Piena libertà

III settimana T.O.

La Lettera agli Ebrei ci ricorda con una certa solennità che abbiamo <piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù> che si è fatto per noi <via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne> (Eb 10, 19-20). Da parte sua il Signore Gesù ci ricorda che questo ingresso libero alla sua stessa vita divina è direttamente proporzionale alla nostra disponibilità a lasciare entrare dentro di noi il seme della parola e la luce fecondante della sua stessa presenza. Questa intima presenza è capace di fare di noi il segno e la testimonianza dell’opera di Dio al cuore della storia. Per questo la domanda del Signore Gesù ci riguarda profondamente e, per molti aspetti, esige da noi una risposta generosa e profondamente coinvolta: <Viene forse la lampada per essere messa sotto il moggio o sotto il letto? O non invece per essere messa sul candelabro?> (Mc 4, 21). La libertà che il Signore ci dona e ci richiede sembra essere duplice: la libertà di accogliere il dono della sua presenza e la libertà di esporci al rischio della testimonianza.

Perché l’una e l’altra libertà possano realmente darsi nella nostra vita concreta, è necessaria una misura abbondante – anzi sovrabbondante – di autentico ascolto che è la forma primordiale dell’accoglienza della vita che ci viene da fuori e da più lontano di noi stessi: <Fate attenzione a quello che ascoltate. Con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi; anzi, vi sarà dato di più> (4, 24). Non è raro che percepiamo il dovere e le implicanze di un ascolto sincero e generoso quasi come fosse una limitazione della nostra libertà, al contrario esso è la via di una sempre più ampia liberazione che permette una sorta di interiore germinazione della capacità di crescere in apertura, in generosità, in dono. L’invito all’ascolto del Signore Gesù viene ripreso – in un’altra dimensione non meno essenziale – in conclusione della prima lettura: <Prestiamo attenzione gli uni agli altri, per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone> (Eb 10, 24).

Dopo la parabola del seminatore, questa piccola raccolta di consigli che il Signore Gesù offre Ai suoi discepoli, ci ricorda che la parola di Dio non è destinata ad essere abbandonata nel nostro cuore come in una cantina deserta e dimenticata, ma custodita come un tesoro sulle cui risorse si possa sempre contare e che si può sempre investire. Il nostro rapporto con la parola di Dio è spesso confuso e rischia di smarrirsi nel pendolo tra intellettualismo ed emotività. Invece la Parola di Dio vuole essere per noi una luce che si possa ascoltare e in certo modo continuamente proferire come facciamo con le parole e ben più delle parole. Lasciare deperire questa risorsa nei bassifondi della nostra anima equivarrebbe a farla mentire cominciando col farla marcire. Al contrario, accoglierla significa lasciarla risplendere tanto da far sì che essa illumini non solo noi stessi, ma anche tutto ciò che ci circonda.

Perdono

III settimana T.O.

La conclusione della prima lettura è come un sorso d’acqua fresca che spegne l’incendio di ogni possibile inferno interiore: <Ora, dove c’è il perdono di queste cose, non c’è più offerta per il peccato> (Eb 10, 18). A motivo dell’accostamento delle letture nella liturgia di quest’oggi potremmo identificare nel <perdono> quel seme che viene affidato ai vari terreni nella speranza che possa germogliare e crescere fino a produrre <il trenta, il sessanta, il cento per uno> (Mc 4, 8). Il Signore ci esorta vivamente: <Chi ha orecchi per ascoltare ascolti> (4, 9). L’autore della lettera agli Ebrei sottolinea con forza: <A noi lo testimonia anche lo Spirito Santo… non mi ricorderò più dei loro peccati e delle loro iniquità> (Eb 10, 17). Il perdono che riceviamo così prodigalmente dalla mano di Dio e viene riversato continuamente nei nostri cuori è un investimento dell’Altissimo nelle e sulle nostre vite. Un simile dono aspetta di essere onorato non solo con l’accoglienza, ma pure con una generosa e creativa fecondità.

Di questa divina e liberalissima oblazione è icona stupenda il gesto del seminatore della parabola che fa cadere il suo seme con abbondanza e senza alcun risparmio. Mentre noi stessi cerchiamo di ritrovaci e di catalogare gli altri nelle tre categorie di terreni infecondi, la conclusione della parabola ci mette di fronte alla fiducia che Dio ha verso la nostra umanità: <Quelli che ricevono il seme su terreno buono, sono coloro che ascoltano la parola, l’accolgono e portano frutto nella misura chi del trenta, chi del sessanta, chi del cento per uno> (Mc 4, 20). Mentre il Signore si attarda nello spiegare le modalità di non accoglienza dei terreni sterili si accontenta di dichiarare – senza perdere tempo a spiegare – il mistero della fecondità. Essa non è legata alla misura del frutto – variabile per natura – ma alla qualità dell’accoglienza. Per il Signore l’importante è che possiamo essere annoverati tra quelli che <l’accolgono> poiché <Cristo al contrario, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati una volta per sempre, si è assiso alla desta di Dio, aspettando ormai soltanto che i suoi nemici vengano posti sotto i suoi piedi> (Eb 10, 12-13).

Ogni giorno diventa per noi l’occasione propizia per sentirci così profondamente perdonati e amati da sentire un naturalissimo bisogno di ridonare il perdono a tutti coloro che entrano, in tanti modi, a far parte della nostra vita e non sempre nel modo più piacevole e sereno. Per rimanere nello stile della parabola potremmo dire che se dalla mano e dal cuore di Dio riceviamo sempre una misura sovrabbondante di amore e di perdono, da parte nostra non siamo sempre capaci di dare il massimo nel saper a nostra volta perdonare. Forse non conviene stare troppo a sottilizzare modi e quantità, ma è meglio rimanere con quel senso di mistero su noi stessi che ci permetta di fare ogni giorno il passo necessario di un po’ più di ascolto, di un po’ più di amore.

Ombra

III settimana T.O.

Quello che l’autore della Lettera agli Ebrei dice in riferimento alla Legge può diventare un ulteriore aiuto per comprendere la presa di posizione del Signore Gesù nei confronti dei membri e forse delle pretese di quanti fanno parte della sua famiglia. Così leggiamo nella prima lettura riguarda al senso e al ruolo della Legge che <possiede soltanto un’ombra dei beni futuri e non la realtà stessa delle cose> (Eb 10, 1). Quando l’evangelista Marco pone sotto i nostri occhi <la madre di Gesù e i suoi fratelli> che <stando fuori, mandarono a chiamarlo> (Mc 3, 31), ci fa sentire tutta la fatica a passare dall’ombra di una familiarità legata ai legami naturali per passare alla luce di una più profonda appartenenza reciproca che richiede, sempre, un passo in più verso il compimento pieno della <volontà di Dio> (3, 35).

La reazione del Signore Gesù un po’ ci stupisce. Nondimeno essa rappresenta per noi, che ci riteniamo parte della “famiglia dei credenti”, non solo una sfida, ma un vero banco di prova di quella che è la nostra profonda adesione al mistero di Cristo Signore il quale venendo nel mondo dice: <Ecco, io vengo a fare la tua volontà> (Eb 10, 9). La prima lettura cerca di spiegare ulteriormente il senso di questa parola: <Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo. Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre> (10, 10). Il <corpo di Gesù Cristo> è la cifra più alta per indicare questo modo di presenza nuovo e pieno con cui l’Altissimo viene a prendere posto ormai in mezzo alla realtà della nostra umanità e non <fuori> (Mc 3, 32) di essa.

La parola con cui il Signore Gesù prende posizione sulla pretesa della sua famiglia è preceduta da un gesto eloquentissimo: <Girando lo sguardo su quelli che erano attorno a lui…> (3, 34). Questo sguardo ci raggiunge e ci interpella obbligandoci ad una conversione profonda che passa sempre attraverso una decisione a non pensare più la relazione con Dio in termini elitari e speciali, ma come partecipazione alla vita e al desiderio di tutti. Se l’<ombra> della Legge ci fa sentire la <volontà di Dio> come qualcosa da eseguire, la luce della presenza di Cristo in mezzo a noi ci fa percepire che questa volontà si compie attraverso una serena familiarità il cui primo passo è di saper stare con il Signore amando di stare insieme a tutti. La famiglia sembra avere per il Signore Gesù un valore né assoluto né a sé stante, ma è parte e può essere espressione di quei cammini, talora non sempre uguali e talora neanche così chiari e distinti, che ci portano fino alla soglia del compimento della volontà di Dio che è la vita, la gioia, la pace di tutti: <Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre> (Eb 10, 10). Alla luce del Vangelo possiamo dire che la famiglia con i suoi legami e i suoi malintesi è un’esperienza di partenza che esige di essere ampliata e approfondita fino a diventare esperienza di comune appartenenza alla grande avventura umana in tanti modi diversi, eppure talora così sorprendentemente belli.

Entrare

III settimana T.O.

Se <Cristo è mediatore di una nuova alleanza> (Eb 9, 15) allora non ci resta che entrare come Lui è <entrato> (Eb 9, 24) nel santuario della misericordia e lo ha fatto <una volta sola> (Eb 9, 26) e <in nostro favore> (Eb 9, 24). In pochi versetti, l’autore della lettera agli Ebrei ci fa veramente entrare nel mistero di Cristo e del suo essere per noi e in nostro favore <allo scopo di togliere i peccati di molti> (Eb 9, 28). Ma cosa sarebbe il mondo senza più peccati?! È una domanda che attraversa in modo quasi drammatico il cuore e la mente degli <scribi, che erano discesi da Gerusalemme> (Mc 3, 22). Il grande dono della liberazione dal male e da tutto ciò che lo media nell’esperienza degli uomini offerto dal Signore Gesù – la malattia, l’angoscia, il malessere…- è il segno della possibilità offerta ad ogni uomo di entrare nel Regno di Dio. Ma contemporaneamente questa liberazione mette in serio pericolo tutto il sistema a cui gli scribi sono abituati e che, più o meno inconsciamente, permette loro di sentirsi superiori ed esenti dal “male” che affligge gli altri solo perché lo gestiscono.

Il fatto che il Signore Gesù non “gestisca” il male, ma lo scardini crea una tale panico da indurre a dire esattamente il contrario di quello che è sotto gli occhi di tutti: <Costui è posseduto da Beelzebul e scaccia i demoni per mezzo del principe dei demoni> (Mc 3, 23). La risposta del Signore Gesù è diretta, e, dopo una breve parabola, diventa perentoria: <chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo, non avrà perdono in eterno> (Mc 3, 29). Siamo di fronte ad una delle parole più dure del Signore Gesù che tenta di arginare la tendenza – così “clericale” – di cambiare le carte in tavola pur di non cambiare la propria vita, i propri orientamenti. La tentazione degli scribi attraversa sempre il nostro cuore: davanti alla liberazione dal male siamo obbligati a reimpostare interamente e profondamente la nostra vita a partire dalle esigenze del bene e questo, nonostante tutte le apparenze e le lamentele, può essere più faticoso e talora più deludente – per il nostro narcisismo – che la gestione del male.

Non raramente anche noi preferiamo rimanere fuori dalla logica del Regno inaugurata da Cristo stesso <nella pienezza dei tempi… per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso> (Eb 9, 26). È proprio in questo sacrificare <se stesso> che il Signore Gesù ha cambiato profondamente l’atteggiamento religioso a cui tutti noi siamo abituati. Ed è esattamente questo dare <se stesso> che esige da parte nostra un grande impegno a superare ogni proiezione del male su altri e su altro ma nel trovarlo e “sacri-ficarlo” dentro il nostro stesso cuore. Tutto ciò non fa che cambiare tutta la logica di “gestione del male” a cui siamo abituati e con cui riusciamo – anche se malamente – a gestire la nostra profonda angoscia. Siamo esattamente noi quel <regno diviso in se stesso> (Mc 3, 24) a cui il Signore Gesù fa riferimento. Ciascuno di noi deve accettare di essere liberato dal male senza mai usare il male, ma rimanendo fedeli alla logica inaugurata nel sangue di Cristo: dare se stessi e così entrare <nel cielo stesso> (Eb 9, 24).

Bevi Cristo

III Domenica T.O. 

Contrariamente a quanto si pensa o si sente dire la fede cristiana non è una “religione del Libro”, ma della Parola attraverso cui incontriamo una Persona – il Signore Gesù – nel cui mistero possiamo incontrare noi stessi e tutti gli altri. Ecco perché il momento più solenne del Vangelo non è quello in cui il Cristo si <alzò a leggere> (Lc 4, 16) secondo l’uso della sinagoga, ma quello in cui <Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette…> (4, 20). L’evangelista Luca ci fa sentire tutto l’imbarazzo e l’attesa in coloro che si ritrovano davanti il Gesù di sempre che pure sembra non essere più lo stesso già nel suo modo di incedere, nel suo modo di declamare la Parola di Dio racchiusa nelle Scritture poiché già il tono della sua voce ne fa percepire il frutto di un lungo lavoro non solo di approfondimento, ma di degustazione interiore che ha rintracciato l’essenza del suo messaggio e le vene aurifere più segrete e più essenziali: <Oggi si è compiuta questa Scritture che voi avete ascoltato> (4, 21.

Ambrogio di Milano si lascia andare all’esultazione: <Dissétati prima all’Antico Testamento, per poter bere quindi dal Nuovo. Se non berrai al primo, non potrai bere al secondo. Bevi al primo per alleviare la tua sete, bevi al secondo per dissetarti appieno. Bevi l’uno e l’altro calice, quello dell’Antico e quello del Nuovo Testamento, perché in ambedue bevi Cristo>1. Per seguire il pensiero di Ambrogio sulla necessaria compresenza delle Scritture ebraiche e cristiane, potremmo osare dire che la cosa importante è bere il mistero di Cristo sapendolo ritrovare, riconoscere e accogliere in qualsivoglia pagina della nostra umanità e della nostra storia. Luca esordisce dicendo che <molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti…> (Lc 1, 1). Ogni volta che noi riprendiamo tra le mani le Scritture cerchiamo di recuperare l’ordine degli eventi per ritrovare il filo d’oro di quella segreta ed efficace presenza di Cristo che attraversa e indora ogni umano percorso.

Il primo segno del realizzarsi delle promesse nel concreto delle nostre vite è riconoscerci e sentirci come <corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra> (1Cor 12, 27). Questo segno sarà ancora più visibile e riconoscibile se saremo sempre più capaci di condividere quell’annuncio di liberazione e di gioia che abbiamo ricevuto. Risuona anche per noi il monito di Neemia di gioire e di far gioire: <Andate, mangiate carni grasse e bevete vini dolci e mandate porzioni a quelli che nulla hanno di preparato> (Nee 8, 10). Il Signore Gesù cita le Scritture, ma pure le interpreta tanto da riprendere il testo di Isaia omettendo l’ultimo versetto ove si parla di <vendetta del Signore> (Is 61, 2).


1. AMBROGIO DI MILANO, Commento sui salmi, 1, 33.

Bois le Christ

III Dimanche T.O. –

Contrairement à ce que l’on pense ou que l’on entend dire, la foi chrétienne n’est pas une «  religion du Livre », mais de la Parole à travers laquelle nous rencontrons une Personne – le Seigneur Jésus – dont le mystère nous permet de  nous rencontrer nous-mêmes et tous les autres. Voici pourquoi le moment le plus solennel de l’Evangile, n’est pas celui où le Christ se «  leva pour lire « ( Lc 4, 16 ) selon l’usage dans la synagogue, mais celui où « il replia le rouleau, le rendit au servant  et s’assit … » ( 4, 20 ). L’évangéliste Luc nous fait sentir tout l’embarras et l’attente de ceux qui se trouvent  depuis toujours face à Jésus qui, pourtant ne semble plus être tout à fait le même dans sa façon d’intervenir, et de déclamer la Parole de Dieu contenue dans les Ecritures, car, déjà, le ton de sa voix laisse percevoir le fruit d’un long travail, non seulement d’approfondissement, mais de dégustation intérieure qui a retrouvé l’essence de son message et la veine d’or la plus secrète et la plus essentielle : «  Aujourd’hui s’accomplit à vos oreilles ce passage de l’Ecriture » ( 4, 21).

Ambroise de Milan se laisse aller à l’exultation : « Désaltérés d’abord à l’Ancien Testament, pour pouvoir boire ensuite au Nouveau. Si tu ne bois pas au premier, tu ne pourras pas boire au second. Bois au premier pour assouvir ta soif, bois au second pour te désaltérer pleinement. Bois l’un et l’autre calice, celui de l’Ancien et celui du Nouveau Testament, car, en même temps tu bois le Christ. »1. Pour suivre la pensée d’Ambroise sur la nécessaire coprésence des Ecritures hébraïques et chrétiennes nous pourrions oser dire que la chose importante est de boire le mystère du Christ en sachant le retrouver, le reconnaître et l’accueillir dans n’importe quelle page de notre humanité et de notre Histoire. Luc débute en disant que «  beaucoup ont essayé de raconter les évènements dans l’ordre… » (Lc 1,1 ) Chaque fois que nous reprenons entre les mains les Ecritures, nous cherchons de récupérer l’ordre des évènements pour retrouver le fil d’or de cette secrète et efficace présence du Christ qui traverse et couvre de dorure chaque parcours humain.

Le premier signe des réalisations des promesses dans le concret de nos vies est de nous reconnaître et de nous sentir comme «  corps du Christ, et chacun comme l’un de ses membres » ( 1 Co 12, 27 ). Ce signe sera encore plus visible et reconnaissable si nous sommes toujours d’avantage capables de partager cette annonce de libération et de joie que nous avons reçue. Pour nous aussi, l’invitation de Néhémie à la joie et à la jouissance résonnent : «  Allez manger des viandes grasses et buvez des liqueurs douces et envoyez des portions à qui n’ont rien de préparé » ( Né 8, 10 ). Le Seigneur Jésus cite les Ecritures, mais il les interprète aussi en reprenant le texte d’Isaïe tout en omettant le dernier verset où l’on parle de «  vengeance du Seigneur » ( Is 61, 2 ).


1. AMBROISE DE MILAN, commentaire sur les psaumes, 1, 33.            

Io sono!

Conversione di san Paolo

Verso la fine della sua vita e della sua esperienza di credente, l’apostolo Paolo diventa capace di dire: <Io sono un Giudeo… educato… formato… pieno di zelo… sentii una voce> (At 22,3ss). Paolo ci indica il compito che riguarda ciascuno di noi, un compito che può realmente cambiare la nostra vita rendendola sempre più toccata dalla grazia fino a renderla capace di mediare il dono della grazia e della salvezza: passare dalla visione all’ascolto. Ciò che segna, fino a cambiare radicalmente la vita di Saulo-Paolo, tanto da toccare e incidere sullo stesso cammino della Chiesa, è questo passaggio fondamentale della sua vita sulla strada di Damasco ove: <verso mezzogiorno, all’improvviso una grande luce dal cielo sfolgorò attorno a me; caddi a terra e sentii una voce che mi diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”> (22, 7). Per la prima volta l’apostolo sente pronunciare il suo nome come un appello e – sulle labbra di Cristo Signore – il suo nome rivela tutto l’abisso della sua verità: la promessa di una santità che esige un passo di superamento di se stessi.

Il testo insiste su un aspetto importante che differenzia Paolo da coloro che condividono il suo viaggio e che, molto probabilmente, partecipano alla sua missione contro i discepoli di Gesù: <Quelli che erano con me videro la luce, ma non udirono la voce di colui che mi parlava…> (22, 9). Ciò che dà consistenza alla nostra vita discepolare non è, in realtà, quello che vediamo che corrisponde a quello che sappiamo, ma ciò che siamo in grado di ascoltare fino a lasciarcene cambiare. La parola che il Signore affida alla sua Chiesa è una traccia di discernimento non solo per l’annuncio, ma prima di tutto per l’esperienza di Dio: <se berranno qualche veleno, non recherà loro danno> (Mc 16,18). Il veleno più antico e il più pericoloso è quello che fece cadere i nostri progenitori che furono ammaliati da ciò che vedevano e si nascosero invece alla <voce> (Gn 3,10)

Come Paolo anche noi siamo in viaggio, come l’apostolo anche noi siamo in cammino per le nostre strade e, forse senza che neppure ce ne avvediamo, si apre davanti a noi una <Via> (22,4) che ancora non abbiamo intravista e che pure è davanti a noi come una possibilità e un appello. Se ci lasciamo destabilizzare e ci rimettiamo per strada, allora sarà possibile scoprire chi siamo veramente a partire da ciò che avremo accettato di diventare – per dire in verità – partecipando allo stesso mistero dell’Altissimo: <Io sono!>. Certamente ricordiamo il giorno della nostra nascita, ricordiamo forse anche quello del nostro battesimo e di altri momenti fondamentali della nostra vita… ma ci sarebbe anche da festeggiare – nel segreto del cuore – il momento o i momenti in cui, il passaggio della grazia, ha segnato e ha cambiato la nostra vita dal profondo. È da festeggiare intimamente il momento in cui la nostra vita, pur sembrando uguale a se stessa, è diventata così nuova da esigere un passo indietro da ciò cui eravamo abituati con noi stessi…e questa sarebbe la conversione senza la quale rischiamo di rimanere ignoranti del meglio di noi stessi.

Poi…

II settimana T.O.

La parola, che si pone come sigillo ad uno dei momenti più importanti – anzi il fondamentale – in quelli che sono gli inizi della Chiesa, è una sorta di memoria della fragilità. Suona infatti come un campanello d’allarme o come un invito costante alla consapevolezza di ogni discepolo: <il quale poi lo tradì> (Mc 3, 19). Meditare con attenzione umile e amorosa questa parola del Vangelo può risvegliare e nutrire in noi un modo di guardare alla Chiesa che sia giusto e sereno. Secondo il Vangelo, il mistero della Chiesa non nasce perfetto e poi si deteriora. Al contrario sin dal suo essere ancora tra le braccia di Gesù, come suo Signore e Maestro, quello della Chiesa è un mistero di fragilità, d’incompiutezza, persino di devianza possibile e quasi necessaria. Il contrasto tra il primo e l’ultimo versetto di oggi va rilevato e non va dimenticato poiché proprio quel versetto che noi volentieri avremmo omesso, ci trasmette una rivelazione importantissima: <salì sul monte, chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui> (3, 13) e <lo tradì> (3, 19). Verrebbe da consigliare al Signore Gesù di stare più attento e di essere più prudente nella scelta dei suoi amici e un po’ più perspicace nella elezione di quanti fregia del nome di <apostoli> (3, 14).

Forse, in realtà, non si tratta di un errore, bensì di una rivelazione: ad essere oggetto di scelta e di mandato da parte del Signore Gesù per essere garante dell’annuncio del Vangelo nella sua triplice forma dello stare con lui, predicare e guarire, non è un gruppo scelto, ma un gruppo ibrido di uomini difettosi e fragili. La Chiesa nasce povera e per questo non è posta nel mondo come un modello di perfezione cui guardare, ma come un luogo possibile di umanizzazione in cui restare e nel quale veramente nessuno ha motivo di sentirsi inadeguato e a disagio. In questa direzione interpretativa possiamo accogliere la parola della prima lettura applicandola al mistero della Chiesa non come sostituzione migliorata del mistero di Israele, bensì come novità assoluta nel modo di concepire la relazione con Dio: <Non sarà come l’alleanza che feci con i loro padri, nel giorno in cui li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto; poiché essi non rimasero fedeli alla mia alleanza, anch’io non ebbi più cura di loro> (Eb 8, 9). Pertanto, il fondamento è totalmente nuovo e per certi aspetti sganciato dalle nostre possibilità di riuscita spirituale: <Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati> (Eb 8, 12).

A fondamento del mistero della Chiesa che vive, soffre ed erra in ogni tempo e in ogni luogo, non vi è il merito e le qualità degli apostoli, né tantomeno la loro omogeneità umana e spirituale, ma una fiducia del Signore che conta non solo sulle forze, ma pure sulle fragilità dei suoi apostoli. Tutto ciò ha uno solo fine: rivelare la forza e la bellezza del suo amore che, sin dall’inizio e non come incidente di percorso, mette in conto l’errore e quindi il perdono. Come discepoli nel tempo presente ci è chiesto di essere sereni e consapevoli.

Mediatore

II settimana T.O.

L’autore della Lettera agli Ebrei non ha dubbi: <Ora invece egli ha avuto uni ministero tanto più eccellente quanto migliore è l’alleanza di cui è mediatore, perché è fondata su migliori promesse> (Eb 7, 6). Queste promesse si concretizzano nella presenza di Gesù che è salvifica proprio perché permette a molti di ritrovare la pienezza della vita: <Infatti aveva guarito molti, cosicché quanti avevano qualche male si gettavano su di lui per toccarlo> (Mc 3, 20). Il Signore Gesù costruisce attorno a sé una comunità di salvezza tanto che, come annota Giovanni XXIII nel suo Diario, <la Chiesa si presenta, non come un monumento storico del passato, bensì come un’istituzione viva. La santa Chiesa non è come un palazzo che si potrebbe costruire in un anno. È una città immensa che dovrà contenere l’universo>1. Potremmo glossare questo testo dicendo che la Chiesa è chiamata ad essere capace di intuire e di accogliere ogni sofferenza e farsi cosi incarnazione visibile e percepibile di quell’unico Mediatore che è Cristo il quale, attraverso il suo Corpo che è la Chiesa, realmente <può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio> (Eb 7, 25).

Questa mediazione diventa possibile, proprio perché il Signore Gesù si rivela, attraverso i suoi gesti di compassione e di salvezza, <santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli> (7, 26). Il Signore Gesù presenta a Dio la sua umanità senza peccato, vale a dire senza volontà di potenza, senza menzogna e senza ripiegamento su di sé. Quella di Cristo Signore è un’umanità interamente aperta all’accoglienza e all’accompagnamento degli altri nelle loro debolezze e nei loro bisogni. Quest’attitudine, radicalmente sacerdotale, su cui si fonda non solo il sacerdozio ministeriale all’interno della Chiesa, ma pure quello comune dei fedeli che si radica nel dono battesimale, è un solenne atto di riconciliazione dell’umanità con Dio. Questa riconciliazione radicale si invera nel quotidiano mistero di dono e di comunicazione della grazia, che, dalla vita intima della Trinità, passa a noi per la mediazione di Cristo attraverso la sua Parola, i sacramenti e il combattimento della fede di tanti. Per questo essa è sempre esperienza di salvezza e di guarigione.

Il Signore Gesù con la sua sola presenza rappresenta un fulcro di unità capace di ristabilire quella solidità e armonia interiori che sono le premesse necessarie ad ogni esperienza di guarigione e di sanità le quali sono la radice e, al contempo, il frutto di ogni autentico cammino di santità battesimale. Non dobbiamo mai dimenticare che una santità battesimale si sviluppa sempre nella logica dell’’incarnazione fino ad un serio e generoso coinvolgimento nella storia.


1. GIOVANNI XXIII, Giornale dell’anima, § 1935-

Somiglianza

II settimana T.O.

La Lettera agli Ebrei ritorna più volte sul mistero del sacerdozio di Cristo il quale sorge <a somiglianza di Melchisedek> ed è al contempo <differente> (Eb 7, 15). In questo gioco di somiglianza e di differenza è ben significato il combattimento di ciascuno discepolo chiamato a vivere una continuità nella necessaria e talora dolorosa rottura. Sembra comunque, secondo l’approccio della prima lettura, che sia necessario anche per ciascuno di noi riuscire a coniugare nella nostra vita la <giustizia> e la <pace> (7, 2). Il Signore Gesù si rivela capace di coniugare le esigenze della fedeltà a Dio con la necessaria capacità di vedere e di rispondere alla sofferenza che è il rimando più grande al mistero stesso della nostra umanità. Il modo in cui il Signore si accorge della sofferenza non è quello proprio ad un sacerdozio esercitato nella distanza, ma in una reale prossimità che si fa concreta e rischiosa condivisione. La conclusione repentina del vangelo non lascia dubbi: <E i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire> (Mc 3, 6).

I farisei sembrano difendere il principio dell’osservanza del sabato, eppure si rivelano dimentichi del senso profondo del riferimento al sabato che non si può ridurre semplicemente alla memoria grata della signoria di Dio sulla creazione. Infatti, il sabato è pure la memoria coinvolgente della necessaria signoria dell’uomo sulla storia che passa attraverso la capacità di vivere le relazioni come luogo di incremento di vita. Come ricorda Ilario di Poitiers: <Quindi, l’azione del Figlio è di ogni giorno; e, secondo me, i principi della vita, le forme dei corpi, lo sviluppo e la crescita degli esseri viventi manifestano questa opera>1. Pertanto, di questa opera noi non possiamo essere solo spettatori, ma siamo chiamati ad essere alacri collaboratori. La domanda che il Signore Gesù pone esige la risposta concreta e fattiva di ogni giorno attraverso le nostre scelte concrete e le nostre priorità: <E’ lecito in giorno di sabato fare del bene fare del male, salvare una vita o ucciderla?> (Mc 3, 4).

Prima ancora della nostra risposta a questa domanda, vi è la reazione di Cristo Signore al nostro silenzio: <E guardandoli tutt’intorno con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori…> (3, 5). Come sacerdote e come medico, il Signore Gesù ci ricorda il rischio di avere un cuore indurito. La provocazione è limpida e chiara: sappiamo e vogliamo stare dalla parte delle persone lasciandoci interrogare, sempre, dalla concreta sofferenza? Con una sorta di ricerca ascendente delle origini del sacerdozio, la Lettera agli Ebrei sembra risalire da Aronne a Melchisedek fino al Verbo che rimanda al mistero di quel settimo giorno in cui l’umanità ricevette dal Creatore il grande dono e la responsabilità di essere custode e sacerdote della creazione. Questo sacerdozio non solo universale ma pure primordiale si esercita in una capacità di rendere sempre più piena e più bella la vita perché assomigli sempre di più alla vita stessa di Dio.


1. ILARIO DI POITIERS, Trattato sui salmi, 91, 3.