Cuore
I settimana T.O. –
Nella prima lettura ricorre più volte il riferimento al cuore e sembra che sia proprio là che si annida la lebbra che rischia di ammalare tutta la nostra vita. L’autore della Lettera agli Ebrei non ha dubbi nel mettere direttamente sulle labbra dello <Spirito Santo> l’esortazione iniziale: <Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori come nel giorno della ribellione> (Eb 3, 7). Dopo ciò ci fa menzione del pericolo sempre incombente di avere in realtà <un cuore sviato> (3, 10) cui segue una viva supplica: <Badate, fratelli, che non si trovi in nessuno di voi un cuore perverso e senza fede che si allontani dal Dio vivente> (3, 12). Al cuore di questa consapevolezza di avere potenzialmente un cuore malato perché sempre nel rischio di allontanarsi da Dio, possiamo riconoscere di avere a nostra volta bisogno di purificazione, di guarigione, di salvezza. Il primo passo per ritrovare la via della vita è, prima ancora di chiedere e di supplicare, mettersi <in ginocchio> (Mc 1, 40). Con questo semplice gesto del corpo è come se il nostro cuore ritrovasse non solo il suo giusto posto, ma pure ritrovasse il suo giusto peso.
Lo ricorda uno psicanalista contemporaneo quando, evocando il compito di trasmettere ai propri figli la sapienza della preghiera così annota: < Per pregare – questo ho trasmesso ai miei figli – bisogna inginocchiarsi e ringraziare. Di fronte a chi? A quale Altro? Non so rispondere e non voglio rispondere a questa domanda. E i miei figli d’altronde, non me la pongono. Quando me lo chiedono, pratichiamo insieme quello che resta della preghiera: preserviamo lo spazio del mistero, dell’impossibile, del non tutto, del confronto con l’inammissibilità dell’Altro>1. Questo spiegherebbe l’ingiunzione del Signore Gesù al lebbroso appena guarito: <Guarda di non dire niente a nessuno> (Mc 1, 45). Infatti, è necessario preservare quello spazio di intimità e di segreto in cui sperimentiamo non solo di essere malati e bisognosi di purificazione, ma pure in cui custodiamo l’esperienza – ancora più intima e rara – di conoscere il dono di una relazione che ridona al nostro cuore la sua morbidezza e il suo pieno funzionamento.
Ai tempi del Signore Gesù essere lebbrosi non significava semplicemente essere malati, ma indicava uno stato di maledizione da parte di Dio che comportava il fatto di essere una minaccia e un pericolo per gli altri. L’incontro con il Signore Gesù fa superare ambedue questi terribili steccati che potevano fare della vita già un’esperienza di morte per cui il lebbroso viene reintegrato nella vita di tutti cominciando ad essere reintegrato nella sua relazione a Dio con quel semplice atto – così umanizzante – del mettersi in ginocchio a pregare e a supplicare. Un gesto apparentemente banale che indica, invece, come la malattia non ha vinto totalmente, proprio perché è stato preservato un piccolo ma decisivo spazio di trascendenza.
1. M. RECALCATI, Cosa resta del padre?, Cortina Raffaello, 2011, p. 12.
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!