Comprendere
XXV Domenica T.O. –
L’apostolo ci propone un criterio per saggiare, ogni giorno, il livello del nostro consenso al vangelo e questo non a parole ma – secondo lo spirito proprio di questo apostolo così poco amato da Lutero – in modo pratico e quotidiano: <dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni> (3, 16). Se rileggiamo la prima lettura è chiaro che, se l’intento dichiarato degli empi è quello di saggiare la mitezza e la santità del giusto, in realtà le loro azioni non sono altro che l’espressione di quella disperazione che la gelosia è capace non solo di generare, ma di nutrire in modo regolare e continuo. Non si fanno illusioni gli empi e non possono nascondere a se stessi il male che li divora come un fuoco che incendia la paglia – per usare alcune immagini che ritroviamo nella lettera di Giacomo – e per questo si confessano l’un l’altro: <Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione da noi ricevuta> (Sap 2, 12). In realtà, proprio mentre si cerca di mettere <alla prova con violenze e tormenti> (2, 19) il giusto, non si fa che saggiare e smascherare la propria grettezza e la propria inadeguatezza: <per la strada, infatti, avevano discusso tra loro chi fosse più grande> (Mc 9, 34). I discepoli fanno fatica, come noi, a lasciarsi realmente plasmare dalla parola e dai gesti del Signore Gesù. Per questo reagiscono al suo solenne annuncio del fallimento pasquale tentando di mettere a punto i quadri del fantomatico successo messianico. Il progetto messianico abita segretamente il cuore dei discepoli pieno di sogni e di idealismi che non contempla e non sopporta il contrario cui il Maestro li sta preparando senza dimenticare di preparare se stesso: <Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà> (9, 31). L’evangelista annota qualcosa che riguarda i discepoli ma che riguarda così spesso anche noi: <Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo> (9, 32). Quando noi non capiamo o non vogliamo capire, il Signore non esita a interrogarci e a spiegarci ulteriormente per metterci in condizione di <saggiare> la nostra <mitezza> (Sap 2, 19). Lo fa con un gesto che non ha nulla di romantico e che, invece, è una sorta di giudizio che esige sempre profonda conversione: <Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti> (Mc 9, 35). Come se non bastasse, il modello del servizio del discepolo non è il servitore, cosciente del proprio compito, bensì il <bambino> (9, 36) che non può servire a molto se non nella misura in cui gli si da fiducia e lo si ama per la promessa di vita che rappresenta. Tutto ciò comporta di accettare il rischio di farsi garanti di ciò che non può imporsi da sé, ma che solo può lasciarsi accogliere <abbracciandolo>.
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