Profeta

VI Domenica T.O. 

Il Signore Gesù che si era presentato nella sinagoga di Nazareth come profeta oggi ci parla proprio nello spirito, nella forza e nell’audacia dei grandi profeti di Israele. La prima lettura tratta da Geremia – il profeta per antonomasia con Elia – ci mette subito sulla strada giusta per capire il genere letterario del discorso tenuto da Gesù. Si tratta per il discepolo di acquisire la capacità profetica di leggere la realtà, di valutarla e di giudicarla in modo chiaro e netto: <Maledetto l’uomo che confida nell’uomo […] Benedetto l’uomo che confida nel Signore> (Gr 17, 5.7). Gesù traduce queste parole in <Beati… Guai a voi>. Questa sorta di sfondo profetico lo si ritrova come un ritornello nel testo: <facevano i loro padri con i profeti […] facevano i loro padri con i falsi profeti> (Lc 6, 23. 26).

La parte specificamente lucana di <Guai> – termine che si trova appunto nei libri profetici e nell’Apocalisse libro profetico per eccellenza dove i “Guai” si alternano ai “Beati” – permette di cogliere la differenza di orizzonte che c’è tra il discorso delle Beatitudini a cui tutti automaticamente pensiamo nella redazione matteana e quello ben più imbarazzante di Luca. Da parte sua Matteo fa pronunciare questo discorso sul monte (Mt 5, 1) mentre Luca tiene a sottolineare proprio che <Gesù disceso con i dodici, si fermò in un luogo pianeggiante […] e diceva> (Lc 6, 17.20). In Matteo si sottolinea la veste Magisteriale mentre Luca ama presentare Gesù come profeta che sta non sul monte – appunto come Mosé – ma sul piano, ossia nel campo di battaglia in mezzo ai suoi discepoli e non ancora discepoli che lottano nell’interpretazione della vita e della storia. Il Signore Gesù sembra sguainare la spada della sua parola per dividere in due parti i suoi ascoltatori a cui si rivolge in modo assai diretto. Gesù osa contrapporre gli uni agli altri, la logica di Dio a quella degli uomini e lo fa senza mezzi termini.

Ma chi è il profeta? Cosa significa esercitare la profezia che ci è stata infusa con il dono battesimale e l’unzione crismale? Se il profeta vede e dice le cose che gli altri ancora non vedono – come nel caso di Geremia – leggendo la realtà prima e oltre le teste altrui la prova che sia un profeta mandato Dio sta nella sua capacità di dare la vita – tutta la vita – per ciò di cui si fa messaggero nel qui e ora della storia. Solo il profeta infatti è uomo veramente attuale poiché egli vive il presente sempre come una fatica di transizione tra passato e futuro. Il termine greco che traduciamo con <Rallegratevi> (Lc 6, 23) in greco – sirtachéte – indica il saltellare proprio della danza. E nella danza tutta l’attenzione deve essere sul passo successivo, sul futuro incombente dello svolgersi armonioso della danza in cui ciascuno è chiamato a muoversi verso il dopo, verso l’altro continuamente dimentico del passato e dei passi già compiuti. Per questo e in questo modo il profeta è sempre colui che richiama certo al tempo passato della fedeltà e dell’amore nella sua qualità di tempo aperto al futuro, al desiderio, all’incremento, all’ad-ventura.

Non c’è profezia senza rischio, non c’è beatitudine e felicità degni di questo nome se non a rischio della vita. Così la parola di Paolo si fa assai tagliente nel porre in relazione strettissima vita e morte: <Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti> (1Cor 15, 20). E se Cristo fu messo a morte fu a motivo del suo essere considerato ed etichettato come un “falso profeta” mentre era un “vero profeta” capace di mettere a nudo la falsità di quanti ricchi e sazi, gaudenti e stimati invece di servire Dio si servivano di lui per essere serviti e non per servire.

Prophète

VI Dimanche T.O. –

Le Seigneur Jésus qui s’était présenté à la synagogue de Nazareth comme prophète, nous parle précisément aujourd’hui dans l’esprit, la force et l’audace des grands prophètes d’Israël. La première lecture concerne Jérémie – le prophète  en antonomase avec Elie –  et nous met immédiatement sur la bonne route pour comprendre le genre littéraire du discours tenu par Jésus. Il s’agit pour le disciple d’acquérir la capacité prophétique de lire la réalité, de l’évaluer et de la juger de façon claire et nette : «  Malheur à l’homme qui se confie dans l’homme (…) Béni l’homme qui se confie dans le Seigneur ( Jr 17, 5-7 ). Jésus traduit ces paroles en «  Bienheureux…Malheur à vous ». Cette espèce d’arrière-plan prophétique se retrouve comme un refrain dans le texte : « leurs pères ont fait de même aux prophètes (…) leurs pères ont fait de même avec les faux prophètes » ( Lc 6, 23-26 ).

La partie spécifiquement attribuée à Luc des «  Malheur » – terme que l’on trouve justement dans les livres prophétiques et dans l’Apocalypse, livre prophétique par excellence où les «  Malheur » alternent avec les «  Bienheureux» – permet de pointer la différence d’horizons qu’il y a entre le discours des Béatitudes auquel nous pensons automatiquement dans la rédaction de Mathieu et celle bien plus embarrassante de Luc. De son côté, Mathieu fait prononcer ce discours sur la montagne ( Mt 5,1 ), alors que Luc tient à bien souligner que «  Jésus descendit avec les douze et s’arrêta dans  un plateau (…) et dit » ( Lc  6, 17-20 ). Dans Mathieu, l’on souligne l’ampleur magistrale alors que Lc aime présenter Jésus comme un prophète qui n’est pas sur la montagne  – comme Moïse- mais dans la plaine, comme dans un  champ de bataille au milieu de ses disciples et des non encore disciples qui luttent pour l’interprétation de la vie et de l’Histoire. Le Seigneur Jésus semble dégainer l’épée de sa parole  pour diviser en deux partie ses auditeurs à qui il s’adresse de façon plutôt directe. Jésus ose opposer les uns aux autres, la logique de Dieu à celle des hommes, et il le fait sans demi-mesure.

Mais qui est le prophète ? Que signifie pratiquer la prophétie qui nous a été infusée par le don du baptême et de l’onction chrismale ? Si le prophète voit et dit les choses que les autres ne voient pas encore – dans le cas de Jérémie – en lisant la réalité avant et au-delà des textes des autres –  la preuve qu’il est un prophète envoyé par Dieu réside dans sa capacité à donner la vie – toute la vie – pour ce dont il se fait le messager dans l’ici et maintenant de l’Histoire. En fait, seul un prophète est un homme vraiment actuel car il vit toujours le présent comme une difficulté de transition entre passé et futur. Le terme grec que nous traduisons par «  réjouissez-vous » ( Lc 6, 23 ) – sirtachéte – en grec – indique le sautillement propre à la danse. Et dans la danse, toute l’attention doit se porter sur les pas successifs, sur celui à venir, incombant le retournement harmonique de la danse où chacun est appelé à se tourner vers l’après, vers l’autre en oubliant continuellement le pas ou les pas déjà accomplis. Pour cela et de cette façon, le prophète est toujours celui qui, de manière sûre, réclame au temps passé la fidélité et l’amour dans sa qualité de temps ouvert au futur, au désir, à l’accroissement, à l’ad-ventura.

Il n’y a pas de prophétie sans risque, il n’y a pas de béatitude sans bonheur digne de ce nom sinon à risquer la vie. Ainsi la parole de Paul se fait assez mordante  en mettant en relation étroite vie et mort : « Mais, désormais, Christ est ressuscité des morts, premier de ceux qui sont morts » ( 1 Co 15, 20 ). Et, si le Christ fut mis à mort, c’est parce qu’il fut considéré et étiqueté comme un «  faux prophète », alors qu’il était un «  vrai prophète » capable de mettre à nu la fausseté de tous ceux, riches et repus, profiteurs et estimés, qui, au lieu de servir Dieu se servirent de lui pour être servis et non pour servir.

Contrasto?

V settimana

Il testo evangelico ci mette di fronte al grande mistero della <compassione> (Mc 8, 2) del Signore Gesù, il quale ha occhi e cuore per la folla di coloro che lo seguono e di cui egli stesso dice <mi stanno dietro e non hanno da mangiare>. Questo modo di leggere l’atteggiamento della folla da parte del Signore non può non toccarci profondamente e personalmente! Questa gente ci rappresenta molto bene, poiché anche noi siamo come quei <cagnolini> (Mc 7, 27-28), di cui si è parlato poco prima, che sperano le <briciole> necessarie a vivere e a non morire. Il Signore non si accontenta di dare le briciole bensì sazia la fame di queste persone fino a far sì che il pane avanzi. Infatti, il testo conclude dicendo che <portarono via sette sporte di pezzi avanzati> (Mc 8, 8) per indicare l’atteggiamento non di fredda compassione ma di una compassione coinvolta e coinvolgente. Di certo la lettura di questo testo evangelico può creare un po’ di imbarazzo nella rilettura della reazione del Signore Dio al cedimento di Adamo ed Eva alle istigazioni del serpente: <lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto> (Gn 3, 23). 

Eppure, una lettura attenta del testo genesiaco ci permette di cogliere come e quanto il Signore si prende cura dell’uomo aiutandolo e sostenendolo nel compito nuovo di portare il peso della sua libertà fino ad imparare ad esercitare – al meglio – ciò che finora non è stato capace di vivere se non in modo superficiale e infantile. Infatti, non deve sfuggire il fatto che il Signore Dio non si abbatte come una furia sull’uomo e la donna che hanno appena trasgredito il comando. L’intreccio del dialogo che porterà ad una netta separazione comincia con una domanda: <Dove sei?> (Gn 3, 9). Proprio a partire da questa umilissima domanda che Dio pone all’uomo possiamo e dobbiamo interpretare la serie di risoluzioni che seguono nel testo e che culminano in quel terribile: <scacciò l’uomo> (3, 24). Solo se leggiamo superficialmente i testi e soprattutto solo se dimentichiamo l’immensa e multiforme cura con cui Dio ha creato l’uomo mettendolo in condizione di cercare la felicità possiamo sentire il testo del vangelo in contrasto con quello della Genesi. 

La <compassione> (Mc 8, 2) che induce il Signore Gesù a moltiplicare per la seconda volta il pane (cfr. Mc 6, 34ss) è la stessa che spinge il Creatore a moltiplicare i comandi dopo aver dato il comandamento perché l’umanità possa imparare al meglio a gestire la propria libertà per la vera felicità. Infatti, è un gesto di infinita e costosa compassione quella con cui il Creatore mette l’uomo sulla strada del ritorno alla relazione con Lui: ma quale ritorno sarebbe possibile senza una esperienza di separazione? Quale nostalgia sarebbe possibile senza far percepire il dolore di essere stato così frainteso? Il più grande gesto di compassione è infatti dare la possibilità di sentire compassione… sì, compassione per Dio!

Davanti

Santi Cirillo e Metodio

La scelta di papa Giovanni Paolo II di proclamare i santi Cirillo e Metodio co-patroni d’Europa con san Benedetto, è stato non solo un atto di coraggio, per uscire da una visione troppo centrata sull’Occidente anche a livello di santità, ma è stato pure un atto di giustizia. Celebrare la memoria di questi due fratelli, significa fare memoria di quanto e di come la Chiesa sia da sempre una realtà ampia, diversificata e segnata da una ricchezza che rischia di essere troppo facilmente dimenticata. Fare memoria di tutto questo non significa affatto lanciarsi in un’opera di autoglorificazione, al contrario, è un atto di umile accoglienza di quel desiderio di Dio che si fa disegno di salvezza per tutti. L’evangelista Luca ci mostra il Signore che designa <altri settantadue> per inviarli < a due a due davanti a sé> (Lc 10, 1). In questo semplice versetto possiamo trovare almeno due indicazioni fondamentali per il cammino della Chiesa in ogni tempo e in ogni luogo. La prima è che il Signore continua a chiamare alcuni per continuare e amplificare l’opera di evangelizzazione affidata agli apostoli. La seconda è la sottolineatura, sempre necessaria di come ogni annuncio non può che essere penultimo e semplicemente preparatorio.

I settantadue discepoli sono chiamati ad andare <davanti> al Signore senza mai mettersi davanti a Lui, ma mantenendosi in una disponibilità assoluta a cedergli il posto. Il profeta Isaia sembra esaltato quando dice: <Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza> (Is 52, 7). Così pure non dobbiamo mai dimenticare come una delle prime esperienze degli apostoli dopo la risurrezione del Signore e il dono dello Spirito Santo sia stata proprio l’umile apprendistato di una universalità non facile da immaginare e ancora meno facile da vivere. Eppure, la disponibilità operosa ad ampliare sempre di più il raggio dell’annuncio della salvezza ha creato le condizioni per un cambiamento profondo del mondo in cui viviamo nel quale, nonostante tutte le contraddizioni e tutte le ambiguità, il seme del Vangelo si è radicato al cuore di un desiderio di crescita comune verso il bene di ciascuno.

Dovremmo sperare che anche per i “lontani” del nostro tempo si possa verificare la possibilità evocata dal testo degli Atti degli Apostoli: <Nell’udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore> (At 13, 48). Come ebbe a dire Benedetto XVI: <In effetti, Cirillo e Metodio costituiscono un esempio classico di ciò che oggi si indica col termine “inculturazione”: ogni popolo deve calare nella propria cultura il messaggio rivelato ed esprimerne la verità salvifica con il linguaggio che gli è proprio. Questo suppone un lavoro di “traduzione” molto impegnativo, perché richiede l’individuazione di termini adeguati a riproporre, senza tradirla, la ricchezza della Parola rivelata. Di ciò i due santi Fratelli hanno lasciato una testimonianza quanto mai significativa, alla quale la Chiesa guarda anche oggi per trarne ispirazione ed orientamento>1.


1. BENEDETTO XVI, Udienza del 17 Giugno 2009.

Disposto a tutto

V settimana T.O.

Abbiamo immaginato nei giorni scorsi – forse con un eccesso di audacia – che il Signore Dio abbia creato il mondo cantando. Oggi vediamo che l’uomo creato <a sua immagine e somiglianza> (Gn 1, 26) intona l’inno dell’amore proprio prorompendo in un canto, il primo che troviamo nelle Scritture, e che risuona così:<Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta> (Gn 2, 23). La forza di bellezza di questo canto assume tutta la sua profondità se teniamo presente che arriva dopo un lungo lavoro di immaginazione da parte del Signore Dio per aiutare l’uomo ad uscire da uno stato che oggi chiameremmo di depressione. Il Signore ben presto si rende conto di quanto la perfezione della creazione di Adamo pensato come un essere in esclusiva relazione con Dio non lo rende felice. Il Signore Dio non ha paura di constatare: <Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda> (2, 18).

Comincia così quella che potremmo chiamare l’avventura delle relazioni all’interno della creazione che, invece di essere, già data e già scontata procede per tentativi. Il primo di questi tentativi riguarda la creazione degli animali e il cedere da parte di Dio all’uomo il privilegio di dare loro un nome <in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome> (2, 19). Dio è disposto a tutto persino a cambiare il modo della creazione purché l’uomo creato in una solitudine, che voleva essere di intimità e non di isolamento, possa diventare realmente felice. Forse è questa medesima attitudine che sta al cuore del Signore Gesù nei confronti di quella donna che <lo supplicava di scacciare il demonio da sua figlia> (Mc 7, 25) e che <era di lingua greca e di origine siro-fenicia> (7, 26). Si crea un forte conflitto tra il Signore Gesù e questa donna. In realtà non è un conflitto di rifiuto bensì una parola scambiata in una franchezza tale – da ambedue le parti – da creare le condizioni per andare oltre i confini e i limiti già conosciuti.

Il Signore Dio nel Giardino dell’Eden e il Signore Gesù <nella regione di Tiro> (7, 24) sanno scendere dal loro piedistallo per farsi interrogare e persino cambiare dall’incontro con l’altro che si pone di fronte come un appello ad una relazione capace di interagire e non semplicemente di imporsi. Ogni giorno ci è dato per imparare ad essere creature sempre più conformi al nostro Creatore dando prova, come Dio, di essere capaci di una fedeltà creativa e non immobile e concentrata sulla propria preservazione. La coscienza di un Dio disposto a tutto per la felicità delle sue creature non può che creare nel nostro stesso cuore una disposizione ad essere capaci di osare nuovi cammini, inediti linguaggi, inimmaginati percorsi per dare uno spazio sempre più adeguato al mistero della vita che è un dono da condividere e da accrescere.

Rivoluzione

V settimana T.O.

Quella apportata dal Signore Gesù è una vera e propria rivoluzione capace di creare le condizioni per una vera e continua ricreazione: <Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va nella fogna?> (Mc 7, 18-19). Con queste parole, dapprima rivolte alla folla e infine ribadite ancora in modo più preciso ai discepoli <in una casa lontano dalla folla> (7, 17), non solo il Signore Gesù <rendeva puri tutti gli alimenti> (7, 19), ma richiamava l’attenzione sulla necessità di rendere puri tutti gli atteggiamenti e le intenzioni più segrete e profonde. Leggere questo testo così importante e così liberante che lo stesso Simon Pietro dimostrerà di far fatica a capire fino in fono persino dopo la Pasqua visto il suo turbamento davanti alla richiesta del centurione Cornelio di entrare nella sua casa, preceduto dal secondo racconto della creazione diventa ancora più interessante tanto da risultare quasi intrigante.

Infatti dopo avere creato l’uomo e avergli donato al compagnia delle creature, come dono ulteriore e garanzia di ogni possibile dono <Dio diede questo comando all’uomo: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire”> (Gn 2, 16-17). Il comando che Dio dà all’uomo rappresenta la creazione e il dono più grande che all’uomo possa essere fatto: il dono della libertà che è impossibile da sperimentare e da vivere se non c’è nulla da scegliere e non ci si trova mai di fronte alla necessità di scegliere se rimanere o meno fedeli ad una relazione attraverso la fedeltà ad un’alleanza.

La prima parola di Dio all’uomo è rassicurativa: <tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino>, ma vi è un albero che rappresenta la memoria che non tutto è mangiabile e che vi è anche qualcosa che nella vita bisogna saper guardare senza cedere alla tentazione di impossessarsene. L’invito sembra essere quello di andare oltre il livello del bisogno per accedere a quello del desiderio che non è necessariamente appagamento, ma può essere esercitato nella capacità così umanizzante della contemplazione che comporta l’atto di libertà di non mangiare pur potendolo. La parola del Signore Gesù ci porta lontano eppure nella medesima direzione del comandamento di che il Signore Dio dà all’uomo per garantire e far crescere la relazione di fiducia. Tutti gli alimenti sono puri, ciò che è in gioco non è la paura che qualcosa dall’esterno possa contaminare la nostra capacità di umanizzare, ma che dall’interno nascano le intenzioni e i pensieri cattivi che sono il frutto dell’incapacità a simbolizzare, ossia a non essere più in grado di andare oltre il commestibile per accedere alla relazione che non consuma, ma fa esistere e crescere la relazione con l’altro.

An-nullare

V settimana T.O.

La continuazione della lettura di come il Signore Dio abbia creato il mondo, riempie il cuore di stupore, di meraviglia e di canto: <O Signore, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra> (Salmo responsoriale). L’atto di creazione si pone in una gratuità immensa che non può assolutamente sopportare l’idea di una sorta di ricambio se non quello che nasce da un amore, così meravigliato, da farsi sempre più capace di attenzione e di cura. La parola che il Signore Gesù rivolge ai farisei tocca il cuore del mistero della creazione: <Così annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi> e aggiunge, quasi per evitare di non essere preso sufficientemente sul serio, <E di cose simili ne fate molte> (Mc 7, 12-13). Ciò che guasta il lodevole atteggiamento dei farisei non è la loro scrupolosa osservanza, ma il fatto che essa divenga la misura assoluta per misurare il mondo e per giudicare i propri simili sempre e solo a partire da se stessi, senza mai avere il coraggio e la semplicità di lasciarsi interrogare dal mistero di una vita che non può che essere ben più grande della nostra personale esperienza di vita.

Con questo atteggiamento tipicamente farisaico, da cui non siamo mai abbastanza al sicuro, è come se venisse ferito quel progetto di Dio di cui la creazione è effluvio. Come spiega magnificamente Simone Weil: <La creazione non è un atto di espansione, ma di rinuncia>1. La creazione è, non solo un infinito atto d’amore, ma è un’esperienza d’amore che per sua natura limita se stesso per permettere ad altro di svilupparsi e di crescere fino alla sua propria pienezza. Ce lo attesta e ce lo ricorda il libro delle Genesi quando non si accontenta di ritrarre Dio come potente creatore, ma quando fa sorgere sulla sua bocca la benedizione attraverso cui subito si ritrae, per permettere alle creature di essere se stesse e di essere profondamente libere: <Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che strisci sulla terra> (Gn 1, 28). 

Per questo che Simone Weil può affermare con la sicurezza che ne caratterizza non solo il pensiero, ma soprattutto la sua vita che ogni forma o interpretazione religiosa, in cui si esalti unilateralmente il dominio. non può che essere falsa, in quanto non conforme all’attitudine che sta all’origine dell’atto di creazione. La generosità divina che contempliamo nell’opera della creazione è la stessa compassione che si rivelerà nella passione e nella croce. Per questo ogni <tradizione> (Mc 7, 5) va riletta e purificata nella duplice aspersione – non certo rituale, ma profondamente esistenziale – della generosità e della compassione. In quest’orizzonte, se si può sopportare qualche “risciacquo” in meno, non è assolutamente accettabile che qualcuno riduca a nulla la parola di Dio per cui <Se uno dichiara al padre o alla madre: Ciò con cui dovrei aiutarti è korbàn, cioè offerta a Dio…> (7, 11) lo mettete contro Dio perché, in realtà, ne annulla l’opera impoverendo l’amore.


1. S. WEIL, Forme dell’amore implicito di Dio, p. 5.

Salvati

V settimana T.O.

L’ultima parola che troviamo nel vangelo può essere assunta come la parola che precede quella che il Signore Dio pronuncia nella creazione: <e quanti lo toccavano venivano salvati> (Mc 6, 56). Di fatto, le dieci parole con cui Dio crea il mondo non sono altro che un’opera di salvezza capace di trarre, dal caos originario, la vita. Quest’opera di creazione avviene attraverso l’opera dello Spirito che <aleggiava sulle acque> (Gn 1, 2). La presenza divina, che cova l’universo con lo stesso amore e la stessa cura con la quale si attende lo schiudersi delle uova, con il suo alito di vita accompagna amorevolmente il balbettio dell’esistenza nell’ordine della bellezza e della bontà. Ogni mattina, l’opera della creazione riprende il suo cammino nella speranza segreta di raggiungere un grado ancora più alto, e più profondo, di bellezza e di bontà.

Questo avviene nella misura in cui le maree della vita ci fanno approdare sempre di più a Gesù. Il dono della creazione è, infatti, un’opera che siamo chiamati a completare e far progredire, ogni giorno, nella e attraverso la nostra vita. Questo lo attueremo nella misura in cui, come la folla che il Signore Gesù trova a Gennèsaret, cercheremo di stabilire un contatto con la sua persona capace di ritemprare in noi l’energia della vita, tanto da dilatarne e ottimizzarne le possibilità. Mentre contempliamo i primi quattro giorni della creazione quando la terra sembra essere non solo sempre più illuminata, ma pure sempre più luminosa, possiamo guardare all’intimità del nostro cuore per approfondire ancora di più il contatto con il Signore Gesù nelle profondità, talora così caotiche, della nostra intimità. 

Il Maestro passa ancora accanto alla nostra vita e così ci permette di sperimentare la gioia di essere <salvati> (Mc 6, 56). Se la creazione è il tocco con cui Dio trae dal nulla e dal caos la bellezza, la bontà e la verità della creazione, l’esperienza di salvezza passa attraverso il nostro desiderio di essere toccati e di essere trasformati dall’accoglienza del passaggio di Dio nella nostra esistenza cercando di toccare <almeno il lembo del suo mantello>. Spesso pensiamo alla creazione come a qualcosa che sta alle nostre spalle e di cui ci sentiamo, talora, semplicemente spettatori. Essa, invece, è davanti a noi ed è, soprattutto, dentro di noi! L’amore preveniente e gratuito del Creatore continua ad accompagnare la nostra vita, giorno dopo giorno, in una creazione continua che è l’esperienza di una continua salvezza. Essa, proprio come la creazione di cui siamo parte, è certamente un dono, ma è pure una realtà che richiede non solo la nostra ammirazione, ma pure la nostra generosa collaborazione.

Il primo passo è quello di desiderare, per se stessi e per gli altri, un di più di vita tanto che <accorrendo da tutta quella regione, cominciarono a portargli sulle barelle i malati, dovunque udivano che egli si trovasse> (Mc 6, 55).

Carbone ardente

V Domenica T.O. 

La folla assedia il Signore Gesù ed è tutta intenta ad <ascoltare la Parola di Dio> (…), ma il Signore Gesù <vide> oltre, vede oltre. Accanto a questa folla c’è qualcuno che sembra non essere interessato, non avere voglia di ascoltare… troppo o giustamente preso da troppa fatica di vivere. Il Signore ha una parola che sembra non essere Parola di Dio, ma che è una parola tra uomini capace di intercettare il vissuto più vero e più doloroso… tutto può cominciare.

Lo sgomento di Simone è lo stesso sgomento di Isaia che, in realtà, è per Paolo una sorta di memoria incandescente che continuamente purifica e accende l’anima. L’apostolo parla di se stesso come del <più piccolo tra gli apostoli> (1Cor 15, 9) e, al contempo, è ben cosciente di avere il compito sublime di farsi annunciatore del <Vangelo> (15, 1) cercando in tutti i modi di preservarlo da ogni contaminazione e da ogni annacquamento che ne impoverisse la forza trasformatrice della storia e della vita di chiunque ne riceva il dono di luce. Il profeta Isaia si trova al centro di una teofania che gli fa percepire in modo forte la grandezza di Dio che mette a nudo la sua piccolezza tanto da sentirsi <perduto> (Is 6, 5). Simon Pietro vive un momento unico della sua vita a contatto con il Signore Gesù tanto da sentirsi così <peccatore> (Lc 5, 8) da poter dare alla sua vita un colpo d’ala e cominciare a sognare un cammino completamente diverso non solo per se stesso, ma anche per coloro che – da sempre – sono i suoi compagni di lavoro tanto che <lasciarono tutto e lo seguirono> (5, 11).

Al cuore della Liturgia della Parola di questa domenica vi è un simbolo tanto raro quanto eloquente: <Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare> (Is 6, 6). Proprio nel momento in cui il profeta si sente perduto e quasi annientato dalla santità dell’Altissimo qualcosa si muove tanto che la vita stessa di Dio, attraverso la mediazione di un serafino, si avvicina e, in certo modo, si consegna e si affida alla nostra umanità: <Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato> (Is 6, 7). Alle parole del serafino sembrano fare eco in modo ancora più radicale quelle che il Signore Gesù rivolge a Simon Pietro: <Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini> (Lc 5, 10).

Possiamo così ben dire che il Signore Gesù è quel <carbone ardente> che toccò le labbra del profeta e che riaprì alla speranza il cuore di Simone il pescatore. Oggi siamo noi ad avere bisogno di questo tocco infuocato che è capace di rimettere in mare la nostra vita e di permetterci così di riprendere il nostro cammino: <Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca> (5, 4). Prendere il largo ci è possibile solo nella misura in cui ci lasciamo toccare profondamente dal passaggio di Dio nella nostra vita che ci permette di ritrovare le vie del nostro cuore fino a darci la possibilità di ripetere le parole dell’altro apostolo: <Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana> (1Cor 15, 10).

Simon Pietro dice <sono un peccatore>, il Signore Gesù promette <sarai pescatore d’uomini>! Il Signore vede di noi ciò che noi non riusciamo a vedere e il suo sguardo è più <ardente> del carbone che purifica le labbra di Isaia.

Charbon ardent

V Dimanche T.O. –

La foule assiège le Seigneur Jésus et est toute occupée à « écouter la Parole de Dieu » (…), mais le Seigneur Jésus «  vit » au-delà et voit au-delà. Près de cette foule, il y a quelqu’un qui semble ne pas être intéressé, ne pas avoir envie d’écouter…trop ou justement pris par une grande difficulté à vivre. Le Seigneur a une parole qui semble ne pas être Parole de Dieu, mais qui est une parole entre hommes capables d’intercéder le vécu le plus réel ou le plus douloureux …tout peut commencer.

Le désarroi de Simon est le même désarroi d’Isaïe qui est, en réalité, pour Paul, une sorte de mémoire incandescente qui purifie et embrase l’âme continuellement. L’apôtre parle de lui-même comme du « plus petit des apôtres » (1 Co 15, 9 ) et, en même temps il est bien conscient d’avoir le sublime devoir d’être annonciateur de « l’Evangile » (15, 1 ) en cherchant toutes les manières possibles de le préserver de toute contamination et de tout affaiblissement qui en appauvrirait la force transformatrice de l’Histoire et de la vie de quiconque en recevrait le don de lumière. Le prophète Isaïe se trouve au centre d’une théophanie qui lui a fait entrevoir de façon forte la grandeur de Dieu qui met à nu sa petitesse pour qu’il se sente «  perdu » (Is 5, 8). Simon Pierre vit un moment unique de sa vie au contact du Seigneur Jésus jusqu’à se sentir «  pécheur » (Lc 5,8) pour donner à sa vie un coup d’aile et commencer à rêver à un chemin complètement différent, non seulement pour lui-même, mais aussi pour ceux qui – depuis toujours – sont ses compagnons de travail, si bien qu’ils «  laissèrent tout et le suivirent » ( 5, 11 ).

Au coeur de la Liturgie de la Parole de ce dimanche, se trouve un symbole si rare et éloquent : «  alors l’un des séraphins vola vers moi, il tenait en main un charbon ardent qu’il avait pris sur l’autel avec des pincettes » (Is 6,6 ). Juste au moment où le prophète se sent perdu et presque anéanti par la sainteté du Très-Haut, quelque chose bouge  pour que la vie même  de Dieu, par la médiation d’un séraphin, s’approche  et, d’une certaine manière, soit livrée et confiée à notre humanité : « Ceci a touché tes lèvres ; ton iniquité est enlevée et ton péché expié » (Is 6, 7). Aux  paroles du séraphin semble faire écho, de façon encore plus radicale, celles que le Seigneur Jésus adresse à Simon Pierre : «  Ne crains rien, à partir de maintenant, tu seras pêcheur d’hommes » (Lc 5, 10 ).

Ainsi nous pouvons dire que le Seigneur Jésus est ce «  charbon ardent » qui touche les lèvres du prophète  et qui ouvre à nouveau le coeur de Simon le pêcheur. Aujourd’hui, nous avons besoin de ce toucher incandescent capable de remettre à flots notre vie et de nous permettre ainsi de reprendre la route : «  prenez le large et jetez vos filets pour la pêche » ( 5,4 ). Prendre le large nous est possible seulement dans la mesure où nous nous laissons toucher profondément par le passage de Dieu dans notre vie qui nous permet de retrouver les chemins de notre coeur jusqu’à nous donner la possibilité de répéter les paroles de l’autre apôtre : «  Par la grâce de Dieu, je devenu qui je suis, et sa grâce n’est pas restée vaine en moi » – 1 Co 15, 10 ).

Simon Pierre dit «  je suis un pécheur », le Seigneur Jésus lui promet «  tu seras un pêcheur d’hommes » ! Le Seigneur voit en nous ce que nous sommes incapables de voir et son regard est plus «  ardent » que le charbon qui purifie les lèvres d’Isaïe.