Giustizia
XXXII settimana T.O. –
Nel mondo in cui viveva Gesù la <vedova> (Lc 18, 3) era il simbolo della desolazione assoluta, della povertà senza rimedio. Ciascuno di noi si sente, di fronte al male che talora può toccare la nostra esistenza, come una vedova che fa esperienza della propria radicale povertà nel senso di mancanza di quei mezzi necessari per affrontare ciò che rischia di umiliare e mortificare la vita. L’evangelista Luca mette in scena prima il <giudice> (18, 2) e solo in seguito parla <anche> (18, 3) di questa vedova. In questo modo è come se l’ingiustizia riempisse già la scena della storia e delle vicissitudini umane: <In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno> (18, 2). Con sano realismo, il Vangelo ci mette di fronte alla realtà e lo fa con grande semplicità e senza mistificazione alcuna: il male, l’ingiustizia, la prevaricazione… sono parte della vita proprio come quell’<avversario> evocato dall’andirivieni della vedova presso il giudice. Il vero problema non è chiedersi se sia giusto o meno che essi esistano, quanto piuttosto cercare di comprendere come arginare tutto ciò senza permettere che si dilati fino al punto di togliere la speranza di un modo migliore di stare al mondo.
La parabola che il Signore Gesù racconta ha un fine preciso e una sorta di interpretazione autentica: <sulla necessità di pregare sempre senza stancarsi> (18, 1). La preghiera è una rivolta contro ogni forma di ingiustizia e di prevaricazione perché, contando sulla relazione con l’Altissimo, non ci si piega alle logiche persuasive di chi vuole convincere che le cose debbano andare in un certo modo. Pregare è gridare a Dio la nostra fatica, restando sotto il suo sguardo per avere la forza di rimanere dignitosamente in questo mondo senza lasciarci piegare e soprattutto evitando accuratamente che ci si abitui al male. Il solo fatto di congiungere le mani, di levare lo sguardo al cielo, di mettersi in ginocchio… e pregare, è un modo per ribadire come l’unico signore della storia sia proprio il Signore. Pregare è mettere in pratica l’esortazione dell’apostolo che troviamo nella prima lettura: <diventare collaboratori della verità> (3Gv 8).
La sfida è di passare da essere oranti devoti a diventare dei credenti oranti. La fede è, infatti, il duplice esercizio della nostra fiducia assoluta in Dio cui si congiunge del tutto naturalmente il nostro impegno a rendere il nostro mondo – quello interiore e quello esteriore – degno di Dio perché capace di dare ospitalità a tutti assumendo il grido della giustizia soprattutto quando viene soffocato o semplicemente ignorato. Il profilo del giusto che ci viene presentato dal salmo responsoriale diventa così un luogo di continua revisione di vita: <Felice l’uomo pietoso che dà in prestito, amministra i suoi beni con giustizia. Egli non vacillerà in eterno: eterno sarà il ricordo dei giusti> (Sal 111, 5-6). Eppure il problema più grande sembra essere più radicale: <Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà troverà la fede sulla terra?> (Lc 18, 8).
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