Convertire… in credo

I Domenica T.Q. 

Ancora una volta la Chiesa con il suo ritmo liturgico ci chiede di riprendere la strada del deserto. Come spiega un monaco benedettino contemporaneo: <Il deserto verso cui lo Spirito sospinge Gesù non ha un nome particolare, non corrisponde comunque a un luogo geografico, è il deserto e basta, vale a dire l’interno di noi stessi. Questo luogo interiore che è una parte anatomica dell’uomo spirituale e che molti ignorano per paura, o per mancanza di esercizio. Perché questa parta della nostra umanità ha di speciale il fatto che si atrofizza se non ci si occupa di essa e, invece, diventa immensa nella misura in cui la si abita>1. Il primo modo per tenere in esercizio il contatto con la nostra interiorità e così poter affrontare ogni giorno il nostro esodo interiore è quello di essere capaci di fare memoria. Stranamente e provvidenzialmente, la Quaresima comincia quest’anno non con la pianificazione delle nostre prestazioni ascetiche, bensì con un grande gesto di gratitudine frutto di una sana e viva memoria del dono di salvezza che abbiamo ricevuto: <Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore, tuo Dio…> (Dt 26, 4).

Il primo passo del nostro cammino quaresimale è una sorta di raccolta e di concentrazione sulla memoria di ciò che il Signore ha fatto per noi. La nostra risposta di fede nasce da una coscienza che sta a fondamento della nostra fede: Dio <ascoltò…vide… fece> (26, 7). Si tratta non più di credere in una forza oscura né di un’energia luminosa ma in un Dio che si è totalmente investito con tutta la sua persona che si rivela in relazione alla nostra umanità quasi fisicamente: orecchio, occhio, mano: <Ci condusse in un luogo e ci diede questa terra, dove scorre latte e miele> (26, 9). L’apostolo Paolo ci ricorda con forza che non siamo chiamati a vagare, ma siamo chiamati a scendere dentro il nostro cuore poiché <Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore> (Rm 10, 8).

Le citazioni delle Scritture da parte del Signore Gesù non sono un invito a bacchettare il mondo a forza di riferimenti biblici, ma sono il segno di una sensibilità forgiata alla scuola della Parola per ascoltare la realtà e non lasciarsi mai tentare dalle vie e dai modi più facili. Mentre il tentatore cerca di isolare alcuni elementi della vita assolutizzandoli – pane, potere, prestigio – il Signore Gesù non perde mail il contatto con la totalità della vita che va sempre vissuta in relazione a Dio attraverso una docile capacità di leggere la vita più che immaginarla: <Sta scritto…> (Lc 4, 4). Il Signore Gesù si fa modello per noi del modo di abitare il nostro quotidiano deserto interiore con coraggio e una grande dose di semplicità che permette di attraversare la tentazione senza scomporsi e senza troppo impressionarsi. Nella vita di fede il<come> è importante tanto quando il <perché> e il <che cosa>, e questo discernimento di “modalità” siamo chiamati a farlo nelle profondità del nostro cuore. Dunque, come esorta lo stesso monaco citato sopra: <Prendiamo la Quaresima dalla parte migliore, dalla parte dello Spirito Santo>.


1. F. CASSINGENA-TREVEDY, Sermons aux oiseaux, Ad Solem, Genève 2009, pp. 86-87.

Convertir… en credo

I Dimanche T.Q. –

Une fois encore, par son rythme liturgique, l’Église nous demande de reprendre la route du désert. Comme nous l’explique un moine bénédictin contemporain : «  Le désert vers lequel l’Esprit Saint pousse Jésus, n’a pas de nom particulier, il ne correspond pas à un lieu géographique, c’est le désert tout simplement, c’est-à-dire l’intérieur de nous-mêmes. Ce lieu intérieur qui est une partie anatomique de l’homme spirituel et que beaucoup ignorent par peur ou par manque d’exercice. Car, cette part de notre humanité a comme particularité le fait de s’atrophier si elle ne s’occupe pas d’elle-même, et, au contraire, elle devient immense dans la mesure où elle est habitée » 1. La première façon de s’exercer à entrer en contact avec notre intériorité et ainsi de pouvoir affronter chaque jour notre exode intérieur, consiste à être capable de se souvenir. Etrangement, et providentiellement, le Carême commence cette année, non pas, par la planification de nos prestations ascétiques, mais plutôt par un grand geste de gratitude, fruit d’une saine et vive remémoration du don du salut que nous avons reçu : «  Le prêtre prendra le panier de tes mains et le déposera devant l’autel du Seigneur, ton Dieu… » ( Dt 26, 4 ).

Le premier pas de notre chemin quadragésimal est une sorte de recueil et de concentration sur la mémoire de ce que le Seigneur a fait pour nous. Notre réponse de foi naît d’une prise de conscience de ce fondement de notre foi : «  Dieu  « écouta…vit…fit » ( 26, 7 ). Il ne s’agit plus de croire en une force obscure, ni en une énergie lumineuse, mais en un Dieu qui s’est totalement investi par toute sa personne et qui se révèle en relation avec notre humanité, quasi physiquement : par l’oreille, l’œil, la main : «  Il nous conduisit dans un endroit et nous donna cette terre où coule le lait et le miel » ( 26, 9 ). L’apôtre Paul nous rappelle avec force que nous ne sommes pas appelés à vagabonder, mais nous sommes appelés à descendre au fond de notre coeur, car «  Près de Toi est la Parole, sur ta bouche et dans ton coeur » ( Rm 10, 8).

Les citations des Ecritures de la part du Seigneur Jésus ne sont pas une invitation à sermonner le monde à coup de références bibliques, mais elles sont le signe d’une sensibilité forgée à l’école de la Parole, pour écouter la réalité et ne jamais se laisser tenter par les chemins et les moyens les plus faciles. Alors que le tentateur chercher à isoler certains éléments de la vie en les rendant absolus – le pain, le pouvoir, le prestige – le Seigneur Jésus ne perd jamais le contact avec la totalité de la vie qui est toujours vécue en relation à Dieu par une docile capacité de lire la vie, plus que de l’imaginer : «  Il est écrit… » (Lc 4, 4 ). Le Seigneur Jésus devient pour nous le modèle de la façon d’habiter notre désert intérieur quotidien, avec courage et une grande dose de simplicité qui permet de traverser la tentation  sans perdre contenance et sans être trop impressionnés. Dans la vie de foi, le «  comment » est aussi important que le «  pourquoi » et le «  quoi donc », et, nous sommes appelés à  faire ce discernement de modalité dans les profondeurs de notre coeur. Alors, comme l’exhorte le moine cité ci-dessus : «  Prenons le Carême du bon côté, du côté de l’Esprit Saint ».


1. F. CASSINGENA-TREVEDY, semons aux oiseaux, Ad Solem, Genève 2009, pp 86-87

Convertire… il dito e il piede

Sabato dopo le Ceneri

La prima lettura ci offre, tra altre, due piste di conversione. La prima è quella di rinunciare a <puntare il dito> (Is 58, 9) e la seconda è una sorta di condizione necessaria per camminare nelle vie di Dio: <se non tratterrai il piede dal violare il sabato, dallo sbrigare affari nel giorno a me sacro> (58, 13). Vengono di nuovo ribadite le due coordinate fondamentali per un autentico cammino di conversione: il rapporto con Dio che genera un modo di guardare verso gli altri che non ha nulla a che vedere con un dito puntato. Nel Vangelo, il Signore Gesù si rivela veramente capace di vivere queste due dimensioni e lo fa in un modo che mette in grande imbarazzo perché mette in crisi, radicalmente, un sistema di devozione così religioso da rischiare di non essere però realmente fedele al cuore dell’Altissimo. Nella pericope evangelica la prima cosa che ci viene fatta sentire è che il Signore invece di avere un dito puntato è capace di uno sguardo: <Gesù vide un pubblicano…> (Lc 5, 27).

Pertanto, la cosa più forte è che questo incontro di sguardi cambia tutto senza cambiare apparentemente nulla. Quando il Signore Gesù invita Levi a seguirlo lo fa accettando di seguirlo a sua volta <nella sua casa> (5, 29). A differenza di quanto si narra nell’accoglienza riservata da Zaccheo a Gesù, Matteo non fa nessuna pubblica ammenda, ma semplicemente fa entrare il Signore nella sua vita, rendendolo amico dei suoi amici. La casa di Levi diventa l’icona della Chiesa chiamata ad essere il luogo di <un grande banchetto> e non una sala di tortura. Ciò che ammiriamo in questo testo è la distensione che Gesù riesce a donare a Levi invitandolo a diventare suo discepolo senza obbligarlo ad un taglio radicale con la sua vita e i suoi amici, ma accompagnandolo in un cammino di guarigione interiore con la soavità propria di un medico che non solo è capace di fare la diagnosi, ma pure di dare tutto il tempo alla terapia di fare il suo effetto con la calma necessaria.

Per i farisei questo è insopportabile! E mentre trattengono il loro piede dal varcare la soglia della casa di un pubblicano e di un peccatore, non esitano a puntare il dito non solo contro il discepolo ancora in erba, ma pure contro il maestro ai loro occhi solo apprendista più che provetto. Eppure, il Signore non si lascia intimidire: <Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati> (5, 31). Se ogni malato può sperare nella guarigione, ogni sano deve mettere in conto la malattia! Le parole del profeta Isaia ben si addicono al Signore Gesù: <Ti chiameranno riparatore di brecce, e restauratore delle strade perché siano popolate> (Is 58, 12). Concludiamo questo primo tratto del cammino quaresimale con un senso di sollievo e un conforto che ci solleva e ci consola: il tempo penitenziale che vogliamo vivere per preparare ancora le gioie e le sfide pasquali non ci punta il dito contro, ma il dito ci indica la via per ritrovare il meglio di noi stessi e apparecchiarlo per gli altri come fosse un banchetto a lungo desiderato. Quando il Signore ci indica con il dito della sua parola in realtà ci apre sempre una via perché il nostro piede possa ritrovare la strada di casa che, pur rimanendo la stessa, non è più come prima.

Convertire… in intimità

Venerdì dopo le Ceneri

Una parola del profeta Isaia ci porta più lontano nella comprensione delle ragioni profonde di quella che potremmo ben definire una diatriba tra Dio e il suo popolo. Per bocca del profeta Isaia, l’Altissimo smaschera il modo di ragionare errato di quanti sembrano fare tutto per il Signore e, invece, agiscono solo per se stessi: <Perché digiunare, se tu non lo vedi, mortificarci se tu non lo sai?> (Is 58, 3). La risposta a questa domanda la troviamo nella domanda del Signore Gesù con cui sembra essere rifondato radicalmente il senso stesso di una pratica religiosa universalmente attestata: <Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro?> (Mt 9, 15). L’orizzonte sponsale in cui il Signore Gesù chiede di vivere il digiuno va aldilà del digiuno, senza per questo negarne la pratica, ma illuminando la mente e il cuore perché attraverso l’ascesi del cuore si compia il miracolo di un incontro sponsale e gioioso tra la nostra umanità e il desiderio più profondo che portiamo nel cuore.

Alla luce della parola e della pratica del Signore Gesù il digiuno, come forma assolutamente fisica della preghiera e apertura all’incontro con l’Altissimo, non può che darsi che in un atteggiamento di intimità. In tal senso possiamo e dobbiamo rispondere all’interrogazione divina che ci giunge attraverso il profeta: il <digiunare> e il <mortificarci> ha più senso proprio perché non lo si <vede>, ma lo si vive in un rapporto di intimità che esige una forma necessaria di segreto. Se così stanno le cose, allora è chiaro che la domanda posta dai <discepoli di Giovanni> ha la sua gravità soprattutto per una sorta di mancanza di pudore e una indebita ingerenza in una questione di intimità degli altri, che parte da un tradimento della propria personale intimità: <Perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano?> (9, 14).

Per comprendere la gravitas di questa domanda potremmo riproporla in termini più radicali sperando di non scandalizzare nessuno. È come se si chiedesse ad una coppia di sposi o di innamorati: <Perché noi facciamo l’amore molte volte, mentre i tuoi amici non fanno l’amore?>. Sentiamo tutti quanto inadeguata sarebbe una simile domanda che lederebbe l’intimità e non merita risposte per non scadere sullo stesso piano: <Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno> (9, 15). Il digiuno come ogni pratica ascetica ed ogni impegno per la propria crescita spirituale è qualcosa di cui si può sentire il profumo di bellezza, ma nei cui dettagli sarebbe assolutamente inadeguato addentrarsi. Il profeta Isaia ci consegna una sorta di divisa dell’ascesi espressa da una parola: <piuttosto> (Is 58, 6). In questa parola del profeta possiamo cogliere l’invito ad andare sempre più lontano e ad incamminarci non per i sentieri della soddisfazione spirituale, ma per le vie di un desiderio che cresce e si dilata sempre di più. In realtà digiuniamo semplicemente per avere fame e così riuscire a decifrare meglio di che cosa siamo affamati veramente. Se conosceremo la fame di vita che abita il nostro cuore, allora saremo più capaci di intuire e lasciarci toccare e interrogare dalla fame dei nostri simili resistendo ad ogni forma di controllo, per aprirsi ad un di più di complicità e di compassione.

Convertire… non trascinare

Giovedì dopo le Ceneri

Stiamo ancora compiendo i primissimi passi del nostro cammino quaresimale, ma la Parola di Dio – racchiusa nelle Scritture – sembra non darci tregua e ci chiede di prendere subito posizione. Le parole del Deuteronomio sembrano mettere il dito sulla piaga: <Ma se il tuo cuore si volge indietro e se tu non ascolti e ti lasci trascinare a prostrarti ad altri dèi e a servirli, oggi vi dichiaro che certo perirete> (Dt 30, 17-18). Il Signore Gesù non è da meno quanto a chiarezza e perentorietà: <Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua> (Lc 9, 23). La forza e la radicalità della parola con cui siamo obbligati a misurarci ci mette di fronte all’esigenza improrogabile di prendere su di noi la <croce> della nostra libertà, della nostra consapevolezza, della nostra umanità. Non è raro che giochiamo a nascondino con noi stessi facendo finta di desiderare ciò che, in realtà, non ci interessa affatto o, comunque, troppo poco per mettere in movimento il meglio di noi stessi.

Per riprendere la parola del Deuteronomio potremmo dire che la sfida quotidiana è quella di non <trascinare> la croce di <ogni giorno> ma di portarla con dignità. Il primo modo per non farsi come costipare interiormente è di avere uno sguardo semplice e lucido. La nota di quotidianità sottolineata dal Signore Gesù con l’evocazione di <ogni giorno> è, in realtà, ben più di un’esortazione è, invece, uno stile. Se, infatti, non sappiamo abitare il presente in cui la nostra libertà è sfidata ad essere attiva e responsabile, rischiamo di lasciarci appesantire dalle croci del passato e persino paralizzare da quelle che immaginiamo nel nostro futuro. Nella prima lettura possiamo avvertire una certa urgenza che scaturisce da una profonda passione: <Scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio> (Dt 30, 19-20).

Il Signore Gesù ci interroga severamente rimandandoci a noi stessi e, per certi aspetti, spingendoci ad un severo esame di intelligenza senza il quale persino l’esame di coscienza rischia di essere una trappola: <Infatti, quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma perde o rovina se stesso?> (Lc 9, 25). Se non sappiamo cosa vogliamo veramente, qualunque cammino di conversione sarebbe impensabile e la fatica rischia di essere inutile tanto che la vita rischia di essere trascinata e non vissuta in pienezza persino quando ci tocca sperimentare la morte. I giorni, che si stendono davanti a noi con l’immensità ammaliante e inquietante di un deserto, ci sono dati come un’occasione propizia per dare ad ogni nostra fatica il tocco di una dignità e quasi di una signorilità che fa la differenza.

Scegliere è il più grande onore che abbiamo e il fatto di non tirarci indietro nella capacità di decidere e nella volontà di essere fedeli sarà il segno che non siamo dei servi, ma siamo dei figli capaci di essere sempre più fratelli. Se matureremo interiormente in questa attitudine, allora la <croce> non solo non ci spaventerà più, ma sarà il segno inequivocabile della nostra libertà, il sigillo della nostra discepolanza non solo desiderata e sventolata come fosse una bandiera, ma compiuta amorevolmente nel solco esigente e magnifico della nostra quotidianità sempre più da amare, e non trascinare.

Convertire… senza parole

Mercoledì delle Ceneri

Ogni anno, il cammino quaresimale ci chiede di metterci silenziosamente e serenamente in fila per ricevere sul capo un pugnetto di cenere e sentirci ripetere con austera solennità: <Convertitevi e credete al Vangelo>. La liturgia non ci chiede di rispondere nulla e di non aggiungere neanche un <Amen> rituale a questa parola. Sembra che la nostra risposta debba essere silenziosa e il nostro silenzio sia il modo più promettente per lasciarci interpellare senza fare promesse, ma semplicemente mettendoci in cammino aspettando che la risposta sia data dalla strada che sapremo percorrere in verità. La parola del Signore ci aiuta a radicare il nostro cammino di conversione nelle esigenze proprie del Vangelo che sembrano fare tutt’uno con la nostra vita intima e con la nostra umana compagnia. La preghiera deve essere segreta; l’elemosina non può che essere un segreto tra noi e il fratello più povero; il digiuno e la rinuncia non possono che toccare l’intimità del nostro corpo avvertito come luogo di relazione, di amore, di crescita. Tutto è ritmato da un ritornello: <e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà> (Mt 6, 4). Questo ritornello è come l’intonazione inconfondibile di ogni Quaresima per diventare il ritmo segreto e intimo della nostra stessa vita di discepoli.

Il tempo della Quaresima è un tempo propizio, l’apostolo lo dichiara <un momento favorevole> (2Cor 6, 2). Il cammino di preghiera, di carità, di attenzione è come una possibilità che doniamo a noi stessi per essere in verità ciò che sentiamo di essere profondamente. Il profeta Gioele si fa interprete della passione di Dio per noi che aspetta, da ciascuno di noi, una risposta e ci ricorda come e quanto <Il Signore si mostra geloso per la sua terra e si muove a compassione del suo popolo> (Gl 2, 18). Così il <corno> (2, 15) di guerra diventa l’invito a lottare contro tutto ciò che in noi e attorno a noi può oscurare il volto di Dio <misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore> (2, 13) stando attenti a non <suonare la tromba> (Mt 6, 2) della vanagloria. La cenere che profuma il nostro capo non è solo memoria della nostra mortalità e del nostro limite, è anche memoria della passione di Dio per noi che lo rende capace di ridurre a nulla – in cenere! – tutte le nostre colpe e i nostri errori. Come spiega padre Delfieux: <all’inizio della Quaresima non ci viene solo ricordato che siamo vasi fragili, caduchi e mortali>. Se il nostro venire dalla terra e ritornare alla terra è la verità prima non è né l’ultima né, tantomeno la principale, poiché <in questo vaso di argilla il Signore ha posto il tesoro della sua stessa vita>1.

Un passo ci viene chiesto per primo: metterci in fila e accogliere sulla nostra testa il segno di ciò che siamo, da cui veniamo e verso cui andiamo. Eppure, in questo silenzio potremo sentire uno sguardo su di noi ed è uno sguardo di fuoco capace di ridurre in cenere tutte le nostre paure facendoci sentire peccatori… perdonati e amati. Per sentire questo dobbiamo esporci fino a consegnarci al Padre mettendoci alla sequela del Signore Gesù che sale a Gerusalemme senza temere di scendere verso l’umiliazione. Forse nel silenzio assordante del Golgota la frase che ci viene oggi consegnata ha sostenuto la speranza del Crocifisso nel momento del più grande digiuno, il digiuno da se stessi: <ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà> (Mt 6, 18).


1. P. M. DELFIEUX, Évangéliques, Parole et Silence, Les Plans 2013, p. 32.

Già ora

VIII settimana

Il disagio dei discepoli davanti alla fuga di quel tale così amato dal Signore da sentirsi troppo amato da preferire di continuare il suo cammino lontano da Lui raggiunge livelli di guardia significativi: <Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito> (Mc 10, 28). Il Signore Gesù non contraddice Pietro che si fa portavoce non solo degli apostoli, ma dei discepoli di ogni tempo, e nondimeno lo porta oltre la coscienza della rinuncia per coglierne più profondamente il senso. Questo passo viene fatto dal Signore con i sette riferimenti precisi che concretizzano quel generico <tutto> evocato da Pietro e diventa concretamente: <casa, fratelli o sorelle, o madre o padre o figli o campi> (10, 29). Eppure, la rinuncia a tutto che viene confermata dal Signore deve essere continuamente come ulteriormente verificata per non cadere nella stessa disperazione di quel tale e questo può avvenire solo a ripartire dalle motivazioni profonde: <per causa mia e per causa del Vangelo>! Se la rinuncia è una rinuncia cristologica ed evangelica, allora è già una piena ricompensa che non ammette né ritardi, né rimandi: <che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto… insieme a persecuzioni e la vita eterna nel mondo che verrà> (10, 30). Stranamente e significativamente manca all’appello il <padre>!

Come spiega Bernardo di Chiaravalle: <Non ti rimanda all’ultimo giorno, quando tutto ti sarà dato realmente e non più nella speranza; egli parla del presente. Certo, grande sarà la nostra gioia, infinita la nostra esultanza, quando comincerà la vita vera. Ma già la speranza di una tale gioia non può essere senza gioia. Nell’animo di chi ha seminato per la giustizia, questa gioia è prodotta dalla convinzione che i suoi peccati sono perdonati. Chiunque tra voi, dopo gli inizi amari della conversione, ha la fortuna di vedersi alleggerito dalla speranza dei beni che attende, raccoglie fin d’ora il frutto delle sue lacrime. Il Signore Gesù si mostra molto buono verso chi riceve da lui non soltanto la remissione delle sue colpe, ma anche il dono della santità e, meglio ancora, la promessa della vita eterna. Beato chi ha già raccolto una così bella messe>1.

L’esortazione del Siracide assume così tutta la sua forza e la sua straordinaria ricchezza: <Non presentarti a mani vuote davanti al Signore> (Sir 35, 6) e ancora <In ogni offerta mostra lieto il tuo volto, con gioia consacra la tua decima> (35, 11). Tutto ciò nel Vangelo diventa offerta di se stessi in pienezza assumendo quella logica pasquale che non ammette più nessun calcolo se non quello della pienezza che si identifica con l’assoluta perdita: <Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi saranno primi> (Mc 10, 31) Tutti ciò avviene per un motivo tanto semplice quanto rivoluzionario: <perché il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone> (Sir 35, 14). Come pure non c’è differenza di tempi e già ora è donata la pienezza del Regno se ne assumiamo la logica con cuore e <occhio contento> (Sir 35, 10) e questo <già ora> (Mc 10, 30).


1. BERNARDO DI CHIARAVALLE, Discorsi sul Cantico dei Cantici, 37.

Misericordia

VIII settimana

Il Siracide sembra voler sostenere la nostra speranza senza in alcun modo dare adito all’illusione o alla superficialità: <Quanto è grande la misericordia del Signore, il suo perdono per quanti si convertono a lui!> (Sir 17, 29). In una sola e densa frase, siamo messi di fronte all’abisso infinito della misericordia di Dio in cui possiamo quasi annullare il piccolo abisso del nostro peccato normalmente frutto di dimenticanza o di sovra estimazione di noi stessi. Se, infatti, il Siracide ci conforta con la rassicurazione che la misericordia del Signore è così grande, al contempo ci ricorda che tutta la vita ci è donata come una possibilità e una sfida di continua conversione: <Non perseverare nell’errore…> (17, 26). Alla luce delle calde esortazioni della prima lettura possiamo, forse, comprendere meglio quale sia l’errore di questo tale che si avvicina a Gesù con così nobili intenzioni e si allontana da Lui <scuro in volto> e profondamente <rattristato> (Mc 10, 22). Se leggiamo con attenzione il testo ed entriamo nel dialogo tra il Maestro e questo potenziale,  ma mancato discepolo, possiamo dire che a questo tale mancò il coraggio della misericordia verso se stesso che gli impedì di chiedere misericordia piuttosto che esibire la sua rettitudine praticata con zelo fin dalla <giovinezza> (10, 20).

Clemente d’Alessandria si interroga sulla situazione interiore di questo tale cercando di andare un po’ oltre la sua pretesa: <Perché quel giovane che compiva i comandamenti della Legge così fedelmente fin dalla giovinezza si sarebbe gettato ai piedi di un altro uomo per chiedere l’immortalità? Quell’uomo osservava tutta la Legge e l’aveva praticata fin da piccolo. Ma avverte che, se non manca nulla alla sua virtù, manca ancora qualcosa alla sua vita. Ecco perché viene a domandarla a colui che solo può dargliela; è sicuro di essere a posto con la Legge, tuttavia implora il Figlio di Dio. Gli ormeggi della Legge non lo difendono dal rullio; insicuro, lascia l’ancoraggio pericoloso e viene a gettare l’ancora nel porto del Salvatore. Gesù non gli rimprovera di aver mancato alla Legge, ma si mette ad amarlo, commosso dall’impegno del buon discepolo. Tuttavia, lo definisce ancora imperfetto: è buon operaio della Legge, ma senza lo slancio per la vita eterna. La santa Legge è come un pedagogo che conduce verso i perfetti comandamenti di Gesù e verso la sua grazia>1.

Potremmo analizzare il nostro desiderio di essere discepoli specchiandoci, riga dopo riga, nella riflessione di Clemente d’Alessandria cercando di capire onestamente quale sia la nostra situazione reale e che cosa veramente ci manca come pure che cosa veramente desideriamo. Le parole del salmo responsoriale sono capaci di farci fare un passo in più rivelandoci come la beatitudine e la pace del cuore non potranno mai essere il frutto essenziale dei nostri sforzi –pur necessari – ma l’esperienza ardente di una grazia ricevuta e accolta a piene mani e a pieno cuore: <Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e perdonato il peccato> (Sal 31, 1). E il più grave peccato è di presumere di non avere bisogno che di misericordia. I cinque verbi con cui il Signore Gesù concretizza la proposta di risposta al suo amore rivelano in questo tale la paura di amare e di lasciarsi amare. Al piccolo pentateuco della sequela: <va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri… e vieni! Seguimi!> (10, 21) corrisponde una triste fuga al posto di un ardente e appassionato abbraccio. E l’amore non insegue mai, ma sa trasformarsi in misericordia e assoluto rispetto senza risentimento alcuno: <Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio> (10, 27).


1. CLEMENTE D’ALESSANDRIA, Quale ricco potrà salvarsi?

Una parola che dica

VIII Domenica T.O. 

Possiamo cogliere e accogliere l’invito dell’apostolo: <fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, prodigandovi sempre nell’opera del Signore> (1Cor 15, 58). Certamente anche a ciascuno di noi piacerebbe poter dire con Giobbe: <Io ero gli occhi per il cieco> (Gb 29, 15). Ma la Parola di Dio subito ci mette in guardia da parole o gesti più grandi di noi o, più precisamente, non corrispondenti alle nostre vere possibilità e capacità: <Può forse un cieco guidare un altro cieco?> (Lc 6, 39). Il Signore Gesù ci allerta riguardo a certe frasi pronunciate con la tipica untuosità sotto cui, di solito, si cela una <buca> (Lc 6, 39): il tranello di un buco vuoto al posto di un cuore sovrabbondante.

La frase untuosa suona così: <Permetti che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio> (Lc 6, 42). Frase innocua – persino cortese! – ma che rischia di compromettere radicalmente la carità e la misericordia in quanto non ci si pone accanto all’altro ma si assume l’atteggiamento di chi vede di più, sa di più, pensa di poter fare e offrire di meglio. E il Signore Gesù ci ammonisce: <Se foste ciechi non avreste alcun peccato, ma siccome dite: “Noi vediamo!” Il vostro peccato rimane> (Gv 9, 41).

La Parola di Dio ci invita alla sapienza che, secondo quanto ci viene indicato nella prima lettura, esige una distanza e un certo tempo: il tempo necessario a filtrare attraverso il vaglio e la necessaria distanza per provare attraverso il fuoco; la calma attenzione indispensabile per verificare – attraverso il dispiegarsi della conversazione – la verità e la consistenza di un uomo attraverso la qualità e la densità della sua parola.

L’immagine dell’albero e dei suoi frutti, che pure ritorna nel Vangelo, rafforza ancora di più questo invito alla pazienza del discernimento che non si fida di quello che vede – le tante foglie che rendono un albero attraente – ma che sa sedersi in attesa che il frutto – bello e buono – ne indichi non solo l’attrattiva, ma la capacità di <dare frutto a suo tempo> (Mt 21, 41). In tal modo si rivelerà la vera natura dell’albero permettendo così finalmente di comprendere il mistero della radice, il mistero di un cuore che custodisce qualcosa di più grande di noi – il tesoro della presenza di Dio – oppure una collezione di pagliuzze raccattate qua e là e gelosamente custodite per consolarci e lasciarci immobili come una <trave> che fu albero ma non lo è più!

Quale l’opera che il Signore si attende da noi? Quale frutto il Signore viene a cercare sotto l’albero che siamo chiamati a diventare nonostante forse sembriamo più un rovo ingarbugliato che un albero in crescita? Sembra darci una risposta Ben Sirach: <il frutto mostra come è coltivato l’albero, così la parola rivela il mistero dell’uomo> (Sir 27, 6): una parola che non punga come le spine ma sia dolce come il fico; una parola che non laceri come il rovo ma fortifichi come il frutto di una buona vendemmia.

Une parole qui dit

VIII Dimanche T.O. –

Nous pouvons recueillir et accueillir l’invitation de l’apôtre : «  Ainsi donc, mes frères bien-aimés, montrez-vous fermes, inébranlables, toujours en progrès dans l’œuvre du Seigneur » ( 1 Co 15, 58 ). Cela plairait certainement à chacun d’entre nous de pouvoir dire avec Job : « j’étais les yeux de l’aveugle » ( Jb 9, 15 ). Mais, rapidement, la Parole de Dieu nous met en garde des paroles et des gestes plus grands que nous, ou, plus précisément, qui ne correspondent pas à nos véritables possibilités et capacités : «  Un aveugle peut-il guider un autre aveugle ? « ( Lc 6, 39 ). Le Seigneur Jésus nous alerte par rapport à certaines phrases prononcées avec cette onctuosité typique sous laquelle se cache souvent un « trou » ( Lc 6, 39 ) : le piège d’un trou vide à la place d’un coeur surabondant.

La phrase onctueuse résonne ainsi : « Permets-moi d’enlever la paille qui est dans ton oeil » ( Lc 6, 42 ). Phrase inoffensive – voire courtoise ! – mais qui risque de compromettre radicalement la charité et la miséricorde  dans le sens où elle ne se positionne pas du côté de l’autre, mais elle assume l’attachement de celui qui voit mieux et qui pense pouvoir faire et offrir  davantage. Et le Seigneur Jésus nous prévient : « Si vous étiez des aveugles, vous seriez sans pécher ; mais vous dites : Nous voyons ! Votre péché demeure » ( Jn 9, 41 ).

La Parole de Dieu nous invite à la sagesse, et, d’après ce qui nous est indiqué dans la première lecture, elle exige une distance et un certain temps : le temps nécessaire pour être filtrée à travers la projection et la distance du test par le feu ; une paisible attention indispensable pour vérifier – à travers le déroulement de la conversation – la vérité et la consistance d’un homme par sa qualité et la densité de sa parole.

L’image de l’arbre et de ses fruits, qui revient aussi dans l’Evangile, renforce encore d’avantage cette invitation à la patience du discernement qui ne se fie pas à ce que l’on voit – les nombreuses feuilles qui rendent un arbre attrayant – mais qui sait s’asseoir en attendant que le fruit – beau et bon – indique, non seulement l’attraction, mais la capacité de «  donner du fruit en son temps » ( Mt 21, 41 ). C’est ainsi que se révélera la vraie nature de l’arbre, permettant ainsi de comprendre, finalement, le mystère de la racine, le mystère d’un coeur qui protège quelque chose de plus grand que nous – le trésor de la présence de Dieu – ou une collection de fétus de paille récoltée ça et là et gardé jalousement pour nous consoler et rester immobile comme une «  poutre » qui fut un arbre, mais qui ne l’est plus !

Quelle est l’oeuvre que le Seigneur attend de nous ? Quel fruit le Seigneur cherche-t-il sous l’arbre que nous sommes appelés à devenir alors que nous ressemblons plus à un buisson entremêlé qu’à un arbre en croissance ? Ben Sira le Sage semble nous donner une réponse : «  le fruit montre comment est cultivé l’arbre, ainsi la parole révèle le mystère de l’homme » ( Si 27, 6 ) : une parole qui ne pique pas comme les épines, mais qui est douce comme le figuier, une parole qui ne lacère pas comme le buisson, mais qui fortifie comme le fruit d’une bonne vendange.