Somiglianza

II settimana T.O.

La Lettera agli Ebrei ritorna più volte sul mistero del sacerdozio di Cristo il quale sorge <a somiglianza di Melchisedek> ed è al contempo <differente> (Eb 7, 15). In questo gioco di somiglianza e di differenza è ben significato il combattimento di ciascuno discepolo chiamato a vivere una continuità nella necessaria e talora dolorosa rottura. Sembra comunque, secondo l’approccio della prima lettura, che sia necessario anche per ciascuno di noi riuscire a coniugare nella nostra vita la <giustizia> e la <pace> (7, 2). Il Signore Gesù si rivela capace di coniugare le esigenze della fedeltà a Dio con la necessaria capacità di vedere e di rispondere alla sofferenza che è il rimando più grande al mistero stesso della nostra umanità. Il modo in cui il Signore si accorge della sofferenza non è quello proprio ad un sacerdozio esercitato nella distanza, ma in una reale prossimità che si fa concreta e rischiosa condivisione. La conclusione repentina del vangelo non lascia dubbi: <E i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire> (Mc 3, 6).

I farisei sembrano difendere il principio dell’osservanza del sabato, eppure si rivelano dimentichi del senso profondo del riferimento al sabato che non si può ridurre semplicemente alla memoria grata della signoria di Dio sulla creazione. Infatti, il sabato è pure la memoria coinvolgente della necessaria signoria dell’uomo sulla storia che passa attraverso la capacità di vivere le relazioni come luogo di incremento di vita. Come ricorda Ilario di Poitiers: <Quindi, l’azione del Figlio è di ogni giorno; e, secondo me, i principi della vita, le forme dei corpi, lo sviluppo e la crescita degli esseri viventi manifestano questa opera>1. Pertanto, di questa opera noi non possiamo essere solo spettatori, ma siamo chiamati ad essere alacri collaboratori. La domanda che il Signore Gesù pone esige la risposta concreta e fattiva di ogni giorno attraverso le nostre scelte concrete e le nostre priorità: <E’ lecito in giorno di sabato fare del bene fare del male, salvare una vita o ucciderla?> (Mc 3, 4).

Prima ancora della nostra risposta a questa domanda, vi è la reazione di Cristo Signore al nostro silenzio: <E guardandoli tutt’intorno con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori…> (3, 5). Come sacerdote e come medico, il Signore Gesù ci ricorda il rischio di avere un cuore indurito. La provocazione è limpida e chiara: sappiamo e vogliamo stare dalla parte delle persone lasciandoci interrogare, sempre, dalla concreta sofferenza? Con una sorta di ricerca ascendente delle origini del sacerdozio, la Lettera agli Ebrei sembra risalire da Aronne a Melchisedek fino al Verbo che rimanda al mistero di quel settimo giorno in cui l’umanità ricevette dal Creatore il grande dono e la responsabilità di essere custode e sacerdote della creazione. Questo sacerdozio non solo universale ma pure primordiale si esercita in una capacità di rendere sempre più piena e più bella la vita perché assomigli sempre di più alla vita stessa di Dio.


1. ILARIO DI POITIERS, Trattato sui salmi, 91, 3.

Precursore

II settimana T.O.

La Lettera agli Ebrei ci presenta oggi il Signore Gesù come <precursore> (Eb 6, 20) che diventa per noi <àncora sicura e salda per la nostra vita> (6, 19). Normalmente siamo abituati a caratterizzare con questo titolo il ministero e la figura di Giovanni Battista, ma la Liturgia sembra ricordarci che il ministero di aprire sempre delle strade nuove davanti al Signore non si esaurisce con il servizio reso dal Precursore al Cristo, ma diventa – nella parola e nei gesti del Signore Gesù – ancora più forte ed efficace. Con l’aiuto del vangelo possiamo comprendere meglio che cosa significhi fungere da precursore al regno di Dio che irrompe nella storia facendosi annuncio di salvezza per il cammino di ogni uomo: <Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato> (Mc 2, 28). Con quest’espressione forte, il Signore Gesù non vuole assolutamente negare l’importanza della fedeltà alla tradizione e la necessaria osservanza di quelli che sono i segni che garantiscono la relazione e l’alleanza con Dio, ma vuole ricordare soprattutto a quanti sono animati dallo spirito dei <farisei> (2, 24) la necessità di ritornare sempre all’ordine voluto dal Signore Dio nell’atto della creazione. La fedeltà al disegno di Dio ci obbliga ad evitare accuratamente di dare uno spazio eccessivo alle nostre gerarchie di valori che, spesso, rischiano di negare la dignità dell’uomo cercando, talora, di sottolineare e salvaguardare i diritti di Dio.

Il <sabato è stato fatto per l’uomo> ed è il coronamento dell’intera creazione che sembra avere come scopo finale la possibilità per l’umanità di partecipare al riposo amoroso di Dio stesso che non solo sa creare, ma sa anche godere e gioire della sua creazione. Per questo partecipare al riposo di Dio significa, prima di tutto, non subire il riposo di Dio ma parteciparvi pienamente. L’osservanza del sabato è luogo di memoria non solo del dono ricevuto nella creazione, ma è costante invito a prendere parte alla gioia del nostro Signore senza mortificarla. Si potrebbe applicare proprio a questo dovere fondamentale di piena partecipazione al godimento di Dio, l’esortazione della prima lettura: <Desideriamo soltanto che ciascuno di voi dimostri il medesimo zelo perché la sua speranza abbia compimento sino alla fine> (Eb 6, 11).

Il Signore Gesù spalanca e spiana continuamente per noi le strade e i modi di una speranza sempre più ampia e sempre più profonda. In tal modo si fa garante e precursore di gioie sempre più dilatate e di una crescente possibilità di partecipare alla stessa vita di Dio. Perché questo possa avvenire sembra ci sia una condizione da non dimenticare e da non sottovalutare: <non diventiate pigri, ma piuttosto imitatori di coloro che, con la fede e la costanza, divengono eredi delle promesse> (6, 32). I gesti più ripetitivi e quelli legati alla necessità come può essere la preparazione del nutrimento per la famiglia da parte di una madre, non possono mia diventare né un’abitudine né, tantomeno, una costrizione, ma sono il segno di un amore tanto antico quanto sempre nuovo. 

Debolezza

II settimana T.O.

La Lettera agli Ebrei non lascia nessuno spazio elle illusioni “sacerdotali” né, tantomeno, alle pretese clericali: <Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza> (Eb 5, 2). Queste illusioni e queste pretese non sono certo solo appannaggio e tentazione di quanti sono rivestiti di un ministero all’interno della Chiesa, ma sono delle realtà che esigono la continua vigilanza di tutti per evitare, in ogni modo, di cadere nella trappola di pensare ad una perfezione che sia privata del suo carattere divino che è appunto la <giusta compassione>. Nel Vangelo, il Signore Gesù ci fa percepire con chiarezza in che cosa consista questa compassione. Il primo passo è quello di liberare il cuore e lo sguardo sugli altri dalla cataratta del giudizio, che esige la volontà di superare ogni pregiudizio, sia morale che spirituale. La domanda che viene posta al Maestro sembra alquanto innocua: <Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano, mentre i tuoi discepoli non digiunano?> (Mc 2, 18).

La risposta del Signore Gesù sembra andare ben aldilà di quella che sembra essere una semplice provocazione devota. A partire da questa domanda, che riguarda le espressioni particolari ed eminentemente personali delle forme di preghiera, in modo del tutto imprevisto, il Signore evoca l’immagine delle <nozze> (2, 19). All’immagine nuziale sono legati almeno due valori fondamentali: la gioia e l’intimità! Questi due elementi rimandano, in modo del tutto naturale ad un elemento che sembra irrinunciabile per il Signore Gesù: il carattere assolutamente personale dell’esperienza di Dio unitamente a quelle che sono i segni che la indicano, la nutrono e la esprimono. Laddove nel modo di porsi dei <discepoli di Giovanni> e dei <farisei> (2, 18) sembra esserci un cliché cui tutti dovrebbero conformarsi, il Signore sottolinea che per quanto riguarda il cammino spirituale, siamo posti necessariamente e continuamente in un alveo assai diverso che non può e non deve mai diventare essenzialmente convenzionale.

L’evocazione della gioia delle nozze non è disgiunta dalla memoria del fatto che <verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto> (2, 20), ma questo non fa che confermare l’orizzonte assolutamente nuovo in cui si muove e attraverso cui si offre l’annuncio del Vangelo. Questo annuncio se non rifiuta nessuna consuetudine, al contempo, le sottopone tutte al discernimento dell’interiorità e dell’intimità ove si consuma – secondo il linguaggio propriamente nuziale – l’incontro tra il Creatore e le sue creature. Due piccole, ma efficacissime parabole completano il quadro e chiariscono – si potrebbe dire una volta per tutte – la posta in gioco dell’annuncio evangelico: <Nessuno cuce un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio> e ancora <nessuno versa vino nuovi in otri vecchi> (2, 21-22). La frizzante novità del Vangelo sembra consistere proprio nella capacità di assumere la sfida della <debolezza> (Eb 5, 2). Come spiega Pietro Crisologo: <Questo panno nuovo è il tessuto del vangelo, che egli sta tessendo col vello dell’Agnello di Dio: un vestito regale che presto il sangue della Passione tingerà di rosso. Come potrebbe Cristo accettare di unire questo panno nuovo al vecchio legalismo>1 che, naturalmente, non è solo quello di Israele.


1. PIETRO CRISOLOGO, Omelia su Marco, 2.

Anche

II Domenica T.O. 

Riprendiamo il cammino del Tempo Ordinario e la Liturgia sembra chiederci di sostare ancora un poco sul mistero del presentarsi a noi del Signore Gesù. Dopo averlo accolto sulle rive del Giordano come il Figlio amato del Padre che si compiace del suo modo di fare il suo ingresso nella storia mettendosi nella fila dei peccatori, oggi siamo invitati ad accoglierlo come commensale delle nostre gioie. Il Vangelo secondo Giovanni che non si sofferma affatto sugli inizi storici di Gesù, ce lo presenta nel contesto di una festa di nozze e non certo al centro bensì come semplice partecipante. Con una magistrale nota siamo messi di fronte al mistero della rivelazione al mondo del Verbo fatto carne in modo diverso da come fanno i sinottici i quali danno ampio spazio al Battesimo: <Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli> (Gv 2, 2). Come al Giordano il Signore si confonde con i molti che si accostano al battesimo di Giovanni, così a Cana di Galilea è uno dei tanti convitati e non fa nulla per attirare l’attenzione su se stesso.

Se nel Battesimo è il Padre a svelare il mistero di Gesù come Figlio, alle nozze di Cana è la madre a sensibilizzare il figlio verso il bisogno di questi due sposi che rischiano di vedere rovinata la loro festa. Gli sposi hanno sbagliato a calcolare il vino cedendo alla parsimonia oppure i convitati si sono lasciati andare troppo alla gioia? Non sappiamo! Fatto sta che la situazione si fa delicata e la madre di Gesù se ne accorge prima di tutti gli altri: <Non hanno vino> (2, 3). In compenso se il vino scarseggia, di acqua ce n’è invece in abbondanza: <sei anfore di pietra… contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri> (2, 6). Il Signore Gesù non crea il vino da nulla, ma trasforma l’acqua in vino e in questo modo fa’ sì che la festa continui imperturbata e sempre più gioiosa, ma dà un segnale ai suoi discepoli per intuire quale cammino li aspetta alla sua sequela.

Massimo il Confessore scrive: <Prima del battesimo, il catecumeno assomiglia all’acqua stagnante, fredda e senza colore, inutile, incapace di ridare forza. Conservata troppo a lungo, l’acqua si altera, imputridisce, diventa fetida. Il fedele battezzato è simile al vino rosso e vigoroso. Tutte le cose della creazione si rovinano con il tempo. Solo il vino migliora invecchiando. Ogni giorno perde parte della sua asprezza, e acquista un aroma pastoso, un sapore ricco. Anche il cristiano, pian piano, perde l’asprezza della sua vita peccatrice, acquista la sapienza e la benevolenza della Trinità divina>1. Se all’inizio del testo si parla della madre di Gesù, alla fine persino gli sposi sembrano passare in secondo piano e tutta l’attenzione è concentrata sui suoi discepoli i quali <credettero in lui> (2, 11). Possiamo chiederci se crediamo veramente che il Signore possa mutare l’acqua che siamo, in un vino che migliora invecchiando. L’apostolo Paolo ci ricorda che ciò riguarda anche noi ed è <Dio che opera tutto in tutti> (1Cor 12, 6). Il profeta Isaia ci fa sperare il massimo: <sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra Sposata> (Is 62, 4).


1. MASSIMO IL CONFESSORE, Discorsi, 65.

Aussi

II Dimanche T.O. –

Nous reprenons le chemin du Temps Ordinaire et la Liturgie semble nous demander de nous arrêter encore un peu sur le mystère  de la présence du Seigneur Jésus. Après l’avoir accueilli sur les rives du Jourdain comme le Fils aimé du Père qui se réjouit de sa façon de faire son entrée dans l’Histoire en se mettant dans la file des pécheurs, nous sommes invités, aujourd’hui, à l’accueillir en tant que convive de nos joies. L’Evangile selon St Jean qui en fait ne s’arrête pas sur les débuts historiques de Jésus, nous le présente dans le contexte d’une fête de noces, non pas comme personnage central, mais plutôt comme simple participant. Par une description magistrale, nous sommes mis face au mystère de la révélation au monde du Verbe fait chair d’une façon différente à celle des synoptiques qui donne une large place au Baptême : « Jésus et ses disciples furent aussi invités aux noces » ( Jn 2, 2 ). Comme au Jourdain, le Seigneur se mélange à tous ceux qui se joignent au baptême de Jean Baptiste, ainsi à Cana de Galilée, il fait partie des nombreux invités et ne fait rien pour attirer l’attention sur soi.

Si au baptême c’est le Père qui révèle le mystère de Jésus comme Fils, aux noces de Cana, c’est la mère qui sensibilise le fils au besoin de ces deux époux qui risquent de voir leur fête gâchée. Les époux se sont trompés dans le calcul du vin, cédant à la parcimonie ou alors les invités se sont trop laissés aller à la joie ? Nous ne le savons pas ! Toujours est-il que la situation devient délicate et la mère de Jésus s’en aperçoit la première avant tous les autres : « Ils n’ont plus de vin » ( 2, 3 ). Par contre, si le vin fait défaut, il y a de l’eau en abondance : « six amphores en pierre…contenant chacune quatre-vingts à cent litres » ( 2, 6 ). Le Seigneur Jésus ne crée pas le vin de rien, mais il transforme l’eau en vin et ainsi il contribue à ce que la fête continue imperturbable et toujours plus joyeuse, tout en donnant un signe à ses disciples pour les initier au chemin qui les attend à sa suite.

Maxime le Confesseur écrit : «  Avant le baptême, le catéchumène ressemble à l’eau stagnante, froide et sans couleur, inutile, incapable de redonner force. Conservée trop longtemps, l’eau s’altère, se putréfie, devient fétide. Le fidèle baptisé ressemble au vin rouge et vigoureux. Toutes les choses de la création se gâchent avec le temps. Seul le vin s’améliore en vieillissant. Chaque jour il perd une partie de son acidité et acquiert un arôme pâteux et une saveur riche. Le chrétien aussi, tout doucement, perd l’acidité de sa vie pécheresse et acquiert la sagesse et la bienveillance de la Trinité divine »1. Si, au début du texte, l’on parle de la mère de Jésus, à la fin, même les époux semblent passer au second plan et toute l’attention se concentre sur ses disciples qui « crurent en lui » ( 2, 11 ). Nous pouvons nous demander si nous croyons vraiment que le Seigneur puisse changer l’eau que nous sommes, en un vin qui s’améliore en vieillissant. L’apôtre Paul nous rappelle que cela nous concerne aussi et c’est « Dieu qui fait tout en tous » ( 1Cor 12, 6 ). Le prophète Isaïe nous fait espérer le maximum: « tu seras appelé Ma Joie et ta terre Epouse » ( Is 62, 4 ).


1. MAXIME LE CONFESSEUR, discours, 65.              

Efficace

I settimana T.O.

La nota con cui la Lettera agli Ebrei caratterizza la Parola di Dio definendola <viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio> (Eb 4, 12), diventa ancora più chiara se posta in relazione con quanto ci viene raccontato dal vangelo fino ad assumere una colorazione medico-chirurgica. Ciò che avviene ancora una volta lungo il mare con il gesto della chiamata di Levi a farsi discepolo di Gesù e, soprattutto, quello che avviene <in casa di lui> (Mc 2, 15), ci fanno cogliere nel Signore una capacità e una volontà medica che continuamente lo spinge a rivolgersi non ai <sani>, ma a coloro <cha hanno bisogno del medico> (2, 17). Il Maestro che chiama dei discepoli o che accetta di accogliere il desiderio di questi a diventarlo, prende i tratti del medico che sa stare, con immensa competenza e tenerezza, al capezzale di un malato. Solo questa vicinanza permette, infatti, di accompagnarlo nella sua malattia senza mai perdere la speranza di poterlo infine guarire per la vita o per la morte.

Di questa “novità” si fa testimone la fine riflessione dell’autore della Lettera agli Ebrei che reinterpreta, nella medesima linea terapeutica, anche la figura sacerdotale così cara al nostro inconscio religioso sempre attivo: <non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi> (Eb 4, 15). Sempre la prima lettura ricorda come e quanto <non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto> (4, 13). A partire da questo testo possiamo ben immaginare ciò che avviene nel cuore di Levi, figlio di Alfeo, mentre viene raggiunto, proprio come un lampo a ciel sereno, dalla parola del Signore Gesù: <Seguimi> (Mc 2, 14). Non una parola di più, non una parola di meno!

Forse era questo l’unico linguaggio al quale un esattore delle tasse non solo era abituato, ma l’unico cui era sensibile: efficace, tagliente, senza nessuna possibilità di tergiversare. Come per i pescatori del lago di Galilea, anche per il pubblicano e l’esattore delle tasse, la parola di Gesù giunge al cuore della propria intima verità e la salva. Questa capacità di Gesù gli viene proprio dal fatto che <egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa> (Eb 4, 15). Il Signore Gesù non solo ci conosce profondamente, ma ancor più efficacemente, comprende radicalmente i sentieri del nostro cuore e, perciò, proprio come un medico, è capace di arrivare al nocciolo delle nostre segrete malattie per guarirci. Allora, l’esortazione con cui si conclude la prima lettura, si dimostra assolutamente valida non solo per ciascuno, ma pure in ogni momento della nostra vita: <Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno> (Eb 4, 16).

Uniti

I settimana T.O.

La lettera agli Ebrei ci offre un piccolo ma fondamentale criterio di discernimento per comprendere la misura della nostra adesione nella fede che ci permette di godere del riposo quale dono dell’intimità con Dio: <Poiché anche noi, come quelli, abbiamo ricevuto il Vangelo, ma a loro la parola udita non giovò affatto, perché non sono rimasti uniti a quelli che avevano ascoltato con fede> (Eb 4, 2). A partire da questo testo della prima lettura della liturgia odierna ci viene lanciato un messaggio secondo cui la fede se è l’esperienza più personale che si possa vivere, è, al contempo, la più comunitaria. Nel Vangelo ci viene non solo confermata questa intuizione, ma ce ne viene donato un esempio: <Si recarono da lui portando un paralitico sorretto da quattro persone> (Mc 2, 3). Stando al racconto evangelico sembra che l’attenzione del Signore, che pure finora si è mostrata più che generosa nei confronti di quanti avevano bisogno di aiuto e di guarigione, sia attratta maggiormente da quel modo di essere <uniti> di quei portatori. Infatti, il Cristo si rivolge al paralitico per liberarlo dalla sua paralisi proprio <vedendo la loro fede> (2, 5).

Nella nostra sensibilità il valore delle scelte e dei sentimenti personali ha, giustamente, un ruolo fondamentale. Nondimeno, la parola di quest’oggi ci ricorda che non tutto e non sempre può essere vissuto in prima persona, pertanto ci possono essere delle situazioni e dei passaggi della vita in cui la nostra volontà e la nostra consapevolezza personale possono paralizzarsi. In questi casi non tutto è perduto, perché la fede degli altri, che si rivela attraverso l’amore verso di noi, può ancora assicurare la speranza fino a creare dei varchi che da noi stessi non potremmo darci: <scoperchiarono il tetto nel punto dove egli si trovava e, fatta un’apertura, calarono la barella su cui era adagiato il paralitico>. La reazione del Signore ci fa indovinare i sentimenti del suo cuore. Lo chiama infatti <Figlio…> e gli perdona interamente i <peccati> (2, 5).

Il paralitico è per il cuore di Cristo come un bambino che ha bisogno di tutto e che non può portarsi da solo per allattare al mistero di una vita piena. Inoltre, allo sguardo profondo del Signore quest’uomo appare bisognoso di una guarigione ben più profonda che essere semplicemente liberato dalla sua paralisi. Questo avviene sotto gli occhi di tutti eppure, come ci ricorda la Lettera agli Ebrei, non tutti vedono ciò che è sotto lo sguardo di tutti. Anzi! La reazione degli scribi, infatti, è all’opposto di quella della folla: <Bestemmia!> (2, 7). Potremmo dire che gli scribi e i farisei fanno fatica ad entrare in quel dinamismo di fede povera ma condivisa, di cui sono testimoni le <quattro persone> che conducono il paralitico a Gesù. Tanto che per costoro così chiusi in se stessi da non vedere altro che se stessi, risuona la conclusione più tremenda: <Non entreranno nel mio riposo!> (Eb 4, 5). Tutti sappiamo che ciò che riposa il cuore sono l’amore e il perdono! Allora <Affrettiamoci dunque a entrare in quel riposo, perché nessuno cada nello stesso tipo di disobbedienza> (4, 11) che non è affatto quella cui pensano <in cuor loro> (Mc 2, 6) anche gli scribi dei nostri giorni.

Cuore

I settimana T.O.

Nella prima lettura ricorre più volte il riferimento al cuore e sembra che sia proprio là che si annida la lebbra che rischia di ammalare tutta la nostra vita. L’autore della Lettera agli Ebrei non ha dubbi nel mettere direttamente sulle labbra dello <Spirito Santo> l’esortazione iniziale: <Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori come nel giorno della ribellione> (Eb 3, 7). Dopo ciò ci fa menzione del pericolo sempre incombente di avere in realtà <un cuore sviato> (3, 10) cui segue una viva supplica: <Badate, fratelli, che non si trovi in nessuno di voi un cuore perverso e senza fede che si allontani dal Dio vivente> (3, 12). Al cuore di questa consapevolezza di avere potenzialmente un cuore malato perché sempre nel rischio di allontanarsi da Dio, possiamo riconoscere di avere a nostra volta bisogno di purificazione, di guarigione, di salvezza. Il primo passo per ritrovare la via della vita è, prima ancora di chiedere e di supplicare, mettersi <in ginocchio> (Mc 1, 40). Con questo semplice gesto del corpo è come se il nostro cuore ritrovasse non solo il suo giusto posto, ma pure ritrovasse il suo giusto peso.

Lo ricorda uno psicanalista contemporaneo quando, evocando il compito di trasmettere ai propri figli la sapienza della preghiera così annota: < Per pregare – questo ho trasmesso ai miei figli – bisogna inginocchiarsi e ringraziare. Di fronte a chi? A quale Altro? Non so rispondere e non voglio rispondere a questa domanda. E i miei figli d’altronde, non me la pongono. Quando me lo chiedono, pratichiamo insieme quello che resta della preghiera: preserviamo lo spazio del mistero, dell’impossibile, del non tutto, del confronto con l’inammissibilità dell’Altro>1. Questo spiegherebbe l’ingiunzione del Signore Gesù al lebbroso appena guarito: <Guarda di non dire niente a nessuno> (Mc 1, 45). Infatti, è necessario preservare quello spazio di intimità e di segreto in cui sperimentiamo non solo di essere malati e bisognosi di purificazione, ma pure in cui custodiamo l’esperienza – ancora più intima e rara – di conoscere il dono di una relazione che ridona al nostro cuore la sua morbidezza e il suo pieno funzionamento.

Ai tempi del Signore Gesù essere lebbrosi non significava semplicemente essere malati, ma indicava uno stato di maledizione da parte di Dio che comportava il fatto di essere una minaccia e un pericolo per gli altri. L’incontro con il Signore Gesù fa superare ambedue questi terribili steccati che potevano fare della vita già un’esperienza di morte per cui il lebbroso viene reintegrato nella vita di tutti cominciando ad essere reintegrato nella sua relazione a Dio con quel semplice atto – così umanizzante – del mettersi in ginocchio a pregare e a supplicare. Un gesto apparentemente banale che indica, invece, come la malattia non ha vinto totalmente, proprio perché è stato preservato un piccolo ma decisivo spazio di trascendenza.


1. M. RECALCATI, Cosa resta del padre?, Cortina Raffaello, 2011, p. 12.

Medico

I settimana T.O.

Un lungo testo di Girolamo può accompagnare e guidare la nostra meditazione sul Vangelo: <Oh, se Gesù potesse venire accanto a noi e guarire con una sola parola la nostra febbre! Poiché ognuno di noi è afflitto da una febbre. Quando mi arrabbio, ho la febbre: quanti sono i vizi, tante sono le febbri. Chiediamo agli apostoli di pregare che Gesù si avvicini a noi, e ci tocchi la mano. Se lo fa, la febbre subito sparirà, poiché Gesù è un medico straordinario. E’ lui il vero, grande medico, primo fra tutti i medici. Lui sa scoprire il segreto di tutte le malattie: non tocca l’orecchio, né la fronte, ma la mano, cioè le azioni cattive. Gesù si accosta alla malata, poiché ella non poteva alzarsi e correre incontro a colui che veniva da lei. Lui, medico pieno di misericordia, va lui stesso fino al letto, lui che aveva portato sulle spalle la pecora malata (cfr Lc 15,5). Si avvicina di sua propria volontà, prende l’iniziativa della guarigione. Si avvicina a questa donna e cosa le dice? “Avresti dovuto corrermi incontro. Avresti dovuto venire ad accogliermi alla porta perché la guarigione non sia solo effetto della mia misericordia, ma anche della tua volontà. Ma poiché sei indebolita dalla febbre e non puoi alzarti, vengo io da te”. “Gesù si avvicina e la solleva. La prende per mano”. Quando si è in pericolo, come Pietro in mare, che stava per annegare, Gesù stende la mano e lo rialza (Mt 14,31). Gesù solleva questa donna prendendola per mano: con la sua mano le prende la mano. Beata amicizia, splendido bacio! Gesù prende questa mano come un medico: constata la forza della febbre, lui che è medico e rimedio al tempo stesso. La tocca e la febbre se ne va. Tocchi anche la nostra mano, guarisca le nostre azioni. Alziamoci, restiamo in piedi. Qualcuno forse mi dirà: “Dov’è Gesù?” E’ qui, davanti a noi>1.

Mentre contempliamo il Signore Gesù che entra nella casa di Simone e solleva dalla sua malattia la sua suocera perché possa riprendere a servire, possiamo sentire tutta la verità di ciò che ci viene ricordato nella prima lettura: <Egli infatti non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo si prende cura> e aggiunge che <perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede> (Eb 2, 16-17). Di certo questo è il cammino del Signore Gesù quello di farsi carico di tutte le nostre malattie e infermità come un vero medico dell’anima e del corpo. Nondimeno questo diventa pure il nostro cammino da assumere <personalmente> (Eb 2, 18) il dolore e la pena di tutti per farci compagni e animatori di speranza. Come il Signore Gesù siamo chiamati ogni giorno a prendere coscienza della nostra vocazione profonda fino a poter dire con il Maestro: <per questo infatti sono venuto> (Mc 1, 38). La nostra via sarebbe infatti sprecata se non imparassimo, giorno dopo giorno, la ragione per cui siamo venuti al mondo che non può mai identificarsi solo con ciò che ci fa bene, ma passa sempre attraverso il bene e la gioia che riusciamo a donare agli altri.


1. GIROLAMO, Omelie sul Vangelo di Marco, 2.

L’uomo

I settimana T.O.

La citazione con cui si apre la prima lettura ci riporta non solo al mistero di Cristo, ma, anche al nostro stesso mistero continuamente ricompreso alla luce del Vangelo: <Che cos’è l’uomo perché di lui ti ricordi o il figlio dell’uomo perché te ne curi?> (Eb 2, 6). Questo punto interrogativo abita di certo le profondità del nostro cuore soprattutto quando siamo confrontati con il duro mestiere di essere – meglio sarebbe dire diventare – autenticamente umani. A questa domanda che ci interroga da sempre sembra rispondere il Signore Gesù sin dal più tenero inizio del suo ministero. Lo scontro tra la parola del Signore Gesù che risveglia il meglio della nostra umanità e la rimette in cammino verso la verità di se stessa, e le forze che si oppongono a questo processo si fa duro sin dal primo momento. Il Maligno, normalmente abituato a vivere nell’ombra e restare nascosto come fanno i serpenti, non può resistere e si sente così minacciato dalla presenza luminosa del Cristo da dover, suo malgrado, uscire allo scoperto: <Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!> (Mc 1, 24).

Potremmo immaginare la reazione interiore del Signore Gesù a questo attacco frontale e disperato del Maligno riprendendo quanto Girolamo mette sulle labbra del Salvatore: <Non ho bisogno di essere riconosciuto da colui che destino alla perdizione. Taci! La mia gloria si manifesti sul tuo silenzio. Non voglio che la tua voce faccia il mio elogio, bensì i tuoi tormenti; il mio trionfo infatti è il tuo strazio… Taci! Esci da quell’uomo!>1. L’ingiunzione con sui il Signore Gesù reagisce alla chiara presa di posizione del Maligno che si sente rovinato dalla sola presenza del Salvatore in mezzo a noi, è duplice: si tratta di un invito al silenzio e di un invito a lasciare libero il campo. Se questa è la cura che il Signore prescrive come un saggio medico, possiamo ben immaginare che la malattia si concretizzi esattamente in un di più di parola e in una sorta di occupazione indebita di spazi vitali. Ciò cui attenta la presenza del Maligno è il sereno cammino dell’uomo nella sua libertà e nella sua verità che la lettera agli Ebrei riassume in termini, per così dire, esaltanti per la nostra umanità sempre in dubbio con se stessa e su se stessa: <Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli> (Eb 2, 11).

A partire da questa considerazione della prima lettura possiamo dire che, in realtà, ciò che fa disperare il Male fino a farlo uscire allo scoperto è questa divina fraternità che unisce la nostra umanità alla stessa vita divina. Questo mistero esaltante in Cristo Signore si manifesta in uno splendore che risulta essere accecante per quel principio tenebroso che tende a inghiottire la radice divina della nostra umanità creata e amata da Dio sin dall’eternità e di cui la parola piena di <autorità> del Signore Gesù ci fa prendere piena coscienza.


1. GIROLAMO, Commento sul vangelo di Marco, 2.