Convertire… uscire

IV settimana T.Q.

Il cammino verso la Pasqua sembra conoscere una visibile accelerazione. In realtà la cosa più importante non è registrare il peggiorare della situazione tra il Signore Gesù e i notabili del popolo che porterà alla condanna del Signore, quanto piuttosto fare un passo in più nella nostra sequela del Signore per essere intimamente partecipi del suo mistero pasquale. Le parole del profeta Isaia indicano la direzione necessaria alla nostra esperienza di conversione: <dire ai prigionieri: “Uscite”, e a quelli che sono nelle tenebre: “Venite fuori”> (Is 49, 9). Siamo noi i primi ad essere chiamati a vivere questo parto interiore che ci permetta di riprendere a vivere in pienezza. Per osare il passo di quella rinascita così necessaria per evitare di essere morti, mentre siamo ancora apparentemente vivi, è necessario essere animati da una fiducia senza la quale persino le cose più semplici, naturali e scontate rischiano di diventare così difficili da sembrare impossibili. Il profeta ci rammenta come la nostra vita è un miracolo di fiducia e di cura: <Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai> (49, 15).

Il Signore Gesù non ci parla di sua madre, ma ci parla a lungo di colui che chiama <Padre mio> (Gv 5, 17). La relazione di intimità tra Gesù e il Padre è, soprattutto per il quarto Vangelo, il termine di dissidio con scribi, farisei e dottori della Legge che sembrano non poter sopportare una tale intensità di rapporto personale che, naturalmente, relativizza radicalmente la loro pretesa di essere i garanti di una possibile relazione con l’Altissimo. Il Signore non fa mistero della sua consapevolezza e della sua esperienza di “divina maternità” che non ammette nessuna intrusione: <Il Padre infatti ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa e gli manifesterà opere ancora più grandi di queste, perché voi ne siate meravigliati> (Gv 5, 20). Mentre prosegue il nostro cammino di conversione, siamo oggi chiamati a fare una sorta di esame di coscienza sulla nostra relazione con il Padre del Signore nostro Gesù Cristo. È, infatti, questa intimità – amata e coltivata – che rappresenta il fondamento stabile e inviolabile della nostra vita. È questa consapevolezza di un amore invincibile e intoccabile che ha dato al Signore Gesù la forza per sopportare il rifiuto, l’umiliazione e la morte. 

Il grande annuncio <viene l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce> (5, 28) non riguarda prima di tutto i morti, né si riferisce alla risurrezione finale, ma tocca la nostra esperienza quotidiana di essere continuamente richiamati ad una fiducia nella vita che non sarebbe possibile senza una rinnovata fiducia in un amore che ci precede, ci accompagna, ci attende. Allora non si può che accogliere e fare nostra l’esultazione profetica: <Giubilate, o cieli, rallegrati o terra, gridate di gioia o monti, perché il Signore consola il suo popolo e ha misericordia dei suoi poveri> (Is 49, 13). Nella sensibilità ebraica consolare significa far respirare, allargare i polmoni e questo diventerà il nome proprio del Consolatore che in noi è germe di vita così piena da essere eterna.

Convertire… in annunzio

IV settimana T.Q.

A partire da questa quarta settimana di Quaresima e con il racconto del <funzionario del re> (Gv 4, 46) che abbiamo ascoltato ieri, il vangelo secondo Giovanni diventa la nostra guida per queste prossime dieci settimane… fino a Pentecoste. La Chiesa ci affida quasi continuamente alla cura del quarto vangelo proprio perché già <in questo tempo di penitenza e di preghiera> possiamo e sappiamo essere disposti a <vivere degnamente il mistero pasquale e a recare il lieto annuncio della tua salvezza> (Colletta). La nostra stessa esperienza di penitenza e di conversione sembra essere chiamata a diventare – in se stessa – l’aurora di quell’annuncio di incontenibile gioia che profumerà il mattino di Pasqua. Per il quarto vangelo il profumo della vita e della vittoria pasquale avvolge l’esperienza del Signore Gesù da sempre e per sempre, da ciò che precede il <principio> (Gv 1, 1) e oltre i <segni scritti in questo libro> (20, 30)

È lui il <tempio> (Gv 2, 21) che il profeta Ezechiele contempla nella sua ultima visione ed è proprio dal suo amabilissimo corpo squarciato sulla croce che vedremo uscire <acqua verso oriente> (Ez 47, 1). Un’acqua che si è trasformata in un <fiume che non potevo attraversare> (47, 5) e che pure accetta di essere per noi come <una piscina> (Gv 5, 2), anzi un abbraccio. Infatti, in <un giorno di festa per i Giudei> (5, 1) il Signore Gesù, si reca presso <la porta delle Pecore… sotto la quale giaceva un gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici> (5, 3). Da questo elenco il Signore non può che scegliere – come sempre e secondo la sua logica – un uomo che appartenga all’ultima delle categorie elencate. A questo che non ha <nessuno> che lo <immerga nella piscina, quando l’acqua si agita> (5, 7) il Signore si offre come la <sponda del fiume> (Ez 47, 6). Quest’uomo, abituato a vedere sempre qualcuno di cui può dire <scende prima di me> (Gv 5, 7) si ritrova come preso in una corrente mai conosciuta prima: uno sguardo e una parola che, solo e soltanto per lui, sono in grado di interpretare ciò che da <trentotto anni> (5, 3) spera di ricevere da questo strano e forse superstizioso fenomeno dell’acqua che si <agita> (5, 7).

Stupendamente il Signore Gesù accetta di mettersi al livello di questa pecora piccina, sola, abbandonata e cui non rimane che sperare in qualcosa di “magico”. Il Signore gli rivolge la parola che lo rende fino in fondo uomo ancor prima di raddrizzarlo nel suo corpo: <Vuoi guarire?> (5, 6). Possiamo immaginare la sorpresa nell’essere interrogati in modo così degno. Forse una sorpresa ben più grande di ciò che gli viene detto dopo: <Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina> (5, 8). Il Signore Gesù è un fiume <d’acqua viva> (7, 38) che invece di aspettare che il paralitico si immerga lo inonda come un <torrente> (Ez 47, 11) che risana e fa rivivere. Sì, la presenza del Signore inonda come una <medicina> (47, 12) e rimette in piedi, trasformando il lungo tempo della paralisi in una vera convalescenza che conduce a perfetta e duratura guarigione. Nonostante tutto quello che dicono i Giudei, come si potrebbe mai più separare quest’uomo dal suo <lettuccio> (il termine compare ben 5 volte) che, da essere il segno della sua disgrazia e del suo peccato, è divenuto il trofeo del suo essere veramente <guarito> (Gv 5, 14)? Impariamo da questo paralitico e facciamo del “lettuccio” su cui siamo stati a lungo paralizzati il segno di una <medicina> da <recare ai fratelli come lieto annunzio>.

Convertire… è scendere

IV settimana T.Q.

Potremmo a ragione dire che ormai la vita del Signore Gesù è tutta in salita – come spesso abbiamo l’impressione che sia pure la nostra vita su questa terra – e, nel cuore di Cristo, vi è piena e piana coscienza di tutto ciò: <egli stesso aveva dichiarato che un profeta non riceve onore nella sua patria> (Gv 4, 44). Lo stesso Signore Gesù come e in comunione con ciascuno di noi è chiamato ad una sottile conversione: imparare che salire è scendere. La grande visione del profeta nella prima lettura di oggi: <Ecco, io creo nuovi cieli e nuova terra; non si ricorderà più il passato, non verrà più in mente, poiché si godrà e si gioirà sempre di quello che sto per creare> (Is 65, 17-18), trova il suo giusto contesto proprio nel dinamismo della scuola quaresimale. Attraverso l’apprendimento che ci viene offerto dalla liturgia, ciascuno di noi è condotto a rendersi conto di come la gioia, che nessuno e niente può <togliere> (Gv 16, 23), è proprio quella che radica in un rinnovamento profondo della logica cui obbedisce la nostra vita animata dal nostro desiderio più forte e più profondo. Come dice il salmo: <alla sera sopraggiunge il pianto e al mattino ecco la gioia> (Sal 29, 6). Non si può conoscere l’emozione del mattino senza aver saputo attraversare la paura della notte; non si può conoscere la pace senza aver assunto tutto il peso del turbamento.

Per ben tre volte, nel vangelo di oggi ritorna il verbo <scendere> (Gv 4, 47). Infatti <il secondo miracolo> (4, 54) del Signore Gesù nel vangelo di Giovanni avviene sempre a <Cana di Galilea, dove aveva cambiato l’acqua in vino> (4, 46) su richiesta della madre sua ed è come risposta – ancora una volta – ad una richiesta in favore di terzi. In questo caso da parte di un funzionario del re, che, più profondamente e veramente, è un padre che implora per il suo figlio: <Signore, scendi prima che il mio bambino muoia> (5, 49). La promessa del profeta: <Non ci sarà più un bimbo che viva solo pochi giorni> (Is 65, 20) è come se diventasse – attraverso l’angoscia di quest’uomo – l’occasione perché il Signore Gesù si riveli – e in verità – come <un profeta> (Gv 4, 44). Il Signore Gesù ac-con-discende con la sua parola che tramuta questa volta l’imminente morte in aurora di vita. Questo cambiamento del <lamento in danza> (Sal 29, 12) avviene <proprio mentre scendeva> (Gv 4, 51).

La parola del Signore rivolta al funzionario del re: <Va’ tuo figlio vive> (4, 50) sembra farsi lontana profezia di ciò che non sarà udito in quel terribile pomeriggio che si tramuterà in notte fonda sul Calvario: salire è scendere e questo va fatto senza prove, ma mettendosi <in cammino> (4, 50) come Abramo con il suo figlio Isacco verso il Moria; come quest’uomo per il suo figlio già in viaggio verso gli inferi; come ciascuno di noi che è pellegrino verso <nuovi cieli e terra nuova> (Is 65, 17). Forse pensavamo di dover salire e invece si tratta sempre e solo di scendere come il sole <dopo mezzogiorno> (Gv 4, 52). Non è difficile immaginare la trepidazione di questo padre mentre torna a casa senza <segni e prodigi> (4, 48), contando solo su una parola chiaramente esagerata e come sospeso sul baratro di una difficile fiducia. Eppure, solo così anche per ciascuno di noi <il passato non verrà più in mente> (Is 65, 17) e la paura non sarà più la nostra tomba prima ancora che la morte ci abbia raggiunto. Il Signore Gesù non ci guarisce con gesti portentosi e parole incantatorie, ma lo fa <semplicemente con la sua sensibilità che testimonia un segreto conosciuto solo da lui: il Regno di Dio che viene è la misericordia>1.


1. J. GILLET, Jésus devant sa vie et sa mort, Aubier, p. 115.

Convertire… in manna

IV Domenica T.Q. 

La Liturgia di questa domenica si apre con una solenne proclamazione da parte del Signore Dio al suo servo Giosuè nel momento in cui finalmente i piedi e i cuori degli Israeliti toccano finalmente la terra santa delle più sante promesse: <Oggi hi allontanato da voi l’infamia dell’Egitto> (Gs 5, 9). Il segno di un cammino compiuto e di una Pasqua interamente realizzata non sono come fuga dalla terra delle umiliazioni, ma anche come possibilità di pieno esercizio della propria libertà e creatività suona così: <E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan> (5, 12). Ciò vuol dire che da quel giorno il popolo dovette cominciare a lavorare la terra perché essa potesse dare la pienezza dei suoi frutti. L’esperienza del cammino nel deserto in cui il popolo riceve dal cielo il nutrimento di ogni giorno non è che la porta di ingresso in quella ordinarietà in cui ognuno è chiamato a ritornare al proprio lavoro, alla propria creatività, alla propria responsabilità.

Questo testo del libro di Giosuè scelto dalla Liturgia per introdurci alla lettura di una delle pagine più commoventi non solo delle Scritture ma di tutta la letteratura universale, ci aiuta ad intuire ciò che non è scritto e a osare una risposta alla collera del figlio maggiore della parabola. Si potrebbe glossare così e osare una conclusione che non è scritta: <E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato il vitello grasso e trascorso la notte a danzare, la festa cessò e ricominciò la vita ordinaria di lavoro e di condivisione della fatica>. In tal modo verrebbe a cadere l’scandalo adirato del figlio maggiore che si sente così ferito dalla benevolenza paterna che rischia di essere, ai suoi occhi, un segno di debolezza e quasi l’approvazione della condotta trasgressiva del figlio minore a detrimento della dedizione del maggiore: <Il figlio maggiore si trovava nei campi…> (Lc 15, 25). Anche il figlio minore dovrà riprendere la vita <nei campi>, ma non prima di aver gustato fino in fondo la <manna> di quella misericordia che, allontanando dalla sua vita e dal suo cuore, il minimo segno di <infamia> gli permetterà di riprendere la vita di sempre come una <creatura nuova>> (2Cor 5, 17).

Le parole del padre non sono una giustificazione della trasgressione, ma risuonano come l’accoglienza necessaria della realtà, unica e non moltiplicabile, di ciascuno dei suoi figli perché ognuno possa aprirsi a cose <nuove> senza essere prigioniero delle <cose vecchie>. Non bisogna però dimenticare che <vecchie> possono diventare persino le cose più buone e più sante se non sono continuamente rinnovate e rinvigorite nella giovinezza di un amore continuamente riconquistato e ritrovato. Così veniamo a scoprire che il più giovane della famiglia è proprio il padre il quale <gli corse incontro, gli si getto al collo e lo baciò> (Lc 15, 20). Come ricorda in uno scritto ormai classico uno degli autori più rilevanti del nostro tempo: <Quando guardo al mio essere perduto con gli occhi di Dio e scopro la gioia di Dio a causa del mio ritorno a casa, allora la mia vita può diventare meno angosciata e più fiduciosa>1.


1. H. NOUWEN, Le retour de l’enfant prodigue, Albin Michel, Paris 2008, p. 169.

Convertir… en manne

IV Dimanche T.Q. –

La Liturgie de ce dimanche s’ouvre par une proclamation solennelle de la part du Seigneur Dieu adressée à son serviteur Josué au moment où, finalement, les pieds et les coeurs des Israélites touchent la terre sainte des plus saintes promesses : «  Aujourd’hui, j’ai éloigné de vous l’infamie de l’Egypte » ( Js 5, 9 ). Le signe d’un cheminement accompli et d’une Pâques réalisée n’est pas fuite de la terre des humiliations, mais aussi possibilité  du plein exercice de sa propre liberté et créativité, ce signe se traduit ainsi : «  Et, à partir de ce jour, comme ils avaient mangé les produits de la terre, la manne cessa. Les Israélites n’eurent plus de manne ; et cette année, ils mangèrent les fruits de la terre de Canaan » ( 5, 12 ). Ce qui signifie, qu’à partir de ce jour, le peuple dut commencer à travailler la terre afin qu’elle puisse donner des fruits en abondance L’expérience du cheminement dans le désert où le peuple reçoit du ciel la nourriture de chaque jour, n’est que la porte d’entrée du quotidien ordinaire où chacun est appelé à retourner à son travail, à sa créativité et à ses propres responsabilités.

Ce texte du livre de Josué choisi par la Liturgie pour nous introduire à la lecture de l’une des plus émouvantes pages non seulement des Ecritures, mais de toute la littérature universelle, nous aide à deviner ce qui n’est pas écrit et à esquisser une réponse à la colère du fils aîné de la parabole. L’on pourrait résumer ainsi et oser une conclusion, non écrite : «  Et, à partir du jour suivant, comme ils avaient mangé le veau gras et passer la nuit à danser, la fête cessa et leur vie ordinaire de travail et de partage de la fatigue recommença « . Ainsi, le scandale de la colère du fils aîné s’évanouirait, lui qui se sent si blessé par la bienveillance paternelle qui risque d’être, à ses yeux, un signe de faiblesse, pour ne pas dire l’approbation de la conduite transgressive du fils cadet, au détriment du dévouement de l’aîné : «  Le fils aîné se trouvait aux champs… » ( Lc 15, 25 ). Le fils cadet devra aussi reprendre la vie «  aux champs », mais pas avant d’avoir goûté entièrement la «  manne » de cette miséricorde qui, en éloignant de sa vie et de son coeur le moindre signe «  d’infamie », lui permettra de reprendre la vie de toujours comme une «  créature nouvelle » ( 2 Co 5, 17 ).

Les paroles du père ne sont pas une justification de la transgression, mais résonnent comme l’accueil nécessaire à la réalité, unique et non démultipliée de chacun de ses fils, afin que chacun puisse s’ouvrir à « la nouveauté » sans être prisonnier de « l’ancien ». Il ne faut pourtant pas oublier que «  ancien »  peut aussi désigner les meilleures choses et les plus saintes si elles ne sont pas continuellement rénovées et revigorées par la jeunesse d’un amour continuellement reconquis et retrouvé. Ainsi nous arrivons à découvrir que le plus jeune de la famille est vraiment le père qui «  courut à sa rencontre, se jeta à son cou et l’embrassa » ( Lc 15, 20 ). Comme nous le rappelle l’un des auteurs les plus connus de notre temps dans une phrase désormais classique : «  Lorsque, perdu, je me regarde avec les yeux de Dieu et que je découvre la joie de Dieu à cause de mon retour à la maison, alors, ma vie peut devenir moins angoissée et plus confiante »1.


1. H. NOUWEN, le retour de l’enfant prodigue, Albin Michel, Paris 2008, p. 169

Convertire… in fasce

III settimana T.Q.

Il profeta Osea non ha dubbi sull’atteggiamento fondamentale del Signore nei nostri confronti: <egli ci ha straziato ed egli ci guarirà. Egli ci ha percosso ed egli ci fascerà> (Os 6, 1). Il Signore Gesù non lascia alcun dubbio: <Io vi dico: questi a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato> (Lc 18, 14). Così esorta Giovanni Crisostomo: <Rivela la tua coscienza in presenza di Dio, mostragli le tue piaghe e implora da lui i rimedi; rivolgiti all’Altissimo non come giudice, ma come medico>1.

Ormai a metà del cammino quaresimale e mentre la marcia verso la Pasqua si fa corsa ardente e appassionata per reimmergerci nel mistero pasquale di Cristo Signore, siamo chiamati a fare sempre più ricorso alle fasce della misericordia senza dimenticare di essere i primi ad averne bisogno. Se, infatti, le fasce del giudizio stritolano la possibilità di conversione e di crescita dei nostri fratelli, le fasce della misericordia fanno sentire al caldo e al sicuro quanti sono ancora neonati nel cammino di fede, tanto da dare loro il coraggio del cambiamento. Così pure le fasce della misericordia permettono a quanti sono feriti a causa della debolezza della volontà e della fragilità nelle proprie scelte, di avere il tempo di lasciare che le piaghe non si infettino e possano gradualmente guarire fono ad essere perfettamente risanate. L’atteggiamento del fariseo è fasciato nelle bende di una mummificazione che non ammette crescita e quindi non spera nelle possibilità della vita.

Il pubblicano è così consapevole della propria fragilità da essere capace di chiedere aiuto tanto che <si batteva il petto> (18, 13). Con questo gesto, che spesso ripetiamo all’inizio della celebrazione eucaristica, si manifesta una conoscenza umile e vera del proprio cuore nemica di ogni mistificazione irrealistica che è il primo passo della superbia. La <conoscenza di Dio> (Os 6, 6) reclamata dal profeta comincia sempre con un passo di lucidità su noi stessi che esige la capacità di andare oltre noi stessi per aprirci ad un incontro così intimo con il Signore capace di mettere in luce la verità del nostro cuore senza che questo ci spezzi interiormente, ma, al contrario, ci rimetta in piedi senza cedere alla vanagloria. A ben pensarci, la boria di questo povero fariseo che non solo elenca davanti a Dio tutte le sue prodezze spirituali ma ha un bisogno incontrollabile di elencare pure le malefatte del suo vicino, nasconde un disagio che lo porta a moltiplicare le parole tradendo, così, le sue inquietudini più profonde, seppur ben mascherate. Il Signore predilige chiaramente l’atteggiamento del pubblicano non perché preferisca la trasgressione alla giustizia, ma perché ama di più una relazione fatta di verità piuttosto che un modo di porsi davanti a lui mascherando il proprio bisogno di essere accolti e di essere sempre perdonati e amati. La conoscenza di Dio, di cui ci parla il profeta, passa sempre attraverso la conoscenza di noi stessi che non può mai essere presuntuosa, ma sempre umile perché desiderosa di un contatto vero che comporta sempre la capacità di assumere la nostra povertà di creature davanti alla bontà del nostro Creatore che continuamente ci fascia con la sua misericordia.


1. GIOVANNI CRISOSTOMO, L’incomprensibilità di Dio, 5.

Convertire… le parole

III settimana T.Q.

Un testo così commovente come quello del profeta Osea ci introduce in un testo toccante come quello del Vangelo di questo venerdì di mezza quaresima. Il profeta della tenerezza ci trasmette una parola accorata dell’Altissimo: <Torna, Israele, al Signore, tuo Dio, poiché hai inciampato nella tua iniquità. Preparate le parole da dire e tornate al Signore> (Os 14, 3). Potremmo ripensare il nostro cammino quaresimale come un tempo in cui prepariamo e affiniamo le parole che vorremmo dire al Signore, senza accontentarci che siano solo parole. La sfida della Quaresima è di fare tutto il possibile perché le nostre parole siano espressione delle decisioni profonde del nostro cuore, tradotte ogni giorno in atteggiamenti e gesti concreti. Alla luce di questo possibile e desiderabile cammino, la domanda che risuona all’inizio del Vangelo sulla bocca di uno scriba è come una boccata d’aria pura in mezzo a tutte le domande trabocchetto cui siamo abituati da parte dei notabili del popolo: <Qual è il primo di tutti i comandamenti?> (Mc 12, 28). Alla domanda, il Signore Gesù risponde nel modo più semplice, il più tradizionale, per molti aspetti il più scontato. Eppure, questa parola scambiata è ben più che una semplice parola, è l’indizio di un dialogo sincero tra due cuori abitati dalla verità e disponibili ad un amore per Dio così autentico da farsi apertura attenta ad ogni creatura.

Lo scriba risponde in modo diretto e semplice: <Hai detto bene, Maestro, e secondo verità…> (12, 32). Il Signore non si lascia superare in generosità e ammirazione: <Non sei lontano dal regno di Dio> (12, 34). In poche battute le parole sono diventate capaci di trasmettere la vita e di aprire uno spazio di dialogo così reale da essere una profezia vissuta. Di tutto ciò l’amore è capace di creare e di rimettere continuamente in cammino come speranza possibile. Possiamo commentare questo incontro con le parole del profeta: <Ritorneranno a sedersi alla mia ombra, faranno rivivere il grano, fioriranno come le vigne, saranno famosi come il vino del Libano> (Os 14, 8). Come ebbe a dire Paolo VI: <La natura ci aiuta a dirigerci verso il bene; l’inclinazione, amore istintivo e sensibile, si fa atto di volontà: diventa così amore vero tanto da tradursi in una duplice operazione: la scelta e la forza. Così tutta la vita diventa amore, amore vero, amore puro, amore forte, amore felice>1.

Questo è l’unico modo e il più efficace per togliere <coraggio> (Mc 12, 34) a tutti i giocolieri delle parole sull’amore di Dio e del prossimo che però non fanno mai il passo della vita verso le esigenze proprie di ogni amore che sia degno di questo nome e veramente <vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici> (12, 33). L’immagine della <rugiada> dice bene quest’opera tenace e delicata, discreta ed efficace che non fa rumore, eppure è capace di far fiorire la terra riempiendola di un profumo di vita che inebria e consola. L’impegno e la vigilanza quaresimali potrebbero essere concentrati a fare la tara delle nostre parole per renderle sempre più capaci di trasmettere ciò che portiamo nel nostro cuore e non semplicemente l’argine alla paura di un vuoto che, spesso, riempiamo solo di chiacchiere vuote.


1. PAOLO VI, Catechesi del 20 Settembre 1972.

Convertire… vivere

III settimana T.Q.

Il libro del Deuteronomio non si accontenta di ribadire la necessità e le modalità di una promettente relazione con il Signore Dio che sia salvifica, ma né indica la motivazione più profonda e più attraente: <perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi> (Dt 4, 1). Queste parole del Deuteronomio possono offrirci un elemento in più per accogliere la parola del Signore Gesù che rischia di sembrarci troppo dura ed esigente: <Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli> (Mt 5, 19). Solo nella misura in cui diventiamo capaci di cogliere la portata dei minimi gesti e delle piccole scelte della nostra esistenza quotidiana, siamo capaci di creare uno spazio sempre più dilatato e adeguato per la vita. Inoltre, è proprio vero che la vita è sempre un’esperienza che, se autentica, non può che essere vissuta pienamente e condivisa generosamente. Una forma necessaria di condivisione è proprio la trasmissione che riguarda non solo la vita come possibilità biologica, ma prima ancora come bagaglio di sapienza. In tal senso l’esortazione finale della prima lettura tocca in modo particolare la nostra generazione tentata di consumismo esistenziale tanto da essere poco preoccupata di lasciare un’eredità vivibile: <Ma bada a te e guardati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno visto, non ti sfuggano dal cuore per tutto il tempo della tua vita> e aggiunge <le insegnerai anche ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli> (Dt 4, 9).

Il cammino della conversione, per cui ci impegniamo in modo particolare nel tempo quaresimale, non è una mortificazione fine a se stessa, ma un vero processo di dilatazione che esige la decisione verso quel <pieno compimento> (Mt 5, 17) che se è tutto donato è sempre tutto da compiere nella verità e nella realtà concreta della vita di ogni giorno. Il ritornello del Deuteronomio ci richiama alla concretezza per evitare ogni deriva ideologica e illusoria: <Le osserverete dunque, e le metterete in pratica, perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli> (Dt 4, 6). La parola del Deuteronomio cerca di arginare in tutti i modi quel morbo che rischia di paralizzare fino ad uccidere la vita di relazione con Dio, con se stessi e con gli altri: si tratta della dimenticanza! Il primo sintomo dell’insorgere di questa malattia, che può veramente mettere in pericolo il nostro cammino di fede, è un senso di distanza. 

Al contrario di ciò, il Deuteronomio insiste nel sottolineare come la storia della salvezza, che passa attraverso un continuo rinnovarsi dell’Alleanza, si basa su una diversa percezione della relazione tra l’Altissimo e la nostra umanità ed è questo che fa la differenza. Nella prima lettura il messaggio è chiaro: <Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?> (Dt 4, 7). A partire da questa parola del Deuteronomio, potremmo così dire che il ruolo del Signore Gesù non è quello di sostituire, né tantomeno di <abolire> (Mt 5, 17) quanto, piuttosto, di dare <compimento> a questa inenarrabile esperienza di prossimità e di vicinanza. Eppure, come ogni vicinanza che ci è dato di sperimentare nelle nostre umane relazioni, siamo chiamati a prendere coscienza – talora così dolorosamente – di differenze profonde che bisogna imparare ad accettare e di cui bisogna portare il peso con amore e con rispetto.

Messia?

Annunciazione del Signore –

La solennità dell’Annunciazione del Signore si sposa con i profumi della primavera e ci riporta all’inizio di quel mistero di rivelazione in Cristo dell’amore del Padre che segna la nostra esperienza di Dio e la rifonda. Come il profeta Isaia anche noi spesso abbiamo quasi paura di osare l’audacia di chiedere per comprendere meglio e convertire la nostra vita per renderla sempre più conforme al cuore dell’Altissimo: <Non lo chiederò, non voglio tentare il Signore> (Is 7, 12). Acaz sembra spaventato all’idea di poter dialogare con Dio secondo l’invito del profeta. Nel momento dell’annunciazione, Maria non teme, invece, di porre domande a Gabriele senza aver paura né di manifestare il suo turbamento, né di porre le domande che sorgono nel suo cuore davanti ad un annuncio che stravolge la sua vita: <Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?> (Lc 1, 34). Maria diventa l’icona della nostra chiamata ad essere credenti perché capaci di aprirci fino a lasciarci disturbare e cambiare dall’<impossibile> (1, 37). Ciò che Gabriele annuncia a Maria non è il privilegio della sua divina maternità, quanto piuttosto la sorprendente bellezza di un Dio che vuole essere <con noi> (Is 8, 10) aspettando di essere accolto da noi per essere ridonato a tutti. La parola della Lettera agli Ebrei suona come un monito: <è impossibile che il sangue di tori e di capri elimini i peccati> (Eb 10, 4).

Le parole di Maria sono diventate un modello di adesione per ogni discepolo: <Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola> (Lc 1, 38). In questa identificazione di Maria nella figura della <serva del Signore> si fa spazio all’incarnazione – nel senso più lato che può avere questo termine – di Colui che si rivelerà come Messia-Servo spogliato di ogni falsa attesa messianica infarcita di potere e di riscossa. Come spiega Raimon Panikkar in Maria si supera quella <messianite> che è <un’antica malattia ebraica, una sorta di cronica infiammazione delle ghiandole ebraiche della speranza>. Parlando degli esseni di Qumran che incarnavano l’attesa messianica più pura ma anche più aggressiva dei tempi di Gesù, Panikkar annota: <Essi andarono nel deserto per pregare, anzi per spronare Dio, o piuttosto il Messia, a venire giù dal cielo attraverso l’ascesi, la continenza, l’osservanza minuziosa di tutti i comandamenti e i divieti della Bibbia>. La conclusione sembra strana: <Sfortunatamente la cosa non è riuscita>1. Ed è così perché l’incarnazione del Verbo nel seno e nella vita di Maria si rivela come un’operazione non ascetica e non asettica, ma assolutamente ordinaria e discreta tanto che il peccato che ci ha allontanato da Dio può essere giustamente inteso come una <diminuzione del divino in ciascun uomo, la contrazione dell’infinito in ogni situazione>2. Con l’assenso di Maria alle parole dell’angelo tutto cambia perché la presenza di Dio è di nuovo accolta in tutta la sua differenza senza essere percepita più come estranea, ma come la realtà più intima, la più familiare, la più carnale proprio come una madre avverte nel proprio corpo il mistero del crescere di un corpo diverso e per nulla estraneo. Per questo l’autore della Lettera agli Ebrei può dire con entusiasmo: <Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo una volta per sempre> (Eb 10, 10). Ora tocca a noi!


1. R. PANIKKAR, Parliamo dello stesso Dio?, Jaca Book, Milano 2014, p. 37

2. Ibidem, p. 66. 

Convertire… il pensiero

III settimana T.Q.

Il cammino del Signore Gesù e il suo mistero pasquale, in cui si rivela integralmente il suo ministero salvifico per tutta l’umanità, risultano chiaro sin dall’inizio tanto che il suo destino di croce più che una sorpresa è il coronamento di un processo: <passando in mezzo a loro, si mise in cammino> (Lc 4, 30). Siamo a Nazaret in occasione del ritorno di Gesù nella sua terra e tra i suoi concittadini nella pienezza della sua coscienza e agli inizi ardenti della sua predicazione. Le cose sono dure sin da subito, tanto che <Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù> (4, 29). In un modo diverso – ma non poi così diverso – si ripete la tentazione del diavolo che lo aveva condotto in alto spingendolo a buttarsi giù per dimostrare di essere una persona straordinaria. Alle grandi dimostrazioni sembra proprio che il Signore preferisca i passi semplici di un cammino ordinario, banale, e per molti aspetti, scontato. A confermare questa attitudine interiore, nemica di ogni spettacolarità, il Signore evoca le figure della vedova di Sarèpta e quella di Naaman il Siro. Questa donna incontrata per strada dal profeta Elia diventa il segno di una capacità di assumere il reale con una docilità così profonda da andare oltre l’evidenza fino a cambiarlo. La memoria di Naaman il Siro ci riporta al mistero di una guarigione necessaria da ogni inutile attesa di straordinarietà che riempie di sdegno Naaman: <Ecco, io pensavo…> (2Re 5, 11).

Sicuramente anche gli abitanti di Nazaret pensavano tante cose di Gesù e su Gesù tanto da aspettarsi ben più di un semplice commento alla Parola di Dio del giorno. Eppure, per il Signore sembra bastare questo: riprendere a camminare, ogni giorno, con un’intelligenza sempre più profonda delle Scritture che permette di impastare, quotidianamente, il pane dell’esistenza fino a farlo lievitare nella pazienza delle piccole cose, cuocerlo nel forno della pazienza quotidiana e condividerlo come il nutrimento di ogni giorno per il passo di ogni giorno. Ad aiutare Naaman in quest’accoglienza dell’ordinarietà sono proprio i suoi servi: <Padre mio, se il profeta ti avesse ordinato una gran cosa, non l’avresti forse eseguita? Tanto più ora che ti ha detto: “Bagnati e sarai purificato”> (5, 13). A questa parola accorata dei servi sembra fare eco quella rivolta dal Signore Gesù ai suoi vicini di casa: <In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria> (Lc 4, 24).

Infatti, non si tratta di sedurre, né di attrarre, né, tantomeno, di ammaliare, bensì di vivere a servizio della verità intesa come intelligenza semplice del reale, in cui siamo chiamati ad accogliere le indicazioni per il nostro cammino di obbedienza e di purificazione. Senza dubbio l’evocazione di Naaman è un modo per preparare i catecumeni al battesimo e aiutare i battezzati a non dimenticare di doversi immergere ogni giorno nei battesimi quotidiani che la vita richiede e cui, talora, obbliga fino a farci ritornare ad avere sono solo <un corpo di ragazzo> (5, 14), ma un animo di piccolo che si sa consegnare. Nel quotidiano della nostra vita siamo chiamati a scegliere tra la fiducia e la pretesa, tra la consegna vivificante di noi stessi e il ripiegamento mortifero su noi stessi.