Perfetti

IV settimana T.O.

Concludiamo la lettura della lettera agli Ebrei da cui ci congediamo con un augurio da fare non solo a noi stessi, ma a tutti coloro che intrecciano e incrociano le nostre strade umane: <vi renda perfetti in ogni bene> (Eb 13, 21). Davanti a questo augurio viene abbastanza spontaneo chiedersi come tutto ciò possa realmente avvenire nel concreto della nostra vita di ogni giorno, nella nostra esistenza quotidiana in cui siamo sempre chiamati a combattere contro le tentazioni della mediocrità. Forse la risposta possiamo trovarla nel vangelo. I discepoli, di ritorno dalla loro esperienza missionaria, vengono invitati dal Signore Gesù ad appartarsi con lui per trovare un poco di riposo. Ma ecco che l’affluire della folla trasforma il luogo del riposo in un luogo di ulteriore coinvolgimento nella vita della gente alla quale il Signore Gesù <si mise ad insegnare molte cose> (Mc 6, 34).

Potremmo dire che in questo consista l’essere <perfetti in ogni bene>: in una capacità di lasciarsi interpellare da ogni possibilità e occasione che la vita ci offre per fare il bene persino quando questo ci richiede, apparentemente, di rinunciare a farci un po’ di bene. Infatti, è proprio facendo il bene nel modo migliore possibile, che potremo sentirci veramente bene e persino ancora meglio. Possiamo pure dire che in questo consista trovare il riposo: nella capacità di sapere trovare ristoro dandone con generosità a chi ne ha bisogno accanto a noi. Il moto di <compassione> (6, 34) che invade il cuore del Signore Gesù alla vita della <grande folla> ci fa entrare nel mistero che sta all’origine del modo con cui Dio è legato al cammino della storia e da cui ormai non prende più nessuna distanza accettando di marciare con noi per i monti e le valli dell’esistenza.

Chissà se la gente che segue Gesù e alla quale il Signore rimanda i suoi discepoli perché imparino a riposare senza smettere mai di avere compassione, aveva in mente le parole così belle del salmo: <Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici. Ungi di olio il mio capo; il mio calice trabocca> (Sal 22, 5). In ogni modo possiamo portare nel cuore l’esortazione della prima lettura cui si aggiunge del tutto naturalmente l’esempio del Signore stesso: <Non dimenticatevi della beneficenza e della comunione dei beni, perché di tali sacrifici il Signore si compiace> (Eb 13, 16). Se avremo saputo stare vicino al Signore Gesù e riposare profondamente e veramente con lui, non potremo che essere intimamente conquistati dal suo stesso dinamismo interiore che potremmo definire contempl-attivo proprio com’è per sua natura l’amore. Sarebbe assolutamente inutile cercare il riposo fuori dalla capacità di amare che è sempre un modo di perdonare all’altro di disturbare fino al punto di cambiare i miei programmi. Se l’amore comincia e finisce sempre con il perdono, allora l’unico vero riposo è quello di lasciarci interiormente consumare dalla compassione che ci renderà perfettamente riposati.

Avarizia

IV settimana T.O.

L’unico testo di tutto il vangelo di Marco in cui non si parli direttamente del Signore Gesù o dei suoi discepoli è quello in cui si racconta della morte violenta, e persino un po’ banale, del Battista. Il lungo e circostanziato racconto ci permette di mettere in pratica l’esortazione della prima lettura: <Considerando attentamente l’esito finale della loro vita, imitatene la fede> (Eb 13, 7). La Parola di Dio racchiusa nelle Scritture ci obbliga ad una presa di coscienza come pure ad una scelta di campo: la figura ambigua e debolissima di Erode, che si lascia intrappolare dalle macchinazioni di Erodiade e dal fascino della sua giovane figlia, è un monito: se non consideriamo attentamente quelle che sono le scelte di campo della nostra vita rischiamo di rimanere impigliati nella rete della nostra stessa stoltezza. Questo meccanismo perverso comincia sempre con il cedimento alla superficialità che ci fa perdere il controllo delle nostre parole tanto da non saperne cogliere e prevedere le conseguenze.

L’autore della lettera agli Ebrei ci aiuta ad andare all’essenza di quella che possiamo considerare la malattia che corrode il cuore di Erode. Questo re, spietato e debole al contempo, sembra animato talora da buone intenzioni ed attenzioni da non sfuggirgli la verità di Giovanni. Ora sembra intuire quella dello stesso Gesù di cui molto si parla in giro: quella verità che viene ripresa nella prima lettura con l’esortazione: <La vostra condotta sia senza avarizia; accontentatevi di quello che avete> (Eb 13, 5). Siamo abbastanza facili nel riconoscere e nel deplorare l’avarizia presente negli altri, ma difficilmente siamo in grado di decifrarne i segni e i percorsi nel nostro cuore, là dove radica quel senso di insoddisfazione talmente profondo da ritenere di avere bisogno di “avere” e, ancora più potentemente, di sperimentare e sentire sempre di più di “poter trattenere”. Così la quantità seppellisce in noi la sensibilità e ci stordisce tanto da renderci così superficiali e stupidi da non mettere in conto che, alla nostra avarizia, si accompagna quella di quanti condividono il nostro cammino.

La promessa di Erode è un atto di grande generosità: <Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò> (Mc 6, 22). Erode sembra quasi avere bisogno che gli altri – prima fra tutte la figlia di Erodiade – credano alla sua prodigalità e generosità: <E le giurò più volte: “Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno”> (6, 23). Erode molto probabilmente ha dimenticato, nella gioia del suo compleanno e nei piaceri del banchetto, che nella sua vita c’è anche il Battista che tiene imprigionato nella sua fortezza… e così cade nella trappola della sua stessa generosità malata che lo fa essere tanto prodigo quanto stolto. Soprattutto il grande difetto di Erode è di non saper fare i conti della vita con le sue tasche, ma frugando nelle tasche degli altri fino a non potersi più tirare indietro dal far tagliare la testa a Giovanni. Un re che agisce così non è che un pover’uomo, eppure non possiamo dimenticare che talora, anche a noi, piace superare noi stessi senza poter onorare ciò che promettiamo, se non rubando la vita degli altri.

Discreto

IV settimana T.O.

La consegna del Signore Gesù ai suoi discepoli conferma quanto viene sottolineato ed evidenziato dall’autore della Lettera agli Ebrei: <ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare i sandali e di non portare due tuniche> (Mc 6, 8-9). Davanti ai discepoli del Signore Gesù che portano l’annuncio della liberazione e della guarigione nessuno avrà bisogno di ripetere le parole di Mosé: <Ho paura e tremo> (Eb 12, 21). Il modo di presentarsi degli annunciatori del Vangelo, per quanto investito di un reale <potere> (Mc 6, 7), non è certo uno <spettacolo terrificante> (Eb 12, 21), ma, al contrario, assolutamente discreto. Ormai il Signore si rivela nel nostro oscuro quotidiano portandovi la <Luce gentile>, come amava ripetere il beato Newman! Il peso della sua presenza non si impone in alcun modo, anzi, secondo la consegna del Signore Gesù ai suoi apostoli, la sua compagnia è capace persino di indietreggiare con chiarezza, ma senza alcuna minaccia: <Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro> (Mc 6, 11).

Il Vangelo non è solo un contenuto, ma è veramente uno stile la cui caratteristica inconfondibile è il suo essere discreto e sereno in e come <Gesù, mediatore dell’alleanza nuova, e al sangue purificatore, che è più eloquente di quello di Abele> (Eb 12, 24). Il mistero della Chiesa è così delineato nella sua essenzialità e nella sua interezza, tanto da rendere assai più comprensibile quanto viene detto nella prima lettura: <voi non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole, mentre quelli che lo udivano scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola> (12, 18-19).

Nulla di terrificante e nulla di mirabolante in quella che è la testimonianza dei discepoli del Signore, ma un semplice percorrere la strada degli uomini permettendo loro di aprirsi con libera semplicità, ad un incontro possibile e mai imposto: <Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì> (Mc 6, 10). Le parole con cui il Maestro delinea, non solo il contenuto, ma soprattutto lo stile dell’annuncio del suo Vangelo, dovrebbero rappresentare ogni giorno un vero luogo di discernimento per rettificare ogni eccesso di zelo e per consolidare ogni ricerca appassionata di farsi presenti alla vita di tutti senza mai imporsi a nessuno e in nessun modo. L’arte dell’annuncio non è mai strategica, ma è assolutamente discreta per salvaguardare sempre e al massimo, la libertà di accoglienza di una parola che, se viene veramente da Dio, non può che toccare il cuore dell’uomo liberandolo da ogni timore e aprendolo così ad un di più di fiducia e di serenità.

Correzione

IV settimana T.O.

Potremmo immaginare la reazione del Signore Gesù davanti all’incredulità: <che strano!>. La cosa più strana della nostra vita è proprio la nostra lentezza e la nostra incapacità nell’aprirci ad una relazione con Dio attraverso la fede in Lui, che pure si fa così vicino e prossimo a noi, proprio per facilitarci questo mistero di incontro. Il Signore si rende sempre più a portata di mano al nostro cuore e all’adesione della nostra fede. Bonaventura è ammaliato da questo mistero di nascondimento e, meditando sul mistero della vita nascosta di Gesù a Nazaret, così commenta: <Si rendeva spregevole… credi che questo sia poca cosa? Certo, di questo lui non aveva bisogno, mentre ne avevamo bisogno noi. Non conosco nulla di più difficile o di più grande. Mi sembrano essere giunti al più alto grado, coloro che, di tutto cuore e senza far finta possiedono se stessi a tal punto da non ricercare altro che essere disprezzati, non contare nulla e vivere in un abbassamento estremo. Questa è una vittoria più della conquista di una città>1.

La Lettera agli Ebrei commenterebbe l’ultima frase di Bonaventura con il versetto che abbiamo già trovato ieri e che ritroviamo quest’oggi: <voi non avete ancora resistito fino al sangue nella vostra lotta contro il peccato, e avete dimenticato l’esortazione a voi rivolta come a figli…> (Eb 12, 4). L’autore della Lettera agli Ebrei a questo punto parla della necessità della <correzione> (12, 5) che, prima di essere una correzione morale, è una correzione di sguardo e di orientamento. Si tratta di correggere il proprio modo di guardare al Signore Gesù e di farlo entrare e vivere nella nostra esistenza quotidiana. Infatti, grande è il rischio di cadere nella stessa trappola in cui si lasciano andare coloro che, seppur conoscono Gesù da sempre, nondimeno <si scandalizzavano di lui> (Mc 6, 3). In realtà, la fonte e il motivo dello scandalo stanno proprio nel fatto che il Signore Gesù non è riducibile a ciò che di Gesù costoro pensano già di sapere e di possedere ed è proprio per questo che fanno fatica ad accettare – proprio come noi – la <correzione del Signore> (Eb 12, 5).

Potremmo mettere sulle labbra del Signore, che cerca, in tutti i modi, di farsi accogliere <nella sua patria> (Mc 6, 1) questa parola: <è per la vostra correzione che voi soffrite> (Eb 12, 7). Questa non è assolutamente una minaccia, è un modo per ricordare al nostro cuore la necessità di non fermarci alla superficie delle nostre conoscenze e persino delle nostre migliori esperienze: <Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone?> (6, 3). Certo che lo è, ma è anche ben più di quello di cui sappiamo per certo già di Lui e di quello che presumiamo di sapere e di poter raccontare su di Lui… c’è qualcosa che ci sta ancora <insegnando> (6, 6) e che aspetta di essere ascoltato e di essere accolto per lasciarcene toccare fino a farcene trasformare… non solo come si corregge un alunno, ma anche come si aggiunge una correzione ad un buon caffè perché diventi ancora più buono!


1. BONAVENTURA, Meditazioni sulla vita di Cristo, Opera Omnia, t. 12, p. 530.

Correre

IV settimana T.O.

Un solo vangelo ci permette di entrare in modo assai particolare in due momenti di intima relazione tra il Signore Gesù e coloro che cercano in Lui quel conforto e quell’intimità che, sola, può sottrarre all’angoscia di non poter più sperare dopo aver dato fondo ad ogni speranza: <spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi peggiorando> (Mc 5, 26). Un padre, Giàiro, si fa prossimo al Signore per chiedere di interrompere la corsa della morte della sua figlioletta. Davanti all’“ultimatum” di un cuore sull’orlo dell’abisso di un lutto insostenibile decritto in tutta la sua ineluttabilità: <La mia figlioletta sta morendo> (5, 23), il Maestro non si tira indietro. Anzi non esita ad entrare interamente nell’angoscia di questo padre, mettendosi in cammino con lui e accanto a lui per andare a svegliare la ragazza che per il padre <sta morendo> e che forse si sta lasciando morire.

Come il padre Giàiro non vede niente altro che la vita di sua figlia, così il Signore accetta di entrare interamente nel suo stesso desiderio e, senza pensare a nulla e a nessuno, si volge verso la casa tanto da trascinare con sé <molta folla> (5, 24) in questa corsa controcorrente atta a fermare il flusso della morte. Eppure, c’è qualcun altro che ha bisogno della sua attenzione e che si accontenterebbe, ben volentieri, perfino delle briciole della sua considerazione così da decidere di toccarlo furtivamente e nascostamente. La reazione del Signore è di grande signorilità: la corsa contro la morte non gli rende impossibile di fermarsi senza riserve per dare tutta la sua attenzione a questa donna afflitta da <dodici anni> (5, 25) da una continua perdita di sangue. Questa perdita continua di vita deve lasciarla sempre profondamente stanca e prostrata, oltreché umiliarla gravemente, a motivo dello stato di impurità in cui continuamente viene a trovarsi secondo la Legge di Mosè e i tabù che circondano, da sempre e dovunque, il mistero del sangue mestruale.

Il Signore Gesù, che sicuramente deve tenere il passo di Giàiro, non esita a fermarsi e, per un attimo, fermare tutto e tutti: questa donna non va guarita distrattamente, ma va guardata diritto negli occhi e va riconosciuta in tutta la sua dignità. La fretta non rende Gesù per nulla frettoloso, ma lo tiene magnificamente attento e sensibile, non solo a ciò verso cui è in cammino, ma anche verso ciò che la strada ancora gli richiede. Dal Signore Gesù possiamo imparare ad essere intimi senza cedere all’intimismo. Ancora da Lui dobbiamo imparare ad essere decisi nel nostro cammino, mai frettolosi e, meno ancora, distratti. Dal Cristo ci è chiesto di imparare il giusto ritmo e il fiato adeguato per mettere in pratica l’esortazione della prima lettura: <corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento> (Eb 12, 1).

Meglio

IV settimana T.O.

Quello dell’indemoniato di Gerasa è uno dei racconti più circostanziati che l’evangelista Marco ci offre nel suo Vangelo. Il contesto è quello di una svolta nel cammino e nella missione del Signore Gesù. Per la prima volta Gesù unitamente ai suoi discepoli si lascia alle spalle la Giudea e s’inoltra dall’altra parte del Giordano. In quei luoghi, così vicini a Gerusalemme eppure così lontani, si sente maggiormente il peso e il giogo dell’occupazione straniera a motivo del pericolo più grande di essere quasi contaminati da ciò che si oppone alla purezza della fede. Il fatto che vi si allevino, in grande quantità, dei porci, è segno che qualcuno deve pure mangiarli! La terra è occupata da ciò che rischia di snaturarla. Così il cuore e la vita di quest’uomo, che esce incontro a Gesù dai sepolcri, è segnato da una sofferenza e da una rabbia che rischia di farlo vivere in uno stato più simile a quello degli animali – tra l’altro i più immondi – condannandolo ad una vita disumana.

L’indemoniato di Gerasa è interiormente combattuto tra il desiderio di uscire dallo stato in cui la sua vita è stata prostrata e il bisogno, fatto di abitudine e di strana, quanto dolorosa complicità, con il male che lo abita, tanto che una parte di sé si fa interprete del desiderio – meglio sarebbe dire del non-desiderio – del mondo in cui abita: è troppo presto per la salvezza! Sì, sarebbe bene riceverla, ma non troppo presto perché questo significa un incremento di vita che comporta una serie di cambiamenti e di imprescindibili rinunce. 

La parola pronunciata dalla Legione di demoni non è altro che l’espressione anticipata di ciò che gli abitanti della regione chiederanno al Signore Gesù: ritornarsene da dove era venuto perché è troppo presto per accogliere fino in fondo, e in pienezza, il dono di quella libertà fatta di molteplici e continue liberazioni dalle innumerevoli catene che ci tengono prigionieri e schiavi. Forse, proprio lo svantaggio di quell’uomo ormai ridotto allo stremo della vita, era proprio il fatto di non avere più niente da perdere, tanto da sentire in Gesù, la sua ultima possibilità per poter finalmente passare o di qua o di là: o nella vita o nella morte. La legione non è d’accordo, la gente del luogo neanche, non resta a Gesù che ritornarsene dall’altra parte del lago, dopo aver posto comunque, un segno forte e indimenticabile: la liberazione è possibile! A noi scegliere di aprire le porte e di accettare di entrare nella sua dinamica di liberazione e di vita.

I Geraseni non hanno dubbi sul da farsi: <si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio> (Mc 5, 17). I demoni, a loro volta, non avevano avuto alcun dubbio: <Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi> (5, 12). L’autore della Lettera agli Ebrei ci ricorda che Dio <aveva predisposto qualcosa di meglio> (Eb 11, 40). Ma il meglio che il Signore ci vuole offrire esige, sempre e comunque, la disponibilità a riprendere la strada della vita con una responsabilità e creatività veramente nuove che non ci permettono di <restare> (Mc 5, 18) ma ci chiedono, piuttosto, di andare sempre oltre.

Accogliere… la fragilità

Presentazione del Signore 

Nella festa di quest’oggi viviamo la pienezza di ciò che abbiamo celebrato nel Natale del Signore. A distanza di quaranta giorni il bambino Gesù viene portato dai suoi genitori nel tempio <come prescrive la legge del Signore> (Lc 2, 24). Lo spazio dell’osservanza si dilata in un’eccedenza di accoglienza, di gioia, di scambio, di reciproco riconoscimento nei cui segni già si prefigura il senso profondo di ciò che sarà l’annuncio del Vangelo. La consuetudine prevista e prescritta dalla Legge si dilata in un abbraccio amorevole, imprevisto, che si fa pregusto di ciò che avverrà sulle strade di Palestina al passaggio del Signore Gesù. La profezia e la primizia di quelli che saranno gli incontri di Gesù è affidata alle <braccia> (Lc 2, 28) callose di Simeone e all’amorevole parlantina di una <profetessa> (2, 36). Anna rompe gli indugi della discrezione propria di Giuseppe e Maria per indicare a tutti l’aurora già rilucente della <redenzione di Gerusalemme> (2, 38). Con l’abbraccio di Simeone ed Anna nel tempio si incontra il vecchio e il nuovo, la paziente attesa e lo spumeggiante compimento, la saggezza provata di due anziani invecchiati nella fedeltà e nella preghiera, e un bambino che porta sulla terra il profumo del cielo.

Ciò che si consuma nel Tempio è ciò che siamo chiamati a celebrare e a rendere possibile con le nostre scelte nella vita quotidiana: l’incontro festoso tra le differenze più evidenti come può essere un neonato di quaranta giorni e una donna di ottantaquattro anni. La venuta del Signore nella casa della nostra umanità ci permette di non temere più alcuna differenza soprattutto di non avere paura di nessuna fragilità: né quella degli anziani, né quella dei bambini, tra le quali si consumano e si patiscono le vulnerabilità di ogni età e di ogni passo. Anzi, la differenza nella fragilità accende la luce che contrassegna in modo del tutto particolare la festa delle luci o Candelora che abbiamo la gioia di celebrare in questo giorno. La parola della seconda lettura ci conforta: <proprio per essere stato messo alla prova e aver sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova> (Eb 2, 18). Il profeta sembra quasi rincarare la dose: <Siederà per fondere e purificherà l’argento; purificherà i figli di Levi, li affinerà come oro e argento, perché possano offrire al Signore un’offerta secondo giustizia> (Mal 3, 3). Purificazione è un altro modo per indicare la festa odierna.

Guidati dal bambino Gesù che viene accolto nel Tempio dal Padre suo come promessa e premessa di ogni accoglienza, siamo chiamati a percorre anche noi la strada che sale verso gli atri del Signore per farci accogliere dalla misericordia e poterci così accogliere personalmente e reciprocamente. La parola di Simeone rivolta a Maria è per ciascuno di noi: <anche a te una spada trafiggerà l’anima, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori> (Lc 2, 35). I primi pensieri ad essere svelati per essere purificati sono quelli del nostro cuore talora così lento ad accogliere e farsi accogliere in quella fragilità che il Figlio di Dio ha sposato nel mistero della sua incarnazione.

Accueillir… la fragilité

Présentation du Seigneur  –

En la fête de ce jour, nous vivons la plénitude de ce que nous avons célébré à Noël. Quarante jours après, l’enfant Jésus est porté par ses parents au temple «  comme le prescrit la loi du Seigneur » ( Lc 2, 24 ). L’étendue de l’observance se dilate en un excédent d’accueil, de joie, d’échange, de reconnaissance réciproque dont les signes préfigurent déjà le sens profond de ce que sera l’annonce de l’Evangile. La coutume prévue et prescrite par la Loi s’élargit en un embrassement amoureux, imprévu qui nous donne un avant-goût de ce qui arrivera sur les routes de Palestine au passage du Seigneur Jésus. La prophétie et la priorité de ce que seront les rencontres de Jésus est confiée  aux «  bras » calleux de Siméon et au commérage d’une «  prophétesse » ( 2, 36 ). Anne rompt les craintes de la discrétion propre à Joseph et à Marie pour indiquer à tous l’aurore déjà reluisante de la «  rédemption de Jérusalem » ( 2, 38 ). Avec l’embrasement de Siméon et la présence d’Anne dans le temple, l’on côtoie l’ancien et le nouveau, l’attente patiente et l’accomplissement exubérant, la sagesse prouvée de deux anciens vieillissants dans la fidélité et la prière, et un enfant qui porte le parfum du ciel sur terre.

Ce qui se joue dans le Temple est ce que nous sommes appelés à célébrer et à rendre possible par nos choix dans la vie quotidienne : la rencontre festive entre les différences les plus évidentes comme peuvent être un nouveau-né de quarante jours et une femme de quatre-vingt-quatre ans. La venue du Seigneur dans la maison de notre humanité nous permet de ne plus craindre aucune différence, surtout de ne plus avoir peur d’aucune fragilité : ni de celle des anciens, ni de celle des enfants, parmi lesquelles se jouent et sont subies les vulnérabilités de tout âge et de chaque étape. Et, même, la différence dans la fragilité active la lumière qui désigne de façon toute particulière la fête des lumières- la Chandeleur – que nous avons la joie de célébrer en ce jour. La parole de la seconde lecture nous conforte : «  parce qu’il a été mis à l’épreuve et qu’il a souffert personnellement, il est en état de venir en aide à ceux qui subissent l’épreuve » ( He 2, 18 ). Le prophète semble encore surenchérir : « Il siégera pour fondre et purifier l’argent ; il purifiera les fils de Levi, les affinera comme l’or et l’argent pour qu’ils puissent offrir au Seigneur une offrande selon la justice » ( Ma 3,3 ). La purification est une autre façon de nommer la fête de ce jour.

Guidés par l’enfant Jésus qui est accueilli au Temple par son Père comme une promesse et  prémisses de tout accueil, nous sommes appelés à parcourir nous aussi la route qui monte  vers la grande salle du Seigneur pour y être accueillis par la miséricorde et pouvoir ainsi nous accueillir personnellement et réciproquement. La parole de Siméon adressée à Marie est pour chacun de nous « une épée te transpercera aussi l’âme afin que soient dévoilés les pensées de beaucoup de coeurs »( Lc 2, 35 ). La première pensée à être révélées pour être purifiées sont celles de notre coeur si lent à accueillir et à se laisser accueillir dans cette fragilité que le Fils de Dieu a épousée dans le mystère de son incarnation.

Decidersi

III settimana T.O.

Non c’è tempo da perdere e soprattutto non possiamo addossare al Signore Gesù la responsabilità della nostra paura e del nostro turbamento. Se il Signore dorme beatamente è perché il suo cuore non è scosso dalle onde del mare che significano gli assalti del male che cerca – proprio come l’acqua di un lago o mare in tempesta – di insinuarsi nella barca della vita snaturandola attraverso il turbamento. La paura trasforma la barca, da mezzo che permette di navigare placidamente, in relitto che trascina a fondo. La barca è sempre barca, come ognuno di noi è sempre se stesso, la differenza si crea a motivo di come lasciamo che le forze dell’esterno corrodano la nostra fede fino ad annientarla. La prima lettura ci dà una bellissima occasione per riflettere e per discernere il nostro cammino alla luce di quanti, in quel medesimo cammino, ci hanno preceduto, non certo con minori difficoltà di quelle che viviamo noi stessi.

La lunga e stupenda litania sulla fede dei nostri padri e delle nostre madri in cui sono ricapitolati e significati i cammini di tutti gli uomini e di tutte le donne di cui la storia non ha registrato i nomi, ma di cui serba indelebile memoria delle segrete ferite e delle gloriose, seppur invisibili piaghe, è come la risposta all’invito che il Signore sussurra all’orecchio dei suoi discepoli: <Passiamo all’altra riva> (Mc 4, 35). Da parte nostra rischiamo di sottovalutare il rischio inerente all’accoglienza di questo invito del Signore, pensando che il fatto di camminare attraverso le acque in sua compagnia ci esima da ogni pericolo… e invece: <ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca> (4, 37). Come i discepoli e ben prima di loro, lo stesso padre Abramo, <chiamato da Dio> (Eb 11, 8), forse si mise in marcia con la speranza di trovare ben presto una dimora per sé e una fecondità per la sua stirpe e, invece, quanto dovette attendere non solo quando <partì senza sapere dove andava>, ma per tutto l’intero percorso della sua vita: <egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso> (11, 10).

A nostra volta siamo chiamati ad imbarcarci sulla barca con il Signore Gesù e ciò significa sempre e comunque accettare di lasciarsi alle spalle la terraferma delle certezze per navigare nell’incerto mare della fede che è <fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede> (11, 1). La domanda che si pone è circa il motivo per cui il Signore Gesù permette un’esperienza come quella vissuta dai discepoli in mezzo al mare in tempesta tanto da indurli a implorarlo e quasi a rimproverarlo: <Maestro, non t’importa che siamo perduti?> (Mc 4, 38). L’esperienza dello smarrimento in mezzo alla tempesta conclude i racconti delle parabole e, forse, è un modo per il Signore di aiutare i suoi discepoli ad interpretare le parabole e ad applicarle alla loro vita. Ciò che in realtà può veramente uccidere quel seme che viene affidato alla terra del nostro cuore perché fruttifichi è proprio la paura di cui i discepoli sono costretti a prendere coscienza e che il Signore non esita a denunciare: <Perché avete paura? Non avete ancora fede?> (4, 40).

Due domande che ci scarnificano, soprattutto nel contesto della memoria dei padri e delle madri nella fede che furono <approvati da Dio> (Eb 11, 2). Con loro e come loro siamo chiamati attraversare il mare delle nostre inerzie per porci nel dinamismo dello Spirito. 

Parabole

III settimana T.O.

Il Signore Gesù <Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere> (Mc 4, 33). Oggi le due parabole del vangelo ci ricordano due cose essenziali per il nostro cammino di fede: di non essere mai angosciati per il cammino di crescita che il seme della Presenza in noi comunque continua a vivere. Inoltre ci esorta a non essere mai impressionati e allarmati dall’esperienza della piccolezza e della fragilità. Il Signore Gesù ce lo dice con immagini forti, ma anche profondamente belle e consolanti. La prima risuona come un invito alla serenità: <Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga> (4, 28). La seconda è un modo per riconciliarci con la nostra esperienza di fragilità e rinnovare in noi la fiducia: <E’ come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno> (4, 31). Come ricorda Adrienne von Speyr: <La grazia di Dio ricolma la Parola seminata di una forza assoluta di crescita. Se una parola piena di grazia, una parola che possiede un po’ della forza di Dio, cade dentro di noi, germoglierà. Non abbiamo nessun bisogno di guadare ogni momento con angoscia se il seminatore si occupa di noi o meno. Il seme cresce se viene da Dio>. La stessa mistica conclude dicendo: <che non ci accada di tenere per noi stessi il seme che germoglia dentro di noi>1

L’autore della Lettera agli Ebrei sembra completare le parabole di Gesù aiutandoci a fare della nostra stessa vita una vera parabola: <Non abbandonate dunque la vostra franchezza, alla quale è riservata una grande ricompensa> e aggiunge <Avete soltanto bisogno di perseveranza, perché, fatta la volontà di Dio, otteniate ciò che vi è stato promesso> (Eb 10, 35-36). Le immagini sembrano completarsi: la fiducia cui ci invita il Signore Gesù è, in realtà, un vero combattimento contro tutto ciò che dentro di noi attenta al risplendere di quella <luce> (10, 32) che abbiamo ricevuto come dono e di cui siamo responsabili. Se non entriamo in questo flusso è come se ci condannassimo alle tenebre di una interiore sterilità: <Il mio giusto per fede vivrà; ma se cede, non porrò in lui il mio amore> (10, 38). Potremmo chiederci in cosa mai possa consistere il cedere di un seme. Il regno di Dio infatti, prima ancora che nel seme, si ritrova nel gesto umile, quotidiano di gettare il seme e di cui siamo chiamati a farci imitatori. È sempre in agguato la tentazione di pensare che Dio con la sua potenza dovrebbe sigillare con il successo le nostre opere, studiate accuratamente a tavolino o dare futuro alle nostre strategie, soprattutto a quelle spirituali e “pastorali”. Il Signore ci invita ad entrare nel suo regno chiedendoci di assumerne la logica che ha la potenza propria di un piccolo seme che rimane serenamente piccolo, senza smettere di portare in sé la potenza di una vita che è semplicemente la sua e che, paradossalmente, è tutto il suo segreto.


1. A. von SPEYR, Saint Marc, Socéval, 2006, p. 198.