Cibo

XVIII Domenica T.O.

Il salmista, riflettendo sul cammino del popolo attraverso il deserto e facendo memoria del dono della manna, si lascia andare ad una conclusione più ampia: <L’uomo mangiò il pane dei forti> (Sal 77, 25). È proprio questo cibo che rafforza e fa crescere fino a rendere adulti. È un pane che il Signore, dopo averne saziato la fame immediata, vuole dare come un di più alla folla. Questa, in realtà, si dimostra capace non solo di lanciarsi <alla ricerca di Gesù> (Gv 6, 24), ma anche di lasciarsi condurre da Lui fino a maturare un grado di consapevolezza più adeguato. Esso si riflette e si esprime in una nuova domanda: <Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?> (6, 28). In un tempo assai breve e con rara efficacia, il Signore Gesù è capace di portare la folla, che lo segue e si aspetta da lui quasi di essere “mantenuta” in vita, alla capacità di sottrarsi alla tentazione della mormorazione. Non bisogna comunque dimenticare che questo lavoro di superamento non è mai fatto una volta per sempre e continuamente si può riproporre come avvenne nel deserto. Là il popolo, che aveva ancora gli occhi pieni delle opere meravigliose compiute da Dio nel farlo uscire dall’Egitto, si lascia andare – a stomaco vuoto – al peggiore dei mali: la mormorazione. Infatti, in una delle pagine più toccanti dell’Esodo, leggiamo che <nel deserto, tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro il Signore> (Es 16, 2). Davanti a questa tendenza quasi connaturale di mormorare, possiamo accogliere pure l’esortazione dell’apostolo: <vi dico e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani con i loro vani pensieri> (Ef 4, 17). E cosa di più che un vano pensiero può essere il discorso che viene fatto dalla comunità di Israele all’indomani della sua liberazione: <Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatti uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine> (Es 16, 3). La reazione del Signore Dio è immediata: <ho inteso la mormorazione degli Israeliti> (16, 12). Per quanto questo possa ferire il cuore del Signore che ha liberato il suo popolo con <braccio potente> (13, 16), la mormorazione non chiude né il suo cuore né la sua mano provvidente e dona al popolo carne alla sera e pane al mattino con una piccola consegna: <il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina o no secondo la mia legge> (16, 11). Come già nell’Eden la consegna fu quella di poter <mangiare di tutti gli alberi del giardino> (Gn 2, 16) ma non quelli di un solo albero, quello della <conoscenza> (2, 17), così anche nel deserto la prova che Dio richiede al suo popolo non è quella di saper digiunare – visto che questo produce <vani pensieri> (Ef 4, 17).

Nourriture

XVIII Dimanche du T.O. 

Le psalmiste, en réfléchissant sur le chemin du peuple dans le désert et en faisant mémoire du don de la manne, se laisse aller à une conclusion plus large : ” l’homme mangea le pain des forts ” ( Ps 77, 25 ). C’est vraiment cette nourriture qui renforce et fait grandir jusqu’à  nous rendre adultes. C’est un pain que le Seigneur, après avoir rassasié la faim immédiate, veut donner en surplus à la foule. Celle-ci, en réalité, se montre capable, non seulement de se lancer ” à la recherche de Jésus ” ( Jn 6, 24 ), mais aussi de se laisser conduire à Lui, jusqu’à mûrir d’un degré de conscience plus adapté. Cela se reflète et s’exprime dans une nouvelle question : ” Que devons-nous accomplir pour faire les oeuvres de Dieu ? ” ( 6, 28 ). En un temps assez bref et avec une rare efficacité, le Seigneur Jésus est capable de porter la foule qui le suit  attendant presque de sa part d’être ” maintenue ” en vie, à la capacité de se soustraire à la tentation de murmurer. Il ne faut toutefois pas oublier que ce travail de dépassement n’est jamais fait une fois pour toute, il peut se reproduire continuellement comme cela se passa au désert. Là, le peuple qui avait encore les yeux pleins des oeuvres merveilleuses accomplies par Dieu à travers la sortie d’Egypte, se laisse aller – l’estomac vide – au pire des maux : le murmure. En effet, dans l’une des pages les plus touchantes de l’Exode, nous lisons que ” dans le désert, toute la communauté des Israélites murmurait contre Moïse et contre le Seigneur ” ( Ex 16, 2 ). Face à cette tendance, presque naturelle de murmurer, nous pouvons accueillir l’exhortation de l’apôtre : ” Je vous le dis et vous conjure dans le Seigneur : ne vous comportez plus comme les païens et leurs vaines pensées ” ( Eph 4, 17  ). Et  qu’y a-t-il comme plus vaine pensée que le discours fait par la communauté d’Israël le lendemain de sa libération : ” Nous aurions préféré périr par la main du Seigneur dans la terre d’Egypte, lorsque nous étions assis près de la casserole de viande, mangeant du pain à satiété ! Mais, au contraire, vous nous avez fait aller dans ce désert pour  faire mourir de faim toute cette multitude ” ( Ex 16, 3 ). La réaction du Seigneur Dieu est immédiate : ” J’ai entendu le murmure des Israélites ” ( 16, 12 ). Autant que cela puisse blesser le coeur du Seigneur qui a libéré son peuple par son ” bras puissant ” ( 13, 16 ), le murmure ne ferme ni son coeur, ni sa main providentielle et il donne de la viande le soir et du pain le matin, avec une petite consigne : ” le peuple sortira et recueillera chaque jour la ration journalière, car je le mettrai à l’épreuve pour voir s’il marche ou non selon ma loi ” ( 16, 11 ).Comme déjà au jardin de l’Eden, la consigne fut celle de pouvoir ” manger de tous les arbres du jardin ” ( Gn 2, 16 ), sauf des fruits d’un seul arbre, celui de la ” connaissance ” ( 2, 17 ), dans le désert aussi, la preuve que Dieu demande à son peuple, n’est pas celle de savoir jeûner, vu que cela produit ” de vaines pensées ” ( Eph 4, 17 ).

Notizia

XVII settimana T.O.

In una realtà come la nostra in cui siamo continuamente bombardati e talora perennemente connessi, per essere sempre in rete e continuamente informati, la nota del vangelo può assumere un peso del tutto particolare: <al tetrarca Erode giunse notizia della fama di Gesù> (Mt 14, 1). È questa notizia a scatenare, per così dire, la penna dell’evangelista e raccontare la morte del Battista che ancora turba i sogni e la veglia del tiranno. Con questo stratagemma l’evangelista Matteo trova il modo per dirci come la fama e le notizie che possono essere non solo abbondanti ma perfino circostanziate non fanno, spesso, la conversione. Dopo aver raccontato l’inaccoglienza riservata a Gesù nella sua Nazaret, ci viene ricordato che la parola e la presenza di Gesù rappresenta sin da subito una minaccia anche per i poteri religioso e politico con la sua carica di libertà e di rinnovamento. Se l’atteggiamento degli abitanti di Nazaret è frutto dell’incapacità a credere per l’inabilità ad andare un poco oltre gli schemi già conosciuti, l’attenzione sospettosa di Erode è alimentata dalla paura… proprio come il suo omonimo che, per il terrore, fece assassinare dei bambini.

Questo è già successo per Giovanni Battista, ucciso nel bel mezzo di una festa di <compleanno> (14, 6) e ben presto accadrà anche per il Signore Gesù che, proprio meditando sulla fine cruenta del suo maestro, amico e parente comincerà a preparare se stesso e i suoi discepoli agli eventi pasquali. Il senso e, per molti aspetti, i meccanismi di tutto ciò ci vengono spiegati nella prima lettura ove ci viene raccontata la reazione del popolo e, soprattutto, dei sacerdoti alla predicazione profetica di Geremia: <Una condanna a morte merita quest’uomo, perché ha profetizzato contro questa città, come avete udito con i vostri orecchi!> (Gr 26, 11). Pertanto sentire con gli orecchi non è ancora il segno che ci si è aperti veramente ad un messaggio! Si dice altrove che Erode ascoltava volentieri Giovanni, ma questo non significava, affatto, lasciarsi toccare realmente dalle sue parole. Quando le cose funzionano così, la morte del profeta diventa necessaria per non morire a se stessi e continuare nei propri comodi dando a se stessi l’illusione di essere sensibili a discorsi più alti.

Geremia non ha peli sulla lingua: <Migliorate dunque la vostra condotta…> (26, 13). Il popolo si lascia toccare per una volta dalla forza con cui Geremia è disposto a dare la sua vita, ma non sarà così fino alla fine, non fu così per il Battista, non sarà così per il Signore Gesù… e come sarà per noi? Ogni profeta non fa che rivelare le zone d’ombra del nostro cuore e, così, viene fuori se e quanto desideriamo veramente aprirci alla luce.

Profeta

XVII settimana T.O.

Non è difficile immaginare quanto le parole e l’esperienza del profeta Geremia abbiano formato il cuore del Signore Gesù sostenendolo nella preparazione del suo ministero e facendo maturare nel suo cuore la disposizione a pagare, fino in fondo, il prezzo della sua testimonianza. La conclusione della prima lettura non lascia scampo: <Tutto il popolo si radunò contro Geremia nel tempio del Signore> (Ger 26, 9). Il tempio, che fa da sfondo significativo nella prima lettura, diventa la <sinagoga> (Mt 13, 54) nel Vangelo. Il risultato non sembra cambiare, anzi, persino inasprirsi: <Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua> (13, 57). Abbiamo ancora nelle orecchie e nel cuore l’eco delle parabole che Gesù ha raccontato e commentato alla folla e ai suoi discepoli, e ci troviamo ora nella situazione in cui la sua parola è come se si scontrasse con la più terribile delle resistenze attraverso un senso di familiarità che chiude le possibilità ad un reale incontro e blocca ogni incremento possibile di relazione: <Ed era per loro motivo di scandalo> (13, 57).

Il profeta, per sua natura, non può essere mai motivo di accomodamento! Fa parte del suo ministero e, prima ancora, della sua esperienza interiore sentire l’appello della Parola quale invito costante a verificare e convertire la propria vita. Il passaggio di Gesù a Nazaret si conclude con questa nota: <E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi> (Mt 13, 58). I prodigi e i segni già compiuti dal Signore Gesù non sono un modo per costringere alla fede in lui, al contrario essi sono la risposta ad una fiducia già sentita ed espressa di cui i segni sono una conferma per crescere ulteriormente nella fede. Che il tempio e la sinagoga si trasformino in luoghi di incredulità e persino diventino lo sfondo in cui si decide la sorte amara dei profeti, è molto triste, eppure rimane qualcosa di possibile che bisogna saper mettere in conto.

La mancanza di fede rende il Signore Gesù impotente ed egli non forza, ma si arrende! La sinagoga di Nazaret dove il Signore Gesù è stato allevato e dove ha mosso i suoi primi passi nella festa, tenuto per mano dal padre Giuseppe e in compagnia dei suoi cari – fratelli, sorelle e amici – diventa stranamente la <loro sinagoga>! È maturata una certa estraneità dovuta all’incapacità di ascoltare veramente e fino in fondo. Eppure il Signore Gesù non disdegna di esporsi e di offrirsi alla nostra accoglienza assumendo anche il rischio di essere rifiutato fino ad essere eliminato. Il ministero di ogni profeta, in ultima analisi, non è che a servizio della crescita della nostra consapevolezza e responsabilità. La vera posta in gioco di ogni ascolto e di ogni obbedienza alla parola che si raggiunge attraverso i profeti ha come fine quello di rivelarci a noi stessi per prendere in carico – fino in fondo – il carico del nostro desiderio la cui autenticità si misura sempre sulla nostra capacità o meno di rischiare, di donare, di comprometterci.

Seduti

XVII settimana T.O.

Due immagini sembrano rincorrersi attraverso le letture che la Liturgia offre alla nostra meditazione come traccia per orientare il nostro cammino di conversione: il vasaio e i pescatori! Il vasaio viene colto dal profeta Geremia invitato dal Signore Dio a scendere nella sua <bottega> (Gr 18, 3) proprio nell’atto delicato e grave di rifare un vaso che, <come capita> (18, 4) può anche non venire bene e persino guastarsi, nell’atto stesso di essere completato. Non cogliamo nessuna agitazione né tantomeno rabbia! Semplicemente si dice che egli <riprovava di nuovo e ne faceva un altro come ai suoi occhi pareva giusto> (18, 4). Allo stesso modo vediamo i pescatori che dopo aver tirato a riva le reti con grande calma <si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi> (Mt 13, 48).

Sia nel vasaio costretto a rifare un vaso, come nei pescatori che fanno la cernita dei pesci, possiamo ammirare non solo la calma, ma un senso di profonda naturalezza: è più che normale, anzi scontato, che un vaso possa venire male ed essere rifatto con la medesima argilla, così pure è assolutamente previsto che nella rete non si lascino pescare solo pesci buoni, ma pure quelli cattivi. L’operazione del rifacimento come quella della cernita fa parte del lavoro e vanno vissuti con l’impegno richiesto per ogni fase di un qualsiasi lavoro, ma senza nessuna apprensione. Il Signore Dio non esita a rivelare a Geremia, forse un po’ troppo teso per il suo ministero profetico: <Forse non potrei agire con voi, casa di Israele come questo vasaio? Oracolo del Signore. Ecco come l’argilla è nelle mani del vasaio, così voi siete nelle mie mani, casa di Israele> (Gr 18, 6).

Parimenti il Signore Gesù sembra ricordare ai suoi discepoli di fare il proprio lavoro con dedizione, ma pure con grande semplicità: <Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni…> (13, 49). Sembra che il Signore ci tenga a ricordare ai suoi discepoli che questo lavoro di cernita e di destinazione definitiva non è il loro compito, ma quello degli <angeli>. A loro, alla Chiesa di sempre, spetta il compito di raccogliere, di gettare la rete nel mare che è il <mondo> lasciando che i pesci vi entrino dentro senza sentirsi in dovere di espellere quelli cattivi, quasi per paura che i buoni ne siano contaminati. Inoltre, ai discepoli, alla Chiesa in ogni situazione concreta, spetta il compito di tirare la rete piena a riva… il resto compete agli <angeli>, che è un modo delicato per dire che non compete a noi.

Queste due parabole infondono una grande serenità! La domanda del Maestro viene posta anche a noi: <Avete compreso queste cose?> (13, 51). E ancora una volta, il Signore Gesù usa una parabola per infonderci dedizione e serenità: <ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche> (13, 52). Ancora una volta possiamo immaginare quale calma animi questo gesto del padrone che mette ordine fra le sue cose non come un servo agitato e timoroso.

E’ Lui!

XVII settimana T.O.

La parola che il Signore rivolge al profeta Geremia in un momento che si potrebbe a ragione qualificare come depressivo ci aiuta ad entrare nella sfida che ci offre il Vangelo: <se saprai distinguere ciò che è prezioso da ciò che è vile, sarai come la mia bocca> (Gr 15, 19). Il Vangelo ci parla non più di seme, più o meno accolto dal terreno, e neppure di quel seme pericoloso che è la <zizzania>. Ireneo di Lione commenta così: <Infatti è lui “il tesoro nascosto nel campo” cioè nel mondo (Mt 13, 38). Tesoro nascosto nelle Scritture, perché veniva manifestato attraverso figure e parabole che, umanamente parlando, non potevano essere intese prima che le profezie fossero compiute, cioè prima della venuta del Signore. Perciò è stato detto al profeta Daniele: “Chiudi queste parole e sigilla questo libro, fino al tempo della fine” (Dn 12, 4). Anche Geremia dice: “Alla fine dei giorni comprenderete tutto!” (Ger 22, 20). Letta dai cristiani, la legge è un tesoro, un tempo nascosto in un campo, ma rivelato e spiegato dalla croce di Cristo; essa manifesta la sapienza di Dio, rivela i suoi disegni di salvezza per l’uomo, prefigura il Regno di Cristo, preannuncia la Buona Novella dell’eredità della Gerusalemme santa>1.

Nel caso del tesoro è facile passarci sopra senza accorgersene fino a che si mette a fuoco che c’è già una possibilità che rischia di sfuggire alla nostra attenzione. Nel caso della perla vi è l’occhio clinico del collezionista che sa riconoscere, comparare e che pure porta nel cuore un desiderio che sembra aguzzare la vista. In ambedue i casi – fortuito o studiato – la cosa necessaria è di mettersi in movimento per acquisire il tesoro o la perla perché faccia parte integrante della nostra vita. L’imperativo è il medesimo in ambedue i casi: <poi va> (Mt 13, 44) e ancora <va, vende> (13, 45). L’evangelista Matteo non chiarisce se queste due parabole sono offerte solo ai discepoli oppure a tutta la folla, ma tutto fa pensare che si sia ancora <in casa>. Se fosse così, allora queste parabole riguarderebbero in modo più specifico il discepolo chiamato a rendersi conto della preziosità del regno dei cieli e del fatto che il suo ingresso nella storia e nella vita, se è una sorpresa, nondimeno richiede che si sappia stimarne il valore e saper investire totalmente su di esso concentrando nella sua ricerca tutte le proprie migliori energie. 

La caccia al <tesoro> ricomincia ogni mattina e, per riprendere le parole e l’esortazione del profeta Geremia, il grande compito è quello di saper distinguere ciò che è <prezioso> da ciò che, invece, è <vile>. Tutto ciò è come una perla di grande valore la cui preziosità è già sotto i nostri occhi e aspetta di essere riconosciuta, aspetta di essere desiderata, di essere cercata, di essere amata… ed è Lui, il Signore dentro di noi!


1. IRENEO DI LIONE, Contro le eresie, IV, 26.

Lacrime

XVII settimana T.O.

L’inizio della prima lettura è particolarmente intenso: <I miei occhi grondano lacrime notte e giorno, senza cessare, perché da grande calamità è stata colpita la vergine, figlia del mio popolo, da una ferita mortale> (Gr 14, 17). Le lacrime del profeta sembrano fare tutt’uno con le parole esplicative del Signore Gesù che cerca di illustrare il significato “esoterico” della parabola della zizzania appena raccontata alla folla quando <entrò in casa> (Mt 13, 36) e si soffermò con i soli discepoli a comprenderne meglio il significato. La parabola nel modo in cui viene raccontata alla folla, in realtà è fonte di speranza e di fiducia: il padrone non sembra poi così allarmato dal fatto che nel campo cresca con il buon grano anche la zizzania. Si potrebbe persino dire che, al cospetto della folla, il Signore Gesù tenda a minimizzare i rischi e i pericoli collegati all’opera del <Maligno> (13, 38).

Non così con i suoi discepoli! La spiegazione offerta all’interno della casa sembra ben più grave: <la zizzania soni i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo> (13, 38-39). La fine riservata a costoro non è certo indolore: <li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti> (13, 42). Il Signore Gesù non tace la gravità della situazione di quanti sono all’origine di <scandali> e <commettono iniquità> (13, 41). Eppure, parla di questo solo con i suoi apostoli e all’interno della casa lontano dalle orecchie della folla. In tal modo prima ancora del contenuto del messaggio che è assai realista e per nulla qualunquista, c’è da parte del Signore Gesù la comunicazione di un metodo pastorale su cui siamo chiamati a meditare e a cui bisogna conformarsi radicalmente.

Quella del Maestro non è una catechesi terroristica con cui semina nel cuore dei suoi ascoltatori il panico e quel terrore di Dio che per quanto ci faccia star buoni non necessariamente e non certo automaticamente ci fa essere più buoni. Alla folla, il Signore Gesù trasmette un messaggio tutto sommato sereno e non allarmista. Agli apostoli rivela anche quali possano essere gli effetti collaterali dell’opera del Maligno e li investe della responsabilità di conoscere in modo più circostanziato il meccanismo del male in modo da essere in grado di arginarlo senza terrorizzare. L’ultima parola comunque è di grande speranza e assolutamente luminosa: <Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro> (13, 43). L’ultimissima parola è un’esortazione all’intelligenza del cuore: <Chi ha orecchi, ascolti!>.

Le <lacrime> del Signore spegneranno il <fuoco> in cui la nostra parte di zizzania necessariamente deve ardere!

Vita

S. Marta

Marta si fa portavoce di ciascuno di noi nel momento in cui la vita ci obbliga a misurarci con il mistero della morte… con le tante morti che segnano il nostro cammino: <Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!> (Gv 11, 21). Con queste parole Marta da una parte si lamenta con il Signore e dall’altra gli riconosce la grande potenza di essere in grado di arrestare la morte. Eppure, sembra che al Signore Gesù non piaccia questo modo di parlare all’ipotetico che stranamente è ben imparentato con il tono della tentazione. La risposta è netta: <Tuo fratello risorgerà> (11, 23)! Questa risposta paradossale diventa ancora più chiara davanti alla reazione un po’ imbarazzata di Marta e arriva a dire: <Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me, anche se muore, vivrà> (11, 25). Marta parla al futuro, ma il futuro non è a portata di mano. Gesù, invece, parla al presente. La risurrezione è un’esperienza che interessa prima di tutto il nostro presente e non solo il nostro futuro. A risorgere sono chiamati i vivi, noi, prima che i morti. Marta si dà un gran da fare attorno alla morte di Lazzaro, e il Signore le chiede di prendere coscienza della sua morte alla speranza che sarebbe ben peggiore della dipartita di Lazzaro.

Nel racconto lucano dell’ospitalità di Marta nella sua casa e della sua lamentela riguardo a Maria, sua sorella, il Signore Gesù non dice chiaramente in cosa consista la <parte migliore> (Lc 10, 42). Possiamo ben immaginare che il Signore non rimproveri a Marta la sua dedizione alle faccende di casa, ma le ricorda che la cosa più importante non è l’ospitalità che lei può offrire al Maestro, ma l’accoglienza di cui lei stessa ha bisogno presso il Signore Gesù. Maria ha intuito che la cosa più importante è accogliere lasciandosi accogliere. Le parole dell’apostolo Giovanni è come si ci offrissero lo scenario essenziale perché ogni nostro gesto e ogni nostra preghiera possano raggiungere il loro fine supremo: <Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui> (1Gv 4, 16). Soprattutto nella prima lettura viene chiarito quello che potremmo definire come l’ordine della grazia: <non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi> (4, 10).

Accogliendo le parole dell’apostolo possiamo dire che, per quanto grande sia il nostro desiderio di fare spazio a Dio nella nostra vita, è Lui che ci accoglie per primo. Questo sembra averlo intuito la sorella Maria la quale <sedutasi ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola> (Lc 10, 39). Ma forse lo ha compreso ancora di più e meglio il fratello Lazzaro che muore senza dire una parola né di richiesta né di rimprovero per il suo amico e Signore, ma che pure rimane così attento alla sua voce da poterla udire persino oltre la pietra del sepolcro fino a risorgere dai morti. L’esperienza spirituale di Marta e della sua “strana” famiglia di persone, in realtà, senza famiglia, ci apre alla speranza che nella nostra relazione con Cristo Signore possiamo e dobbiamo trovare il senso di un’appartenenza e di una intimità in cui ciascuno può essere, fino in fondo, se stesso senza inutili maschere e infingimenti fastidiosi. Così ciascuno risorge al senso forte di sentirsi chiamato a rispettare il cammino degli altri senza cedere né al paragone né alla recriminazione che è il primo passo del livellamento e dell’appiattimento delle relazioni… della morte.

Gusto

XVII Domenica T.O.

Nel Vangelo di questa domenica, in modo assai indicativo, solo alla fine l’evangelista sente di poter concludere dando voce ai sentimenti della folla: <Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto…> (6, 14). Il miracolo della moltiplicazione <dei cinque pani d’orzo e due pesci> (6, 9) diventa <segno> solo quando tutti sono <saziati> nonostante tutto lo scetticismo dell’apostolo Andrea: <ma che cos’è questo per tanta gente?>. Ma c’è ancora pane e tanto… che i discepoli raccolgono con cura e che la folla lascia raccogliere senza che nessuno se ne faccia una scorta personale. In un film come Il pranzo di Babette possiamo cogliere in modo assai profondo e suggestivo che cosa è avvenuto nel frattempo, tra la domanda del Signore a Filippo: <Dove potremo compare il pane perché costoro abbiano da mangiare?> (6, 7) e quel ritrovarsi di Gesù <da solo> (6, 15). La protagonista del film – vedova e straniera – preparando un pranzo che è un vero e proprio banchetto permette alla piccola comunità di ritrovare il gusto della vita. Questo miracolo avviene ritrovando il gusto semplice del vivere insieme attraverso la degustazione delle portate e dei vini che, risuscitando il loro palato, fa loro recuperare ciò che i Padri chiamano il palatum cordis: il palato del cuore! Sempre nel film, il ritrovarsi attorno alla tavola, prendendo finalmente le distanze da un’impostazione falsamente austera della vita perché disumanizzante, permette ai convitati di ritrovarsi come persone capaci di riconoscere di avere molto in comune. Questo porta, infine, ad uscire all’aperto per formare un cerchio che riflette in terra l’armonia che regna in cielo. Ma i convitati scopriranno solo alla fine il prezzo pagato dalla vedova per questa loro riconciliazione: come quella indicata e ammirata da Gesù nel Vangelo, in quel banchetto offerto ha messo <tutto> (Mc 12, 44) quello che avrebbe potuto permettergli di vivere in modo diverso e agiato. Parimenti solo dopo, la folla potrà scoprire il segreto che anima il cuore di Cristo Signore: la disponibilità incondizionata di dare la sua vita per noi. Il Signore Gesù permette a ciascuno di mettere in comune almeno un po’ del proprio tempo accettando di sedersi sulla <molta erba> (6, 10) che rende quel luogo un ambito in cui ritrovare il senso della propria vita e la gioia di condividerla <con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità> (Ef 4, 2). Così potremo formare <un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati> (4, 4). È esattamente quello che ha saputo fare quel <ragazzo> (Gv 6, 9) il quale non dice neppure una parola davanti al fatto che gli prendano quello che è suo per metterlo a disposizione degli altri rinnovando il prodigio compiuto dal profeta. Impossibile che l’amore non comporti un’eccedenza d’amore!

Goût

XVII Dimanche du T.O. 

Dans l’Evangile de ce dimanche, de façon assez significative, seulement à la fin, l’évangéliste sent pouvoir conclure en donnant la parole aux sentiments de la foule : ” Alors, la foule, en voyant le signe qu’il avait accompli…” ( 6, 14 ). Le miracle de la multiplication ” cinq pains d’orge et deux poissons ” ( 6, 9 ) devient ” signe ” seulement lorsque tous sont ” rassasiés” malgré tout le scepticisme de l’apôtre André : ” mais qu’est-ce que cela pour tant de gens ? “. Mais, il y a encore du pain et beaucoup…que les disciples recueillent avec soin et que la foule laisse recueillir sans que personne n’en fasse une réserve personnelle. Dans un film comme Le repas de Babette, nous pouvons découvrir de façon assez profonde et suggestive ce qui est arrivé entre temps entre la question du Seigneur  à Philippe : ” Où pourrons-nous acheter le pain pour qu’ils aient à manger ? ” ( 6, 7 ) et la façon de Jésus de se retrouver ” seul” ( 6, 15 ). La protagoniste du film – veuve et étrangère – en préparant un repas qui est vraiment un véritable banquet, permet à la petite communauté de retrouver le goût à la vie. Ce miracle arrive en retrouvant le goût simple de vivre ensemble par la dégustation  des mets et des vins qui, en ressuscitant leur palais, leur fait récupérer ce que les Pères appellent  le paladium cordis : le palais du coeur ! Toujours dans le film, se retrouver autour de la table, en prenant finalement des distances avec une approche faussement austère de la vie, car deshumanisante, permet aux convives de se retrouver en tant que personnes capables de reconnaître avoir beaucoup en commun. Ceci nous amène, en fait, à sortir à l’extérieur pour former un cercle qui reflète sur terre l’harmonie qui règne au ciel. Mais les convives découvriront, seulement à la fin, le prix payé par la veuve pour leur réconciliation : comme celle indiquée et admirée par Jésus dans l’Evangile, dans ce banquet offert, elle a mis ” tout ” ( Mc 12, 44 ) ce qui lui aurait permis de vivre de manière différente et agréable. C’est également seulement après, que la foule pourra découvrir le secret qui anime le coeur du Christ Seigneur : la disponibilité inconditionnelle de donner sa vie pour nous. Le Seigneur Jésus permet à chacun de mettre en commun au moins un peu de notre temps en acceptant de s’asseoir sur ” l’herbe dense ” ( 6, 10 ) qui donne à ce lieu une ambiance où retrouver le sens de sa vie et la joie de la partager ” en toute humilité, douceur et magnanimité ” ( Eph 4, 2 ). Ainsi nous pourrons former ” un seul corps et un seul esprit, comme est unique l’espérance à laquelle vous avez été appelés ” ( 4, 4 ). C’est exactement cela qu’à su faire ce ” garçon” ( Jn 6, 9 ) qui ne dit même pas une parole lorsqu’on lui prend ce qui est à lui pour le mettre à disposition des autres, renouvelant le prodige accompli par le prophète. Il est impossible que l’amour ne comporte pas un excédent d’amour !