Convertire… lo sguardo
I settimana T.Q. –
Forse non riflettiamo mai abbastanza su quanto sia importante nella nostra vita quotidiana lo sguardo. Per comprendere meglio questo dovremmo dialogare con una persona ipovedente al fine di comprendere quanto sia importante quello che vediamo continuamente non solo durante le nostre ricche giornate, ma persino di notte mentre sogniamo. Il Signore Gesù, con la parabola che leggiamo nella liturgia, ci chiede di mettere sotto esame il nostro modo di guadare verso gli altri chiedendoci non solo di andare oltre le apparenze, ma, ancor più profondamente, di essere in grado di vedere oltre ciò che si vede e ancora più oltre ciò che l’altro ci mostra di se stesso. Naturalmente questo vale anche per noi stessi nei riguardi degli altri. La parola del Levitico è un invito forte a mettere tutta la nostra esistenza in cammino verso la santità: <Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo> (Lv 19, 2). Nella prima lettura troviamo che le conseguenze di questo impegno a farsi imitatori di Dio tocca la vita in tutti i suoi aspetti, ma soprattutto per quanto riguarda il nostro modo di entrare in relazione con gli altri: <né metterai inciampo davanti al cieco> (19, 14).
Il Signore Gesù rende questo atteggiamento di attenzione, di sensibilità nei confronti di chi è più povero e bisognoso ancora più radicale e lo fa assolutizzando – fino alle sue estreme conseguenze – il regime dell’incarnazione che diventa così uno stile esigente e irrinunciabile di relazione: <In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me> (Mt 25, 40). Questa identificazione tra il Cristo e il piccolo che incontriamo sulla nostra strada, rende le cose più difficili, ma anche più belle. L’amore, con le sue esigenze di attenzione e di decisione nella compassione, non è più programmabile o limitabile alle nostre previsioni, ma è una continua sorpresa che esige la capacità di lasciarsi sorprendere fino a farci radicalmente scomodare da tutte quelle abitudini e atteggiamenti con cui abbiamo, giorno dopo giorno, messo al sicuro la nostra vita dalla prova della verità nell’attenzione a ciò che è più debole e più piccolo.
La parola di accoglienza e di riconoscimento da parte del re più che un premio suona come una constatazione soddisfatta del Maestro che riconosce nei suoi discepoli un cammino veramente compiuto proprio quando sono diventati più sensibili al mistero dell’altro, soprattutto quando non può imporsi in nessun modo: <Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo> (25, 34). La parola con cui l’Altissimo dice <Io sono il Signore> diventa la porta e lo stampo perché noi possiamo, in verità, dire davanti a Lui: “Io sono l’uomo” che tu hai creato.
L’ultima parola della prima lettura <ama il prossimo tuo come te stesso> diventa per il Vangelo ancora più radicale tanto da poter risuonare quasi come <amalo più di te stesso>. In ogni modo sembra che l’unico peccato imperdonabile sarà la cecità nei confronti del fratello quando la vita lo rende <piccolo>. Questo è il primo passo per accogliere la totalità di noi stessi quando siamo obbligati ad accogliere ciò che in noi è più povero e più fragile accettando che lo sguardo degli altri si posi su di noi con amore e autentica compassione.
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