Convertire… il nome

V settimana T.Q.

Le parole che il Signore Dio rivolge al nostro padre nella fede rappresentano un momento di rinascita: <Non ti chiamerai più Abram, ma ti chiamerai Abramo, perché padre di una moltitudine di nazioni ti renderò> (Gen 17, 5). I Giudei che discutono con il Signore Gesù dimostrano di non aver ben compreso la portata di questo intervento dell’Altissimo nella vita e nel percorso del comune padre nella fede: <Sei tu più grande del nostro padre Abramo, che è morto? Anche i profeti sono morti. Chi credi di essere?> (Gv 8, 53). In realtà, il Signore Gesù aveva cercato di attirare la loro attenzione su ciò che ci rende immortali, non nel senso dell’essere imperituri o di una grandezza semplicemente umana, bensì di una relazione che struttura fino a ristrutturare continuamente le radici stesse della nostra personalità: <In verità, in verità io vi dico: “Se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno> (8, 51). Il cammino compiuto da Abramo non è altro che il difficile passaggio da una fecondità a partire da se stesso, già contenuta nel significato del suo nome che richiama “un padre alto”, per aprirsi ad una nuova fecondità assai più ampia e duratura che è frutto di una relazione con il “padre altro” che è il padre di tutti.

Il Signore Gesù sembra quasi supplicare i suoi ascoltatori, che si riveleranno ben presto come i suoi persecutori, di aprirsi a questa relazione qualificante: <Se io glorificassi me stesso, la mia gloria sarebbe nulla. Chi mi glorificherà è il Padre mio, del quale voi dite “E’ nostro Dio”> (Gv 8, 54). Il passaggio che spetta ciascuno di noi è di accettare che il nostro nome divenga sempre più quello di “figlio”. Per tutti si presenta la sfida di vivere il passaggio dal bisogno di essere padri alla soddisfazione, serena e rasserenante, di essere figli: <Voi, stirpe di Abramo, suo servo, figli di Giacobbe, suo eletto> (Sal 104, 6). Per questo disse Dio ad Abram divenuto ormai Abramo: <Da parte tua devi osservare la mia alleanza, tu e la tua discendenza dopo di te, di generazione in generazione> (Gen 17, 9). Il Signore Gesù sigilla nel suo mistero pasquale questa fedeltà ad oltranza, che non si arresta davanti a nessuna esigenza e sembra passare oltre ogni minaccia per coronare una fedeltà ineludibile: <Allora raccolsero delle pietre per gettarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio> (Gv 8, 59).

Credere che il Cristo è colui che è nel presente in cui si ricapitola il passato e si prepara il futuro è ciò che può veramente fare la differenza nella vita. Il Dio che si fa nostra salvezza non si identifica mai con ciò che è stato né si rimanda a ciò che sarà, ma si dona in un presente di eternità che fa della realtà una possibilità ulteriore di divinizzazione. Per questo non ci resta, si fa per dire, che lavorare a noi stessi per diventare realmente ciò che siamo: figli! Figli da generare continuamente, in una capacità continuamente rinnovata di aprirsi a nuove tappe di cammino e di crescita senza nostalgie né rammarichi che rischiano, in realtà, di impoverire attraverso l’illusione di grandezze che, in realtà, non sono altro che la gonfiatura delle nostre frustrazioni più profonde. Il Signore Gesù mette in crisi i dottori della Legge proprio perché si fa testimone di un modo di essere vivo che non ha nulla a che vedere con un atteggiamento museale contro cui anche noi dobbiamo tenerci sempre vigilanti per avere ogni giorno la sorpresa di riaccogliere il mistero di noi stessi attraverso un nome sempre da riscoprire e, per certi aspetti, da reinventare.

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