comme le figuier, une parole qui ne lacère pas comme le buisson, mais qui fortifie comme le fruit d’une bonne vendange.

Come

VII settimana

<Diventare come dei bambini significa accettare di perdere terreno. Non si entra nella luce di Dio senza fare naufragio. Bisogna accostarsi al mistero del Regno di Dio con una mente completamente liberata di chi non ha idee preconcette e nessun programma prestabilito>1. Tutto ciò non può che essere insopportabile per i “saggi” di questo mondo e, ancor meno pensabile, per gli emancipati. Per un bambino, invece, e per chi ha un cuore ritornato alla semplicità, non c’è niente di più bello che lasciarsi andare verso ciò che non è conosciuto, a motivo, di una interiore disposizione alla meraviglia per ciò che sfugge alla comprensione immediata: inedito che apre, invece, ad orizzonti sempre inattesi. Ogni volta che ci troviamo dinanzi ad un piccolo è come se il nostro cuore tornasse, in mode del tutto naturale, all’esultanza delle origini quando <Il Signore creò l’uomo dalla terra> (Sap 17, 1) e ci <rivestì di una forza pari alla sua> tanto da farci <a sua immagine> (17, 3).

Nondimeno, la memoria dei doni della creazione è sempre congiunta al dovere irrinunciabile dell’attenzione e della cura soprattutto verso coloro che non possono prendersi cura di se stessi. La prima lettura è come se traesse le conseguenze della contemplazione meravigliata del dono della creazione da questa amorevole attenzione sorgiva, tanto da sentire il bisogno di passare all’esortazione: <Guardatevi da ogni ingiustizia!>; un’esortazione che diventa, fattivamente, un invito chiaro a <prendersi cura del prossimo> (17, 14). Nel Vangelo troviamo come, il Signore Gesù, non esita ad entrare in conflitto aperto persino con i suoi discepoli quando c’è in gioco proprio questa disponibilità e lasciarsi meravigliare e interrogare dal mistero della vita nel momento in cui essa si presenta nella sua forma più originale e fragile, proprio come nella realtà di quei <bambini> (Mc 10, 13) che gli vengono presentati perché possano entrare in contatto con la sua persona e sentire il beneficio del tocco della sua persona.

Se i discepoli si sentono infastiditi dalla presenza di questi piccoli e dal desiderio delle loro madri di farli entrare in contatto con il Maestro, il Signore Gesù, al contrario, si schiera completamente dalla loro parte tanto che <s’indignò> e non lesinò di opporsi: <Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite; a chi è come loro, infatti, appartiene il regno di Dio> (10, 14). Il messaggio non è solo quello di un’accoglienza dei piccoli, ma è soprattutto un segnale voluto per i discepoli, chiamati a misurarsi proprio con questi bambini per discernere l’autenticità della loro sequela. Il <come> evocato dal Signore Gesù si staglia come una sorta di necessario banco di prova per ogni discepolo chiamato a verificare le motivazioni autentiche che lo mettono alla sequela di Cristo. Come ricordava Giovanni Crisostomo un bambino preferirà sempre la sua mamma persino ad una regina vestita magnificamente e ricoperta di gioielli dalla testa ai piedi. La domanda è per noi: <e noi cosa preferiamo, il semplice contatto con Gesù e la familiarità con Lui o ciò che questo può assicurarci in termini di privilegi?>. Così pure possiamo risentire le parole di Teresa di Lisieux: <Ah, mai parole più tenere, più armoniose hanno allietato l’anima mia, l’ascensore che deve innalzarmi fino al Cielo sono le vostre braccia, Gesù! Per questo non ho bisogno di crescere, al contrario bisogna che resti piccola, che lo divenga sempre più. Dio mio, avete superato la mia speranza, ed io voglio cantare le vostre misericordie>2.


1. M. D. MOLINIÉ, Le combat de Jacob, Cerf, Paris 1967, pp. 116

1. TERESA DI LISIEUX, Scritto autobiografico, C.

Vita

VII settimana

Il riferimento all’amicizia che troviamo nella prima lettura ci può ben aiutare ad orientare e a cogliere, in tutta la sua verità, la parola del Signore Gesù che nel Vangelo dice: <Un amico fedele è rifugio sicuro> (Sir 6, 14). Se di un amico si possono dire cose così belle e grandi, si spera si possa fare altrettanto per ogni legame e, in modo particolare, per quelle relazioni che sono state sancite con una solenne promessa di alleanza per sostenersi nel cammino della vita. La parola del Signore con la quale Gesù intende reagire alla provocazione dei farisei che cercano, ancora una volta, di screditarlo e di <metterlo alla prova> (Mc 10, 2), riguarda anche noi: <Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma> (10, 5). Le letture della liturgia sembrano respirare un’aria assai diversa. Mentre nella prima lettura, il Siracide ci fa sentire, in tutta la sua fragranza il profumo dell’amicizia, tanto da definirla non solo come un <tesoro> (Sir 6, 14), ma persino come una vera e propria <medicina> (6, 16), i farisei sembrano animati da un sospetto continuo su tutto ciò che riguarda le relazioni e le alleanze tra persone che cercano – nei limiti delle loro possibilità – di sostenersi nel cammino della vita.

La preoccupazione ossessiva di definire accuratamente e continuamente i limiti della giustizia e della legalità, rischia di far perdere la capacità di guardare alle reali situazioni della vita e di cercare, umilmente e in modo compassionevole, non solo le ragioni e i torti, ma le vie per ricreare continuamente le condizioni e rilanciare così la fiducia ricreando, prima della giustizia, la “giustezza” in tutte le relazioni di cui è costellata, necessariamente, la vita di tutti: <Una bocca amabile moltiplica gli amici, una lingua affabile le buone relazioni> (Sir 6, 5). Siamo chiamati, dunque, ad andare ancora più nel profondo fino a comprendere che la “giustezza” nella relazione con Dio è ciò che crea la giusta relazione con gli altri e soprattutto con quanti, non solo condividono il nostro cammino di vita, ma con i quali abbiamo stretto un’alleanza per la vita.

La parola di oggi ci chiede di gettare uno sguardo su quelle che sono le nostre relazioni più significative – l’amicizia e gli impegni presi – per cercare di comprendere quanto esse siano continuamente ravvivate e illuminate dalla nostra relazione con Dio, soprattutto nel mistero vivificante e rafforzante della preghiera. Sta a noi scegliere, ogni giorno, se metterci nella linea dei farisei che si pongono come guardiani della legalità, cercando e trovando sempre il modo per garantire i propri interessi e i propri privilegi, oppure ricreare, ogni giorno, le condizioni necessarie non solo per mantenere ma anche per far crescere e maturare le nostre relazioni a tutti i livelli. Il Siracide ci ricorda che <Chi teme il Signore sa scegliere gli amici: come è lui, tali saranno i suoi amici> (6, 17). Questa medesima logica può essere applicata anche alle relazioni più intime come quella che si vive nell’alleanza di vita tra un uomo e una donna: come è lui, tale sarà chi vive con lui! Questo apre il cuore ad un rispetto assoluto delle diverse e talora così dolorose situazioni che si creano nella vita, e al contempo ci riporta al dovere, assolutamente personale, di prenderci cura della nostra crescita e maturazione per essere, al massimo delle nostre reali possibilità, soggetti di relazioni sane che danno <vita> (Sir 6, 16) fino a dare la vita!

Quanto basta

VII settimana

L’immagine del <sale> con cui si conclude il vangelo di quest’oggi è posta in relazione, attraverso uno dei detti più belli del Signore Gesù, con il fatto di essere <in pace gli uni con gli altri> (Mc 9, 50). Potremmo così dire che il sale della pace è necessario alla vita come il condimento è indispensabile per assicurare un buon gusto agli alimenti. Chiunque faccia anche un minimo di cucina, sa che non esiste una misura quantificabile in modo preciso, netto e uguale del sale da aggiungere alle varie pietanze. Normalmente, nell’aggiunta del sale, vi è sempre una dose di giusta arbitrarietà e di necessaria intuitività. Così pure è per la pace che deve regnare e, quotidianamente, essere costruita e ricostruita nelle nostre relazioni fraterne per le quali non ci sono misure e modalità predefinite e scontate, ma è necessario un continuo lavoro di intelligenza e di rischio. Se il desiderio e l’anelito è chiaro, se l’orientamento è netto, non è così facile discernere i modi e gli strumenti per costruire e assicurare la pace gli uni con gli altri… eppure questa pace non si può mai smettere né di desiderarla né, tantomeno, di cercarla, continuamente, con creatività, immaginazione e rischio.

Il libro del Siracide ci offre comunque una sorta di indizio che può diventare una luce per il cammino, indizio che si concretizza in un’esortazione: <Non confidare nelle tue ricchezze e non dire: “Basto a me stesso”> (Sir 5, 1). Il salmo responsoriale rafforza il proverbio con un’immagine: l’<albero piantato lungo corsi d’acqua> (Sal 1, 3). Per quanto rigoglioso, un albero non può in nessuno modo dire <basto a me stesso>! La sua bellezza e fecondità, infatti, dipendono dalla terra, dall’acqua, dal sole. Esso è il frutto di questa continua sinergia che sarebbe impossibile senza una reale apertura e accoglienza di ciò che si deve ricevere e che comporta, a sua volta, una disponibilità a dare. In tal modo il segreto della pace sembra essere la coscienza della propria povertà e della necessaria interdipendenza.

A questo fa riferimento il Signore Gesù quando caratterizza il discepolo proprio a partire dal suo bisogno di ricevere. prima che considerare la sua missione a dare: <Chiunque vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa> (Mc 9, 41). Nessuno può né deve bastare a se stesso, se non nella misura di una crescente capacità di dare se stesso, senza mai rinchiudersi nei propri piccoli interessi. Questo è evidente, eppure bisogna riconoscere che il Signore Gesù ci porta un po’ più lontano e, come sempre, un po’ più in profondità; infatti, il Signore ci ricorda che la nostra resistenza nel dare è, fondamentalmente, il segno e il frutto di una intrinseca paura dell’uomo a dover riconoscere di avere bisogno degli altri. Il costruire la pace comincia sempre con il grande passo del mettere il primo mattone della consapevolezza, ovvero, il riconoscimento saggio, prima che umile, di non bastare a se stessi e di avere bisogno gli uni degli altri, offrendoci, reciprocamente, l’occasione di rivelare quanto stiamo diventando più umani. La misura di questo discernimento sembra essere minima e fattibilissima: <un bicchiere d’acqua> (Mc 9, 41) meglio se <fresca> (Mt 10, 42). 

Gioia

VII settimana

Tre soli versetti, per esprimere tutta la fatica di essere discepoli senza mai diventare – più o meno consapevolmente – dei “portaborse” interessati a servire il proprio padrone per trarne qualche vantaggio per la propria posizione. Giovanni si fa interprete, non solo del disagio che serpeggia nel gruppo dei discepoli, ma pure – suo malgrado – di quel sentimento di superiorità che deve essere rivelato perché rischia di ammalare il cuore di quanti, pur essendo piccoli d’animo, hanno la fortuna di vivere accanto a persone dal cuore grande: <Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demoni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva> (Mc 9, 38). Giovanni, candidamente, rivela la malattia che già ha attentato il suo cuore, un cuore di discepolo che, in realtà, si mette al posto del Maestro benché il titolo sia riservato, apparentemente, solo a Gesù: <non ci seguiva>! Da parte sua il Signore Gesù non esita ad agire con la sapienza del medico e, ben prima che accada, cerca di ribaltare il modo di leggere la realtà con un’espressione di rara efficacia – <chi non è contro di noi è per noi> (9, 40) – premurandosi così di distinguere accuratamente la sua persona da quella del gruppo dei discepoli: <non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me> (9, 39).

Ciò che tradisce il discepolo Giovanni – e ciò che spesso tradisce anche noi come discepoli – è quel sottile senso di amarezza nei confronti degli altri quando non sono riconducibili ai nostri schemi e ai nostri parametri. Ciò che illumina ancora una volta il volto di Cristo è questa sua capacità di non sentire mai la concorrenza del bene che ci può essere negli altri, ma di essere in grado di riconoscerlo, di ammirarlo, di additarlo con quella serenità e quella gioia che rendono la vita più semplice e più bella. La prima lettura ci offre un criterio di discernimento per misurare e rettificare il nostro modo di entrare in contatto con la realtà che sta dentro di noi e che si muove attorno a noi: <Chi ama la sapienza ama la vita, chi la cerca di buon mattino sarà ricolmo di gioia> (Sir 4, 12). La gioia è sempre il segno distintivo di una libertà interiore che ci permette di guardare agli altri con un senso di meraviglia, e con un rispetto tale che arriva persino a lasciare che l’altro sia, non solo diverso da noi, ma persino che ci sia contro: <Se egli invece batte una falsa strada, lo lascerà andare e lo consegnerà alla sua rovina> (Sir 4, 19).

Il salmista non fa che confermare quest’atmosfera di serenità. Essa ha bisogno di una buona dose di distacco: <Grande pace per chi ama la tua legge: nel suo cammino non trova inciampo> (Sal 118, 165). La parola e i gesti del Signore Gesù ci chiedono di essere discepoli sereni e gioiosi, per nulla preoccupati di garantirci una sorta di controllo totale sui doni che ci vengono dal nostro Maestro e che non sono nostri, ma che appartengono veramente a tutti, persino quando noi rischiamo di pensare o di augurarci il contrario. Sentiamo e accogliamo l’invito del Signore a resistere alla tentazione del sospetto per vivere nella gioia di chi abita all’altezza del proprio cuore, credendo che gli altri facciano altrettanto.