Il tempo della prova

VII settimana

Senza troppi preamboli e senza eccessiva delicatezza il Siracide dichiara nettamente: <Figlio, se ti presenti per servire il Signore, resta saldo nella giustizia e nel timore, preparati alla tentazione> (Sir 2, 1). Ed è solo dopo questo preambolo che il testo – quasi accertatosi di aver posto il fondamento sicuro su cui costruire senza pericolo alcuno – il suo discorso continua aprendo il cuore del lettore perché si renda sensibile e conscio di quella <misericordia> (2, 7) su cui si può confidare senza nessun timore di rimanere <deluso> (Sir 2, 10). Eppure, il superamento del pericolo di cadere nella delusione è direttamente proporzionale alla capacità di attraversare la prova e di resistere alla tentazione di fare di testa propria: <non ti smarrire nel tempo della prova> (Sir 2, 2). Troppo facilmente, a questo termine <prova> affianchiamo le cosiddette tentazioni carnali – che pure ci sono – ma che tuttavia, stando al vangelo di quest’oggi, dobbiamo sempre ricordare che, per il Signore Gesù, la vera seduzione e la vera prova sono legate alla grande tentazione che non è quella “della carne”, bensì quella del potere.

La domanda che il Signore Gesù rivolge ai suoi discepoli – <Di che cosa stavate discutendo lungo la via?> (Mc 9, 33) – indica molto bene quanto il Signore avesse colto, non solo la loro incomprensione della Pasqua – <viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno…> (Mc 9, 31) – ma pure la loro grande tentazione, che è quella di approfittare della sequela del Messia per coronare qualche segreto sogno altrimenti impossibile: <Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande> (Mc 9, 34). Dobbiamo riconoscere che in seno alla comunità dei discepoli – tra di noi! – questa discussione non è ancora terminata, ma cova sempre sotto la cenere. Il segno che il nostro cuore, i nostri pensieri e le nostre energie, siano assorbiti da questo terribile interesse, sta nel fatto che ce ne vergogniamo profondamente, come i discepoli che, appunto per la vergogna, <tacevano> (Mc 9, 34). Per lo stesso motivo pure noi continuiamo a tacere o facciamo finta di parlare di altro.

Il Signore Gesù invece non tace, ma s-maschera, per guarire i suoi discepoli da questo demonio che, a differenza dei tanti scacciati da Gesù, si aggira ancora nel loro cuore, nella barca della Chiesa, nelle comunità e nelle famiglie: “Chi è il più grande?”. Ecco la grande prova che è tanto più forte e terribile quanto più rimane celata e innominata. Per questo il Signore Gesù <preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e abbracciandolo disse loro…> (Mc 9, 36). Se si chiede ad un bambino: “Chi è il bambino più bello del mondo?”. Candidamente risponderà “Io!”. Se poi gli si chiederà: “Chi è l’uomo più forte del mondo?”. Non avrà nessun dubbio: “Il mio papà”. Per superare la grande prova dobbiamo essere in grado prima di tutto di non dissimulare, ma confessare il nostro desiderio e bisogno di potere… per poter alfine guarire accogliendo l’invito del Siracide: <Stai unito a lui senza separartene> (Sir 2, 3), proprio come fa un bambino con il suo papà che è “il più forte”. Sarebbe già un piccolo passo verso la libertà da noi stessi, la quale comincia sempre con il passo della libertà di essere se stessi.

Credere oltre

VII settimana

In Vaticano si può ammirare – con una certa commozione – la bellissima tela di Raffaello raffigurante la Trasfigurazione del Signore. È da notare, in questo capolavoro, la differenza dalla tipologia iconica della tradizione orientale. Infatti, l’artista pone il monte Tabor – su cui il Signore Gesù quasi vola nella sua luminosa bianchezza attorniato dai tre discepoli – sullo sfondo della pianura. Qui, in primissimo piano, troviamo un ragazzo accompagnato da suo padre con gli occhi stralunati e, chiaramente, s-figurato da una malattia terribile come l’epilessia. Raffaello sembra aver colto il mistero della Trasfigurazione in tutta la sua completezza e potremmo trascrivere così la sua intuizione: tra-S-figurazione. Del resto, la luce del Tabor, non è forse la chiave di lettura che il Signore dà ai suoi discepoli per poter sopportare e comprendere la tenebra del Calvario di cui – Luca ce lo dice chiaramente – Gesù parla con Mosè ed Elia proprio in quell’occasione (Lc 9, 31)? 

La Trasfigurazione del Signore è legata all’esperienza della s-figurazione continua che l’uomo si trova ad affrontare, nella pianura del suo combattimento spirituale, contro quelle forze del male che <Dovunque lo afferri, lo getta a terra ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce> (Mc 9, 18). Questo povero padre non esita a rispondere a Gesù che gli chiede con tono commovente: <Da quanto tempo gli accade questo?> (Mc 9, 21). La risposta è semplice, immediata, circostanziata: <Dall’infanzia; anzi, spesso lo ha buttato anche nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo. Ma se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci> (Mc 9, 22). Ciò che tocca il cuore del Signore Gesù è questa solidarietà così profonda ed intima tra padre e figlio, da considerarsi inestricabile. Questa partecipazione assoluta ci fa pensare al grido di Gesù sul Calvario (Mc 15, 34). Così questo figlio di cui <molti dicevano: “E’ morto”> (Mc 9, 26) diventa profezia del mistero della croce e speranza di possibile risurrezione. Con una delicatissima forza <Gesù, lo prese per mano, lo fece alzare ed egli stette in piedi> (Mc 9, 27).

Come può tutto questo avvenire nella nostra vita così da passare attraverso la s-figurazione del quotidiano e giungere alla tra-s-figurazione dell’amore? La risposta ce la dà il Signore Gesù quando conclude dicendo: <Questa specie di demoni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera> (Mc 9, 29). Quanto Gesù invita a sperimentare viene confermato da un altro Gesù – il figlio di Sirach – che nella prima lettura dice: <Il Signore stesso ha creato la sapienza: l’ha vista e l’ha misurata… l’ha elargita a quanti lo amano> (Sir 1, 9). Solo la sapienza che viene dal Signore può farci porre davanti al Signore e davanti alla vita in modo sempre più adeguato, ossia, sempre più orante: <Credo, aiuta la mia incredulità> (Mc 9, 24). In queste parole è racchiuso il segreto della preghiera che è coscienza della propria povertà, unita alla percezione della grandezza di Dio che <solo è sapiente> (Sir 1, 8) e ama comunicare la sua vita, la sua luce e la sua gioia. In questa comunicazione trasfigura, lentamente ed efficacemente, tutto il nostro essere a condizione che ci abbandoniamo al calore della sua luce, facendo della nostra intera esistenza una scuola di preghiera e della preghiera una scuola di vita. È in questo dinamismo dialogante che ci sarà permesso di credere oltre e dentro ogni nostra <incredulità>, spesso legata al peso del dolore e all’incomprensibilità della sofferenza.

Celeste in-contro

VII Domenica T.O. 

Paolo non parla forse di ciascuno di noi quando dice: <come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste> (1Cor 15, 49)? Di questo <uomo celeste> abbiamo una icona in Davide che di certo ha portato fino in fondo in sé e nella sua vita la terribile <immagine dell’uomo di terra> tanto da concepire una passione accecante fino all’omicidio. Ma quel <cuore> (1Sam 16, 7) capace di riconoscere il proprio peccato, aprendosi alla misericordia di Dio, lo rese capace, a sua volta, di usare misericordia verso il suo <nemico> (1Sam 26, 8).

Il testo dice che <tutti dormivano, perché era venuto su di loro un torpore mandato dal Signore> (1Sam 26, 12). Il Signore sembra aiutare Davide per permettergli di passare <dall’altro lato> (1Sam 26, 13) da dove poter finalmente e pienamente mostrare a Saul – accecato dalla gelosia – la verità del suo cuore. La verità del cuore di Davide si manifesta nella capacità di non eliminare il <nemico> ma di porsi davanti a lui <lontano sulla cima del monte e vi era grande spazio tra di loro> (ib.).

Il Signore Gesù nel Vangelo è categorico: <Amate i vostri nemici e fate del bene a coloro che vi odiano> (Lc 6, 27). E la prima forma – la fondamentale – di amore verso il nemico è riconoscergli il diritto ad esistere e non volerlo eliminare, ma semplicemente di poterlo incontrare anche se a distanza. Non bisogna mai sottovalutare la forza insita in ogni incontro e già semanticamente porta tutta la forza e il rischio insito in ogni relazione che sempre, comunque, in ogni modo è un trovarsi “contro” che talora si risolve in un in-contro ma non raramente – foss’anche per un breve passaggio di crisi o di crescita – genera un vero e proprio scontro. Se dimenticassimo o sottovalutassimo questo dato ci sarebbe ben difficile sopportare l’atmosfera talora pesante che si respira attorno al Signore Gesù sempre alle prese con i suoi oppositori.

La genesi di ogni inimicizia è infatti nel timore – perlopiù infondato – che l’altro voglia la mia eliminazione. Saul pensava così di Davide incapace com’era di pensare che il suo problema non era Davide ma abitava nel suo cuore malato che si era allontanato da Dio. A chi ha bisogno di relazionarsi con noi avvolgendosi nel mantello del nemico abbiamo il dovere di <non rifiutare la tunica> (Lc 6, 29) nella speranza di mettere a nudo la nostra volontà di <non stendere la mano> (1Sam 26, 23) contro il nostro fratello-nemico che rimane sempre, per natura, un fratello e solo per “cultura” – ossia per scelta fatta o subita – un nemico.

Non è facile assumere questa nudità che manifesta fino in fondo il nostro desiderio di dare noi stessi <a chiunque ti chiede> (Lc 26, 30). Ma se dietro le assurde richieste del nostro nemico sapremo cogliere la paura – che ci abita tutti – di non essere amato a sufficienza o di essere ritenuto indegno di amore… allora tutto ci verrà naturale e sapremo darci fino allo stremo come <una buona misura, pigiata, scossa e traboccante> (Lc 6, 38). Ma qualcuno deve pure cominciare ad invertire la corrente della storia… e se cominciassi proprio io? Se cominciassi proprio ora?

Ren-contre céleste

VII Dimanche T.O. –

Paul ne parle-t-il pas de nous lorsqu’il dit : « Et, de même que nous avons revêtu l’image du terrestre, il nous faut revêtir aussi l’image du céleste » ( 1 Co 15, 49 ) ? Nous avons une icône en David de cet « homme céleste » qui a vraiment porté profondément en lui et dans sa vie la terrible «  image de l’homme de terre » pour concevoir une passion aveuglante  jusqu’à l’homicide. Mais ce «  coeur » ( 1 Sa 16, 7 ) capable de reconnaître son propre péché, s’ouvrant à la miséricorde de Dieu, le rend capable, à son tour, d’user la miséricorde envers son « ennemi » ( 1 Sa 26, 8 ).

Le texte dit que «  tout le monde dormait, car une torpeur venue de Dieu était venue sur eux » ( 1 Sa 26, 12 ). Le Seigneur semble aider David pour lui permettre de passer «  de l’autre côté » ( 1 Sa 26, 13 ) où il pourra finalement et pleinement montrer à Saul- aveuglé par la jalousie – la vérité de son coeur. La vérité du coeur de David se manifeste dans sa capacité de ne pas éliminer «  l’ennemi », mais de se poster devant lui  « loin sur la cime de la montagne, créant un grand espace entre eux » (ib).

Le Seigneur Jésus est catégorique dans l’Evangile : «  Aimez vos ennemis et faites du bien à ceux qui vous haïssent » ( Lc 6, 27 ). Et, la première forme – la plus fondamentale – d’amour envers l’ennemi est de lui reconnaître le droit d’exister et de ne pas vouloir l’éliminer, mais, simplement de pouvoir le rencontrer, même à distance. Il ne faudrait pas sous-évaluer la force inhérente dans chaque rencontre et, déjà sémantiquement, elle porte en elle la force et le risque  inclus dans toute relation qui, est toujours une façon de se trouver «  contre », qui se résout par une rencontre, mais très souvent aussi – même par un bref passage de crise ou de croissance – elle génère un véritable affrontement. Si nous devions oublier ou sous-évaluer ce fait, il nous serait bien difficile de supporter l’atmosphère si pesante que l’on respire  toujours autour du Seigneur Jésus  lorsqu’il en prise avec ses opposants.

La genèse de toute inimitié est en fait la peur – plus ou moins fondée – que l’autre veut mon élimination. Saul pensa cela de David, incapable de penser que son problème n’était pas David, mais qu’il résidait dans son coeur malade qui s’était éloigné de Dieu. A celui qui a besoin d’entrer en relation avec nous, s’enveloppant dans le manteau de l’ennemi, nous avons le devoir de «  ne pas refuser la tunique » ( Lc 6, 29 ) en espérant mettre à nu notre volonté de «  ne pas tendre la main » ( 1 Sa 26, 23 ) contre notre frère-ennemi qui demeure toujours, par nature, un frère et, seulement par «  culture- » parfois, par choix assumé ou subi – un ennemi.

Il n’est pas facile d’assumer cette nudité qui manifeste entièrement notre désir de nous donner «  à celui qui demande » ( Lc 26, 30 ). Mais si derrière les questions absurdes de notre ennemi nous saurons reconnaître la peur – qui nous habite tous – de ne pas être suffisamment aimé ou d’être considéré comme indigne d’amour…alors tout nous viendra naturellement et nous saurons nous donner jusqu’au bout comme «  une bonne mesure, tassée, secouée, débordante » ( Lc 6, 38 ). Forcément, quelqu’un doit commencer à inverser le courant de l’Histoire…e si c’était moi qui commençais ? Et si je commençais maintenant ?

Le reti

Cattedra di san Pietro

Una parola di papa Benedetto XVI, unitamente al suo esempio nel rimettere il ministero petrino nelle mani di altri, ci aiuta ad entrare nello spirito più profondo di questa festa: <Pietro, per tutti i tempi, dev’essere il custode della comunione con Cristo; deve guidare alla comunione con Cristo; deve preoccuparsi che la rete non si rompa e possa così perdurare la comunione universale. Solo insieme possiamo essere con Cristo, che è il Signore di tutti. Responsabilità di Pietro è di garantire così la comunione con Cristo con la carità di Cristo, guidando alla realizzazione di questa carità nella vita di ogni giorno>1. Nella medesima catechesi il papa evocava quegli altri simboli che sono normalmente legati alla figura di Pietro e al ministero del suo successore: la <pietra> (Mt 16, 18) e le <chiavi> (16, 19). Eppure è come se l’immagine della rete che ci riconduce  al primo istante dell’incontro tra Simone e il Maestro di Galilea, ci riportasse non solo più indietro nell’avventura di incontro tra Gesù e Pietro, ma pure ci ricordasse la cosa più importante del ministero del vescovo di Roma: evitare in tutti i modi che la rete della comunione nella Chiesa si rompa e, se ciò avvenisse, cercare in tutti i modi di riparare le reti.

È lo stesso apostolo che, alla fine della sua vita e al tramonto del suo ministero, sembra essere preoccupato fondamentalmente del fatto che venga garantito, all’interno della comunità, un ministero di unità e di amore. Il primo passo che sembra necessario perché questo ministero sia svolto nella logica stessa del Vangelo, sembra essere una dedizione piena di dolcezza: <pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non perché costretti ma volentieri, come piace a Dio, non per vergognoso interesse, ma con animo generoso> (1Pt 5, 2). Memore del suo lavoro di un tempo e delle sue lunghe notti in mare in attesa che i pesci riempissero le reti quasi per una dolce costrizione, Simon Pietro sa, e ricorda anche agli altri pastori, quanto sia diverso il mestiere del pescatore da quello del cacciatore. In questo senso tutti i pastori nella Chiesa sono chiamati a farsi <modelli del gregge> (5, 3) in quest’attitudine di amorosa pazienza che accompagna il cammino dei fedeli nella consapevolezza che essi non appartengono a se stessi, ma vanno condotti all’unico Pastore che è Cristo Signore.

La festa di oggi sembra creare un continuo dinamismo tra l’opera che appartiene solo a Dio e avviene nel segreto e nell’intimità del cuore di ciascuno dei suoi figli e la mediazione che la Chiesa è chiamata continuamente ad assicurare. Questo perché, l’esperienza personale della fede, possa ritrovarsi in un respiro sempre più ampio di comunione che, proprio per il fatto di garantire la verità dell’amore, assicura i necessari limiti e gli aiuti necessari perché tutti custodiscano la verità della fede.


1. BENEDETTO XVI, Udienza generale del 07/06/2006.

Profondità

VI settimana

Il Vangelo del Signore Gesù ci porta al cuore del suo mistero:<Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua> (Mc 8, 34). Lasciarci immergere nel mistero di Cristo significa accogliere di entrare nella logica della Pasqua di cui talora, più o meno in modo mascherato, ci vergogniamo perché contrasta con tutto quel sistema di attese e di speranze che viene simbolicamente raccontato dalla prima lettura di quest’oggi. A commento del vangelo così forte troviamo come introduzione proprio il testo della torre di Babele: ad un certo punto gli uomini cambiano il modo di costruire e non si rendono conto che se costruire diventa più facile e glorioso allo stesso tempo cambiano il loro modo di vivere. Di certo è più facile costruire con i <mattoni> (Gn 11, 3) che costruire con le pietre, è più facile avere persone-mattoni che persone-pietre. 

I rabbini spiegano dicendo che gli uomini hanno cominciato a costruire la loro torre con le più belle intenzioni che oggi definiremmo di globalizzazione, ma, pian piano, diventando la torre sempre più alta ci si è dimenticati gli uni degli altri valutando la vita delle persone in relazione al progetto globale e non alla loro dignità personale. Col tempo ci voleva un mese prima di arrivare su e un mese per scendere giù: dunque per due mesi non ci si vedeva più. Ma diventava ancora più alta, ci voleva un anno…: un anno per arrivare in cima per portare il mattone, un anno per scendere a valle. Si lavorava allo stesso progetto, ma ci si estraniava tanto che i rabbini dicono che le donne partorivano mattoni: si partorisce infatti ciò che si concepisce nel proprio pensiero. L’immagine “riuscita” di tutto ciò sarebbe l’Egitto delle piramidi che i santi Padri definiscono “un grande cimitero”. Il desiderio di Babele – così bene rappresentato nel film di Mel Gibson Apokalypto – è che si <tocchi il cielo> (11, 4) e i rabbini commentano che, in tal modo, l’uomo vuole togliere a Dio il suo Cielo, è una sorta di invasione dei marziani al contrario! Invece la scrittura dice che Dio ha dato a noi la terra tenendo per sé il cielo non per gelosia, ma per prudenza: <i cieli sono i cieli del Signore, ma ha dato la terra ai figli dell’uomo> (Sal 113, 16). 

Il testo della Genesi ci pone di fronte ad uno sfasamento dei valori, mentre il Vangelo ci richiama alla necessità di un capovolgimento dei valori. È meglio fare piccole cose e darsi a opere umili pur di rimanere con rispetto davanti al mistero di ogni persona. Mentre a Babele si costruisce con i mattoni che è lavoro proprio del popolo schiavo in Egitto, la Gerusalemme dal cielo è costruita con <pietre preziose> (Ap 21, 19). Babele è il sogno più bello di quello che un uomo può pensare, che gli uomini possano decidere insieme, ma è il più grande inganno. Perché cominciamo a ragionare come uomini-mattone tanto che l’altro vale nella misura in cui è ben squadrato rendendo il lavoro veloce ed efficace e rendendo raro l’incontro con la sua particolarità e la sua unicità. Ben diverso è lo scenario che l’Apocalisse ci offre della Gerusalemme dal cielo (Ap 7, 17; 21, 4). Assolutamente diverso è il cammino di discesa e di perdita indicato da Gesù ai suoi discepoli nel cui orizzonte si può in verità vedere <giungere il regno di Dio nella sua potenza> (Mc 9, 1) che non può essere altro che la debolezza di una vita offerta e giocata non in altezza, bensì in profondità.

Dietro

VI settimana

Spesso abbiamo la tendenza e la tentazione di metterci davanti al Signore, anziché stargli dietro e camminare dietro di lui come veri e docili discepoli. Il Signore Gesù condivide con i suoi discepoli il profilarsi del suo fallimento pasquale. La professione di fede in Gesù come <Cristo> è sulle labbra di Simon Pietro ancora troppo “mitica”, mentre assumerà tutto il suo peso di verità quando questo termine sarà usato dal centurione sotto la croce e proprio in riferimento al <modo> (Mc 15, 39) in cui vede morire il Signore che beve fino all’ultima goccia il calice della sua ardente passione. Ci sono modi diversi di morire perché ci sono modi diversi di vivere, ed è solo nella misura in cui si acconsente a morire a se stessi e ai propri progetti come il Signore Gesù, che si può veramente cominciare a vivere come lui.

Possiamo interrogarci sulla differenza e sulla novità tra lo stato della creazione prima e dopo il diluvio. Viene confermato il disegno e la dinamica originaria che si esprime e si condensa nel primo comandamento attestato dalle Scritture <siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra> (Gn 9, 1). Questo lo troviamo già espresso per due volte nel primo racconto della creazione che ci viene tramandato nel libro della Genesi e viene ripetuto dal Signore Dio subito dopo il diluvio. Tutti i comandamenti devono essere compatibili con quella dilatazione e potenziamento della vita che è il desiderio più grande di Dio per la sua creazione, per ogni sua creatura. Dopo il diluvio troviamo una novità: siamo di fronte ad un incremento di responsabilità: <del sangue vostro, ossia della vostra vita, io domanderò conto>. Sembra proprio che agli occhi di Dio l’uomo sia un po’ cresciuto con il tempo e con la dura esperienza e quindi, via via, cresce la responsabilità: <e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello> (9, 5). Non così abbiamo trovato nel momento dell’uccisione di Abele da parte di Caino a cui il Signore impone un segno perché nessuno possa domandargli conto del suo fratricidio.

Siamo così chiamati a non comportarci più come dei bambini inconsapevoli e centrati sui propri bisogni e vittime delle proprie collere. L’invito è a crescere e a farlo ad immagine di Dio e questo non solo a livello creazionale ma pure a livello relazionale. Siamo di fronte ad un invito alla verità e alla responsabilità. A volte nella vita avvengono cose da cui non si può e non si deve tornare indietro – si pensi al fratricidio di Caino e al diluvio mandato da Dio su tutta la terra – ma questo non toglie che sempre si può fare un passo in più nel cammino della consapevolezza e della responsabilità. Il Signore Gesù rimprovera Simon Pietro e gli chiede di stare al suo posto di discepolo accettando che le cose vadano diversamente da quelle che sono le sue aspettative: si tratta di cambiare l’orizzonte delle attese, da mitiche a pasquali. Per il discepolo mettersi alla sequela del rabbi venuto da Nazaret, doveva essere sembrato un grande investimenti ma ora Gesù sconvolge le loro aspettative cominciando ad inglobare il mistero del suo fallimento e della sua Pasqua. Bisogna così riprendere la via delle domande più che lanciarsi in quella delle risposte: <dove abiti?> (Gv 1, 38) … dove ci stai portando? La risposta è una sola: <Va’ dietro a me!> (Mc 8, 33).

Attesa

VI settimana

Ci vuole tempo perché il diluvio rientri, ci vuole tempo, ma anche distanza, per vedere bene la realtà e poter riprendere a vivere senza dimenticare quello che la vita ci ha insegnato talora in modo assai doloroso. Si dice nel testo della prima lettura che Noè <attese altri sette giorni e di nuovo fece uscire la colomba dall’arca> (Gn 9, 8) e ancora <Aspettò altri sette giorni, poi lasciò andare la colomba> (9, 12). Le Scritture ci presentano in Noè la figura dell’uomo che ha un rapporto giusto con il tempo e con lo spazio e per questo è capace di attraversare i tempi più duri e di ricominciare in modo nuovo ad abitare lo spazio della creazione. Il diluvio che ha inghiottito la terra si ritira con calma, e l’asciutto riemerge lentamente. Che il diluvio sia durato un anno e dieci giorni, o solo quaranta giorni preceduto da una settimana e seguito da altre tre settimane, non ha molta importanza. Ciò che importa è che Noè ha saputo attendere tutto il tempo necessario e si è lasciato aiutare da quegli stessi animali che aveva salvato introducendoli nell’arca per capire che cosa stava succedendo attorno a sé e trasformarlo in preghiera: <Allora Noè edificò un altare al Signore… il Signore ne odorò il profumo gradito> (8, 20-21). 

È difficile accettare i tempi lunghi necessari alla vita e la Parola ci aiuta ad entrare in questa attitudine facendoci contemplare la pazienza di Noé in cui si riflette la stessa <divina pazienza> (Rm 3, 26; 1Pt 3, 20). Il patriarca seppe portare un lungo tempo di attesa ben più lungo del tempo della stessa preparazione dell’arca e del tempo che durò il diluvio di acque. Non solo ci vuole tempo, ma anche molta calma per vedere e per comprendere <chiaramente> (Mc 8, 25). Da parte sua lo stesso Signore Gesù prende tempo per guarire il cieco. Si comincia con un primo tentativo che permette di vedere ma non così nitidamente. Si tratta, infatti, di vedere e di vedere <da lontano>. Perché uno possa dire di vederci non basta che possa vedere le cose avvicinandole a se stesso o avvicinandosi ad esse – come si fa con un trafiletto di giornale – ma ci si può vantare di una buona vista nella misura in cui si può guardare le cose rimanendo al proprio posto e lasciando che rimangano al loro posto.

Chiediamo al Signore un buon rapporto con il tempo e la pazienza di vedere a distanza senza troppo dover accorciare le distanze e accettando di essere ospiti discreti e gentili del tempo e dello spazio senza i quali la nostra vita mancherebbe delle coordinate per esistere. Continuamente il Signore chiede all’umanità quello che chiese a Noè e con ciascuno di noi si comporta come con il cieco di Betsaida: <lo condusse fuori dal villaggio…> (8, 23). Come Noè fu capace di mantenere la giusta distanza dai suoi contemporanei per rimanere interiormente libero di accogliere la parola di Dio e di farsi strumento di salvezza per i suoi fratelli e per l’intera creazione, così anche noi siamo invitati a seguire docilmente il cenno del Signore accettando di rimanere soli con lui perché egli possa veramente e profondamente guarirci. Ci vuole tempo, ci vuole spazio, ci vuole pazienza e fiducia perché il dono della creazione e della salvezza siano parte integrante e qualificante della nostra esperienza. 

Disperato!

VI settimana

Attraverso le letture di oggi, siamo messi di fronte ad un’immagine di Dio alquanto rara che potremmo definire come la disperazione dell’Altissimo! In ambedue i testi sembra che il motivo di tale sentimento così consueto nella nostra umana esperienza, ma così raro nel nostro modo di pensare a Dio, sono le creature umane che con la loro smemoratezza sembrano imporre all’Altissimo di fare qualcosa di terribilmente contrario al suo cuore e al suo progetto: <Cancellerò dalla faccia della terra terra l’uomo che ho creato e, con l’uomo, anche il bestiame e i rettili e gli uccelli del cielo, perché sono pentito d’averli fatti> (Gn 6, 7). Da parte sua il Signore Gesù non riesce a capacitarsi davanti alla eccessiva preoccupazione dei discepoli per il pane e questo proprio a ridosso del grande prodigio della moltiplicazione dei pani avvenuta ben due volte. Davanti a questo spettacolo di insensibilità non gli resta che esclamare quasi dolorosamente: <Non comprendete ancora?> (Mc 8, 21).

Il Signore ci mette continuamente in grado di poter costruire la nostra vita nella fiducia e quindi nella pace, mentre, aldilà di tutti i segni della presenza di Dio nel nostro cammino, noi preferiamo andare per la nostra strada, quella che ieri abbiamo visto all’opera tra Caino e Abele. La rottura della fraternità, il rifiuto della solidarietà assoluta, il ripiegamento/centramento su se stessi minano dolorosamente la possibilità di una relazione che sia degna di questo nome. L’evangelista Marco sembra annotare in modo meravigliato e doloroso al contempo: <non avevano con sé sulla barca che un pane solo> (8, 14) che dunque andava necessariamente condiviso fino all’ultima briciola. Quando non sappiamo più condividere i doni che abbiamo ricevuto si rende insensato il grande dono della creazione nella sua totalità e nella sua intenzione originaria ed è come se si rompessero le regole del gioco tanto da dover ricominciare tutto daccapo.

Il Creatore, dunque, si pente e minaccia di sterminare non solo l’umanità, ma tutte le creature che nella sua mente e nel suo cuore fanno un tutt’uno e non possono esistere né sopravvivere l’una senza le altre. Per vincere la disperazione di Dio si rende necessario che qualcuno – proprio tra le creature – non condivida la logica di quella <malvagità> (Gn 6, 5) che <addolorò> (6, 6) il cuore del Creatore. Così il testo della Genesi annota quasi con una sorta di sollievo che <Noè trovò grazia agli occhi del Signore> (6, 8). Noè è giusto proprio perché il suo cuore è adeguato, è in sintonia con il cuore di Dio. Infatti, Noè accetta di non salvarsi da solo ma di farsi mezzo di salvezza – per questo la sua Arca è uno dei simboli più forti della Chiesa – per tutti coloro che accetteranno di entrare sul suo bastimento condividendone la vita per tutto il tempo del <diluvio> (7, 10).

La primizia della Chiesa che si trova <sulla barca> (Mc 8, 14) con il Signore Gesù ha bisogno ancora di fare un lungo cammino per entrare nella logica della salvezza in base a cui <un pane solo> è più che sufficiente quando si ha <un cuore solo e un’anima sola> (cfr. Atti 2; 4). Nondimeno il cammino è lungo e ciascuno di noi merita il rimprovero del Signore quando dice: <Non capite ancora e non comprendete? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite? E non vi ricordate…?> (Mc 8, 17-18).

Del suo!

VI settimana

La prima lettura di oggi ci mette di fronte ad un gesto che, per contrasto, fonda la storia dell’umanità: <Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise> (Gn 4, 8). Nel famoso film di Kubrik – Odissea nello spazio – la grande storia dell’umanità che porta fino alla conquista delle galassie, comincia proprio con questo gesto: un ominide che si serve di un osso come di una clava contro i suoi simili. Comincia tutto da lì e tutto là sembra finire. Quando questo gesto comincia ad insorgere nel cuore dell’uomo ecco che il Signore Dio cerca di prevenirlo: <Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dominalo> (4, 6-7).

Si pongono così una serie di domande e sono questioni urgenti: <Perché questo terribile conflitto tra due fratelli tanto da esigere da parte di uno di eliminare l’altro?> Perché il Signore gradisce di più l’offerta di Abele a quella di Caino? Forse la differenza sta proprio nel fatto che Abele prende e offre <del suo> (4, 4), mentre Caino si limita ad offrire <frutti del suolo in sacrificio al Signore> (4, 3). Inoltre, Abele sembra offrire gratuitamente mentre l’offerta di Caino sembra inserirsi in un rituale di offerta che serve ad ingraziarsi il favore divino. Di fatto Caino incolpa il fratello della sua difficoltà a vivere una relazione profonda e intima con il Creatore. Eppure, il Signore Dio parla anche – verrebbe da dire soprattutto a Caino – per aiutarlo ad orientare le energie e superare la tentazione di eliminare il confronto fino a cancellare il fratello che, in realtà è il <segno> (Mc 8, 11) e il sacramento della presenza di Dio nella nostra vita come creatore e salvatore.

Anche noi come i farisei continuiamo a chiedere un segno senza aprire gli occhi e, soprattutto, il cuore al segno quotidiano che ci viene offerto dal contatto – talora assai impegnativo – con l’altro. Come si canta nel salmo responsoriale: <L’amore del fratello è il sacrificio a te gradito> che si potrebbe ridire così <l’amore del fratello è il segno a lungo atteso>. Ogni volta che ci incontriamo e soprattutto quando ci scontriamo con il fratello consumando così una relazione più o meno riuscita e più o meno mancata, questo si fa <segno> di un cammino che è sempre davanti a noi, ma che pure è fortemente condizionato da ciò che sta dietro di noi in termini di storia. Eppure, non dobbiamo mai rassegnarci a perdere l’altro fino a desiderare di eliminarlo. Il rischio è che ciò che ci sembra una soluzione – almeno nell’immediato – si riveli un’ulteriore ferita da curare e una mancanza che non sempre siamo in grado di gestire e di soffrire.

In ogni modo, il Signore non si arrende e continua a mantenere aperto il dialogo per permettere anche al Caino che è dentro di noi di non isolarsi pericolosamente nel proprio rammarico tanto da diventare nemico di se stesso e, perciò stesso, potenziale nemico di tutti. Non dobbiamo dimenticare che, come Abele, possiamo sempre offrire del <nostro> anche se questo fosse una manciata di dolore e di disagio: il Signore saprà riconoscere che gli stiamo offrendo noi stessi e ci gradirà, fino a trasformarci continuamente in figli e fratelli.