E’ lui!

XXVII settimana T.O.

La parabola che il Signore Gesù racconta è la riposta ad una domanda che si fa più precisa e in cui quasi si esprime il bisogno di essere assolti dal dovere di doversi prendere troppa cura dell’altro. Il dottore della Legge chiede dapprima: <che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?> (Lc 10, 25). Il Signore Gesù lo rimanda semplicemente all’osservanza della Torah intesa come le due tavole dell’amore per Dio e per il prossimo. Allora <volendo giustificarsi> il dottore chiede a Gesù <E chi è mio prossimo?> (10, 29). Una domanda che a noi potrà sembrare inutile e invece dice la duplice fatica quotidiana a guardare gli altri come “prossimo” e, soprattutto, a farci, in prima persona e a proprio rischio, prossimo per gli altri. Quando il Signore Gesù racconta questa parabola, in realtà, parla di se stesso e ci racconta la sua storia: la ragione e i modi con cui egli si è avvicinato a noi fino a farsi carico delle nostre ferite e delle nostre debolezza curandoci con la sua <compassione> (10, 33).

Gregorio di Nissa commenta questo passo del Vangelo come un gesto non di elemosina, ma come un gesto nuziale e amoroso: <La Sposa del Cantico mostra colui che cercava dicendo: “Ecco colui che cerco, colui che per diventare nostro fratello è salito dal paese di Giuda. E’ diventato amico di colui che era caduto nelle mani dei briganti: ha guarito le sue piaghe con olio, vino e fasciature; l’ha fatto salire sulla propria cavalcatura; l’ha fatto riposare all’albergo; ha pagato due pezzi d’argento per il mantenimento; ha promesso di dare al suo ritorno quanto fosse stato speso in più per compiere i suoi ordini”. Ognuno dei particolari ha un significato evidente>. Questo significato lo si potrebbe riassumere con le parole roventi dell’apostolo Paolo: <Vi dichiaro, fratelli, che il Vangelo, da me annunciato non segue un modello umano> (Gal 1, 11). Il Vangelo della compassione diventa il modello del nostro processo di umanizzazione che non è altro che un recupero della nostra divina integrità.

Lo stesso padre della Chiesa continua dicendo: <Il Verbo allora gli espone, sotto forma di un racconto, tutta la storia santa della misericordia: racconta la discesa dell’uomo, l’imboscata dei briganti, la perdita della veste incorruttibile, le ferite del peccato, l’appropriazione da parte della morte di metà della nostra natura (poiché la nostra anima è rimasta immortale), il passaggio inutile della Legge (poiché né il sacerdote né il levita hanno curato le piaghe di colui che era caduto nelle mani dei briganti)>. E conclude così: <Col suo corpo, come cavalcatura, è andato là dov’è la miseria dell’uomo. Ha guarito le sue piaghe, l’ha fatto riposare su di sé ed ha fatto per lui della sua misericordia un albergo, dove tutti quelli che sono affaticati e oppressi trovano il ristoro (Mt 11.28)1. Dopo tutto ciò rimane solo una parola che rischia di essere la bilancia su cui pesare tutto il senso della nostra esistenza: <Va’ e anche tu fa’ così> (Lc 10, 37).


1. GREGORIO DI NISSA, Omelia 15^ sul Cantico dei Cantici.

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