Così diversi

XXIII settimana T.O.

La preghiera abitua a riconoscere e ad amare la diversità tanto da renderla una realtà su cui si fonda la vita della Chiesa a servizio di un’umanità in crescita, proprio perché abitata da un processo di differenziazione che arricchisce ed esalta il senso e la bellezza del vivere e del vivere insieme. Oggi contempliamo il Signore Gesù che <se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio> (Lc 6, 12). La preghiera del Signore non è un’evasione, ma prepara la strada all’invasione, per così dire, del disegno di Dio sulla nostra umanità che, attraverso la scelta del gruppo degli apostoli, segna e orienta il cammino di tutti. Come spiega Jean-Louis Souletie: <La fede è fondamentalmente ecclesiale. Credere in Dio significa entrare nel mistero di un’alleanza e prendere posto come membro del corpo di Cristo, membro del popolo santo redento dal suo sangue>1. La preghiera del Signore rende possibile l’instaurarsi di questa alleanza tra Dio e la nostra umanità su cui si fonda il superamento possibile di ogni <lite> (1Cor 6, 4). Nel silenzio crescono gli alberi, i fiori e l’erba ed è in un silenzio maestoso che gli astri si muovono nel cielo facendo danzare col loro fremito il nostro pianeta… ed è nel silenzio che siamo chiamati a far maturare le nostre scelte più importanti perché possiamo portare un frutto di pace per tutti.

Leggendo e meditando la pericope evangelica si rimane toccati dalla sequenza temporale in cui il Signore Gesù sembra porre uno dei momenti più delicati e importanti del suo ministero come è la scelta dei Dodici. Il testo dice che <Gesù se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione> e subito aggiunge <quando fu giorno…> (Lc 6, 12-13). Lungi dall’essere semplicemente un dato cronologico che ci rapporta la sequenza degli avvenimenti, il comportamento del Signore Gesù rappresenta un insegnamento per ciascuno di noi. Si potrebbe riassumere il messaggio che ci viene dall’esempio del Signore in questi termini: la notte prepara il giorno! Di fatto vi è un’ulteriore nota che si trova alla fine della “lista” dei nomi degli apostoli che sempre ci turba e ci lascia perplessi: <Giuda Iscariota, che fu il traditore> (6, 16). Laddove noi ci aspetteremmo una scelta fatta in base al merito e alla familiarità con il Signore e alla capacità di essergli fedeli fino alla fine, il vangelo ci invita ad entrare nel mistero dell’elezione divina che non è “puritana”, ma realista e totale. Non si tratta di avere delle truppe scelte di fedelissimi… il Signore Gesù si circonda di un ristretto gruppo di discepoli che non è esente dalle <malattie> di tutti e non è meno tormentato da quegli <spiriti immondi> (6, 18) di cui fa esperienza la folla e di cui fa esperienza sempre la Chiesa.

Se avessimo qualche dubbio basta ascoltare con attenzione la prima lettura in cui abbiamo una chiara visione di quella che è la vita concreta di una chiesa tanto entusiasta quanto fragile come quella di Corinto: <lo dico per vostra vergogna!> (1Cor 6, 5) conclude Paolo. Si tratta delle <liti per cose di questo mondo> (6, 4) per la cui soluzione i credenti chiedono l’arbitrato dei giudici pagani. E l’apostolo non esita a dire con chiarezza e in verità come sia <già una sconfitta avere liti vicendevoli> (6, 7). Eppure, nonostante tutto ciò sia evidente, chiaro, desiderato da tutti… le ombre convivono assieme alla luce nella comunità dei credenti persino nel suo nucleo di fondamento qual è il gruppo degli apostoli. Ma il fatto che il Signore abbia preparato il <giorno> (Lc 6, 13) della scelta degli <apostoli> con una <notte> passata <in orazione> (6, 12) ci fa sentire come nella sua preghiera e nel suo intimo colloquio con il Padre riguardo a ciascuno di noi, le nostre tenebre sono come comprese, già messe in conto e radicalmente già vinte perché già viste. La parola che l’apostolo rivolge ai Corinti dovrebbe penetrare il nostro cuore: <Non illudetevi> (1Cor 6, 9). Né per le nostre persone né per le nostre comunità possiamo cadere nell’illusione che la chiamata di Cristo ci esenti dal confronto con noi stessi e le nostre ombre… tutt’altro!

Per il Signore Gesù l’intento non è quello di mettere insieme i “migliori”, ma di tenere insieme degli uomini come tutti al fine di metterci di fronte al meglio, permettendo di manifestare la verità del cuore fino in fondo. Il meglio non è dentro di noi ma in quella <forza che sanava tutti> (Lc 6, 19) e di cui, forse, l’apostolo Giuda – che ben ci rappresenta – non ha saputo approfittare perché troppo sicuro della sua forza, troppo concentrato sulla sua luce tanto da rimanerne talmente accecato da cadere irrimediabilmente preda della <notte> (Gv 13, 30).


1. J-L. SOULETIE, Service nationale de la catéchèse, Ed. Bayard, Paris 2007, p. 57) 

XXI CAPITOLO GENERALE

Paura

Martirio di Giovanni Battista

Verrebbe proprio da compatire il profeta Geremia che, già all’inizio della sua vocazione e del suo ministero, è quasi minacciato da parte dell’Altissimo: <non spaventarti di fronte a loro, altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro> (Ger 1, 17). Ci giunge un po’ nuova il fatto che l’Altissimo possa usare l’arma della paura per costringere i suoi profeti a trasmettere esattamente e completamente il suo messaggio senza cedere a nessun timore e senza cadere in nessun tipo di ritrosia davanti al messaggio di cui sono portatori. In questo modo si rivela quanto stia a cuore al Signore Dio raggiungere i suoi figli – tutti i suoi figli – con la sua parola che illumina e libera. Una di queste parole è evocata come lo sfondo della tensione tra Giovanni Battista e la casa reale di Erode: <Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello> (Mc 6, 19).

In realtà con questa denuncia circa l’illecito matrimonio che unisce Erode a sua cognata e lo rende quasi stregato dalla danza della figlia di quest’ultima, vi è molto di più che l’invito a rompere un matrimonio illecito. Questo matrimonio diventa il simbolo di tutto ciò che Erode – come pure il piccolo erode che portiamo dentro di noi – presume di poter fare a proprio arbitrio ritenendo di poter agire secondo il proprio gusto senza misurarsi con niente e con nessuno. La parola dei profeti è una continua memoria dei limiti cui la vita di ciascuno è sottomessa perché non si cada in quell’abuso di se stessi che apre, quasi naturalmente, la porta ad abusare degli altri. Il primo passo di ogni abuso è ritenere di poter fare paura a qualcuno fino a ridurlo in nostro potere. Ma vi è un passo ancora più remoto, apparentemente non solo innocuo, ma persino generoso ed è quello di pensare di poter fare o dare più di quanto, in realtà, possiamo fare o dare: <Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno> (6, 23).

Erode si appropria delle parole che il re Assuero-Artaserse aveva rivolto ad Ester alla fine del secondo banchetto approntato dalla regina per svelare e sgominare l’iniquo progetto di Aman. Ma Erode non si rende conto di non avere davanti a sé la regina Ester, ma la figlia di colei che <odiava> (6, 19) quel profeta che egli <temeva> (6, 20) che lo avrebbe fatto passare dalla parte di Aman, mentre il re si crogiolava nell’impersonare il re Assuero-Artaserse. La reazione regale viene annotata accuratamente e quasi spietatamente dall’evangelista: <Il re, fattosi molto triste, a motivo del giuramento e dei commensali, non volle opporle un rifiuto> (6, 26). Il re non vuole “perdere la faccia” e piuttosto che riconoscere il suo limite e il fatto di averlo oltrepassato accetta da consegnare la <testa di Giovanni> (6, 27).

Conosciamo il seguito della storia: Erode passerà il resto dei suoi giorni nella paura di un ritorno di Giovanni Battista che gli sembra di riconoscere in Gesù. Si compie così per Erode la minaccia dell’Altissimo fatta al profeta Geremia: <sarò io a farti paura> (Ger 1, 17).

Imbiancati

XXI settimana T.O.

Ritroviamo i farisei di sempre con i loro mantelli di apparenza sotto cui si cerca di celare la propria nuda povertà e fragilità senza essere, invece, capaci di assumerla per poterla trasfigurare con un autentico cammino di conversione. Il bianco dei loro sepolcri fa pensare alle ossa aride di cui giorni fa ci parlava una visione di Ezechiele. Mentre le ossa di Ezechiele si fanno riempire e ravvivare dal dono dello Spirito di Dio. Il cuore dell’ipocrita, invece, sottraendosi allo sguardo di Dio non fa altro che acconsentire alla morte fino a farla trionfare. Quando si cede a questa logica, talora senza neanche accorgersene più di tanto, ci si trasforma in una sorta di monumento a se stessi di cui c’è poco da gloriarsi. Questo essere imbiancati può ben dare l’impressione di purezza asettica, ma non dimentichiamo che può anche rimandare ad una terribile assenza dei colori della vita tanto da essere più una manifestazione della morte che una testimonianza della gioia di vivere. Questo è ritenuto dal Signore Gesù un modo di complicità con <chi uccise i profeti> perché incapaci di prendere realmente le distanze da tutto ciò che si oppone alla vita e al suo fiorire colorato e vivace.

Da parte sua l’apostolo Paolo si offre come <modello> per i discepoli proprio a partire da quella che possiamo sentire come un’esortazione viva ad essere operosi senza cedere alla tentazione di essere <oziosi> (2Ts 3, 7). Potremmo intendere questo rischio di oziosità come l’atteggiamento farisaico con cui si tende a deresponsabilizzarsi nei confronti della storia, invece di coinvolgersi appassionatamente.

La persona che lavora mostra nel suo agire e nel suo essere creativo di essere vivo e di essere sensibile alla vita con tutte le sue dinamiche di perenne trasformazione e infinita creatività, di essere, in certo modo, “divino”. Una simile sensibilità per la creatività e per la vita non può che tenere il nostro cuore assolutamente lontano da tutto ciò che ha a che fare con i <sepolcri> (Mt 23, 27). Troppo spesso, infatti, vi è un’eccessiva familiarità tra le persone devote e tutto ciò che ha a che fare con la morte e le <tombe> (23, 29). Di fatto il Signore Gesù continua a stigmatizzare l’ipocrisia degli scribi e dei farisei e, nella pericope evangelica di oggi, in certo modo li identifica ai becchini o ad un’impresa di pompe funebri: tutti intenti ad adornare le tombe e a porre rimedio – senza riuscire a trasformarlo veramente – l’operato dei <padri> dimostrandosi infine come <figli di chi uccise i profeti> (23, 30-31). C’è in questo modo di vivere e di concepire la devozione e la religiosità qualcosa di profondamente malato e di terribilmente morti-fero da cui il Signore prende le distanze e ci chiede di tenerci debitamente a distanza.

Confusi

XXI settimana T.O.

La parola dell’apostolo risuona come una vera e propria diagnosi di quella che è la situazione del nostro cuore: <vi preghiamo, fratelli, di non lasciarvi troppo presto confondere la mente> (2Ts 2, 2). Nel contesto della prima lettura si tratta chiaramente di tutto ciò che può <allarmare> inutilmente, ma alla luce della parola del Signore Gesù ciò che ci rende confusi è l’incapacità a mantenere in ordine l’<interno> (Mt 23, 26) del nostro cuore perché tutto il nostro vivere sia <pulito> senza vivere continuamente in agitazione per tenere in piedi il personaggio di noi stessi davanti ad un pubblico che, spesso, è solo nella nostra mente. Il Signore Gesù non tace il pericolo sempre incombente di essere talmente preoccupati di sentirsi a posto, da cadere nella dimenticanza dei tre pilastri senza i quali qualunque costruzione interiore rischia di cadere miseramente su se stessa. I pilastri sono: <la giustizia, la misericordia e la fedeltà> (23, 23). La confusione contro cui dobbiamo lottare strenuamente con generosità e lucidità è quella che si crea nel nostro cuore quando cediamo, in mille modi, alla tentazione di indossare una maschera pensando che essa corrisponda alla nostra vera identità.

Ogni giorno siamo chiamati a togliere la maschera con cui cerchiamo di giocare ad impersonare un’immagine di noi stessi che rischia di non corrispondere alla verità di noi stessi. Alla tentazione di voler apparire dobbiamo preferisce e dolorosamente scegliere ogni giorno la fatica di assumere il rischio di una lunga avventura interiore. Il fondamento di questo cammino segnato da un’attitudine di autenticità e di continua purificazione interiore è la consapevolezza di essere stati guardati da Dio nella semplicità e nella verità di quello che siamo. Paolo ci conforta e ci sostiene in quest’attitudine interiore: <perché Dio vi ha scelti come primizia per la salvezza, per mezzo dello Spirito santificatore e della fede nella verità> (2Ts 2, 13).

Se prendiamo la strada che porta verso <l’interno> del nostro cuore, lasciandoci alle spalle quella che porta quasi automaticamente all’<esterno> del rapporto con gli altri, che facilmente si fa giudizio, non avremo nessun dubbio sul fatto che la cosa più importante sia l’essere e il sentirsi <amati> come pure la percezione che le cose più importanti siano <la giustizia, la misericordia e la fedeltà>. Dalla preoccupazione, che esige indubitabilmente una buona dose di dedizione, ad offrire le primizie, siamo chiamati a diventare, attraverso la coscienza di essere amati, delle vere primizie che si offrono a Dio accettando di mettersi a disposizione dei propri simili. A questo punto la messa in guardia dell’apostolo suona ancora più parlante: <Nessuno vi inganni in alcun modo!> (2Ts 2, 3). Alla luce della parola che il Signore Gesù ci consegna nel Vangelo potremmo andare ancora più lontano cercando di essere molto vigili nel non ingannare noi stessi <in alcun modo!>.

Compimento

XXI settimana T.O.

Ciò che sembra fare massimamente difetto nella condotta e nella modalità con cui gli scribi e i farisei vivono la loro esperienza di fede e, in certo modo, impediscono agli altri di vivere la loro propria esperienza di fede, sembra essere la paura che possa esserci un <compimento> (2Ts 2, 11). La resistenza dei farisei ad ogni forma di legittima libertà, che si fa talora insistenza ossessiva sull’osservanza di quanto è prescritto, sembra radicare in una paura di accogliere l’esistenza e la bellezza di qualcosa che superi il mondo e il modo delle consuetudini e faccia impallidire il proprio modo di pensare e di concepire il rapporto con Dio. Il rimprovero del Signore Gesù non è per nulla tenero: <chiudete il regno dei cieli davanti alla gente; di fatto non entrate voi, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrare> (Mt 23, 14). Molto probabilmente gli scribi e i farisei avranno avvertito quest’accusa del Signore Gesù come profondamente ingiusta. Forse sarà loro venuto di rispondere, proprio come i capri della parabola che il Signore Gesù racconterà alla fine del suo ministero: <Quando mai…?> (25, 44). Bisogna, infatti, riconoscere che il desiderio di scribi e farisei è di aiutare fin quasi a costringere la gente ad entrare nel regno dei cieli attraverso una vita devota e scrupolosamente osservante.

Ciò che a un certo punto non solo impedisce che questo si possa concretizzare, ma persino rischia di sortire l’effetto contrario è l’incapacità da parte di scribi e farisei di accettare che ci possano essere porte diverse e tempi diversi dai propri per accedere ad una vera comunione con Dio. Allora si comincia a cedere alla terribile tentazione della sottilizzazione spirituale in base alla quale <percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, quando lo è divenuto, lo rendete degno della Geenna due volte più di voi> (Mt 23, 15). In realtà questo capita anche nella vita della Chiesa in generale e di discepoli in particolare. Il rischio è di chiedere all’altro di confermare i nostri cammini, accettando di ripercorrerli con assoluta docilità. Dimentichiamo così che il nostro cammino – sia quello umano che quello di fede – può essere un’ispirazione ma non può diventare in alcun modo una imposizione. 

L’apostolo Paolo sembra conoscere tutto ciò non solo teoricamente, ma per esperienza. Per questo se da una parte si rallegra dell’accoglienza del suo annuncio da parte della comunità di Tessalonica, dall’altra non dimentica che c’è un <compimento> (2Ts 1, 11) che è sempre e necessariamente un superamento per il quale è <glorificato il nome del Signore nostro Gesù>! Il Signore Gesù si mostra capace di un rigore intellettuale a cui dobbiamo ispirare il nostro modo di leggere, interpretare e continuamente convertire il nostro modo di abitare il mondo, cominciando sempre dalla capacità – quotidianamente rinnovata – di dilatare il nostro mondo interiore senza mai trasformarlo in un punto di osservazione e di giudizio della vita degli altri.

Pane duro

XXI Domenica T.O.

La liturgia ci fa oggi concludere la lettura del discorso del Signore Gesù sul Pane di Vita che è Lui stesso posto nelle nostre mani. Come pane il Signore si consegna alla nostra libertà di prendercene cura o meno lasciando che la sua presenza lieviti nella nostra vita e la trasformi. L’evangelista Giovanni annota argutamente che <Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito> (Gv 6, 64). La lunga lettura di un intero capitolo del quarto vangelo si pone quasi come integrazione all’inizio del capitolo sesto di Marco dove – ormai cinque domeniche fa – ne abbiamo sospeso la lettura proprio su un primo piano del Signore Gesù che <Sceso dalla barca, vide molta folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise ad insegnare molte cose> (Mc 6, 34). Di fatto l’evangelista Marco non di dice nulla di queste <molte cose> e, la Liturgia, ci aiuta ad entrare nel mistero di questo silenzio attraverso la lettura di uno dei capitoli mistagogici del quarto vangelo in cui il Signore si presenta come <pane vivo> (Gv 6, 51) che si dà da mangiare come <carne per la vita del mondo> (6, 51). Non diversamente dai <Giudei che si misero a mormorare> (6, 41) anche <i discepoli> (6, 61) – e noi con loro – ci troviamo realmente in imbarazzo davanti a questa parola del Signore. Se volessimo comprendere il mistero di cui ci parla il Signore Gesù con le nostre categorie e a partire dalla debolezza dei nostri parametri non ci resterebbe che prendere atto di non poter più stare con il Signore poiché la sua <parola è dura> (Gv 6, 60) e come un pezzo di pane duro non può che andarci di traverso e farci soffocare o rigettare. Questa, in realtà, è la nostra perenne condizione davanti alla Rivelazione del dono di attrazione a sé che il <Padre> (Gv 6, 65) ci fa attraverso la carne del suo Figlio. Come il popolo di Israele finalmente giunto alla fine del suo esodo dalla terra della schiavitù, anche a noi – ogni giorno – è offerta la possibilità di scegliere e riscegliere con chi vogliamo giocare la nostra vita e su che cosa. Giosuè e Gesù ci mettono davanti alla stessa sfida. Giosuè dice al popolo dopo aver portato a termine la conquista della terra delle promesse: <Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, scegliete oggi chi servire> (Gs 24, 2); il Signore Gesù mette i suoi apostoli davanti alla possibilità di prendere le distanze con una domanda che li lascia liberi di pensare come gli altri che non hanno potuto sopportare le esigenze del “segno” del pane pur essendosene nutriti fino a sazietà, e per questo chiede: <Volete andarvene anche voi?> (Gv 6, 67). Lungi dal dare una risposta troppo affrettata ci conviene sostare un momento in adorazione e in profonda riflessione. Solo così ci sarà possibile comprendere cosa noi vogliamo essere per il Signore e per i nostri fratelli e sorelle in umanità.

Pain dur

XXI Dimanche du T.O. 

La Liturgie nous fait conclure aujourd’hui la lecture du discours du Seigneur Jésus sur le Pain de Vie qu’Il est lui-même, déposé dans nos mains. En tant que pain, le Seigneur confie à notre liberté d’en prendre plus ou moins soin en laissant sa présence fermenter dans notre vie et la transformer. L’évangéliste Jean note comme argument que ” Jésus savait, en effet, depuis le début qui étaient ceux qui ne croyaient pas et qui était celui qui le trahirait ” ( Jn 6, 64 ). La longue lecture d’un chapitre entier du quatrième évangile se pose presque comme une intégration au début du chapitre six de Marc où – depuis désormais cinq dimanches- nous en avons interrompu la lecture juste sur un premier plan du Seigneur Jésus qui ” descendit de la barque, vit la foule nombreuse, en eut compassion car ils étaient tous comme des brebis sans pasteur, Il se mit à leur enseigner beaucoup de choses ” ( Mc 6, 24 ). En fait, l’évangéliste Marc ne nous dit rien sur ces ” beaucoup de choses “, et, la Liturgie nous aide à entrer dans le mystère de ce silence à travers la lecture de l’un des chapitres mystagogiques  du quatrième évangile où le Seigneur se présente comme le ” pain vivant ” ( Jn 6, 51 ) qui se donne en nourriture comme ” chair pour la vie du monde ” ( 6, 51 ). Tout comme les ” Juifs qui se mirent à murmurer ” ( 6, 41 ),  ” les disciples ” ( 6, 61 ) – et nous avec eux – nous nous trouvons réellement dans l’embarras face à cette parole du Seigneur. Si nous voulions comprendre le mystère dont nous parle le Seigneur Jésus avec nos critères et à partir de la faiblesse de nos paramètres, il ne nous resterait qu’à prendre acte de ne plus pouvoir rester avec le Seigneur car sa ” parole est dure ” ( Jn 6, 60 )  comme un petit morceau de pain dur qui ne peut qu’être avalé de travers et nous faire suffoquer ou cracher. Ceci, en réalité, est notre éternelle condition face à la Révélation du don d’attraction à soi que le ” Père ” ( Jn 6, 65 ) nous fait par la chair de son Fils. Comme le peuple d’Israël finalement arrivé à la fin de son exode de la terre d’esclavage, nous aussi – jour après jour – nous avons la possibilité de choisir et de rechoisir avec qui nous voulons jouer notre vie et sur quelle base. Josué et Jésus nous mettent face au même défi. Josué dit au peuple, après être arrivé à la conquête de la terre promise : ” Si, à vos yeux ,cela semble mal de servir le Seigneur, choisissez maintenant qui vous voulez servir ” ( Js 24, 2 ) ; le Seigneur Jésus met ses disciples face à la possibilité de prendre des distances par une question qui les laisse libre de penser comme les autres qui n’ont pas pu supporter les exigences du ” signe ” du pain”, malgré le fait qu’ils s’en soient nourris jusqu’à satiété, et pour cela il demande : ” Vous voulez partir vous aussi ? ” ( Jn 6, 67 ). Plutôt que de donner une réponse trop rapide, il convient de s’arrêter un moment, en adoration et en profonde réflexion. Seulement ainsi, il sera possible de comprendre ce que nous voulons être pour le Seigneur et pour nos frères et soeurs en humanité.  

Ti mostrerò

S. Bartolomeo apostolo

Le parole che l’angelo rivolge al Veggente di Patmos possono ben risuonare sulle rive del Giordano con un’intensità ancora più grande: <Vieni ti mostrerò la promessa sposa, la sposa dell’Agnello> (Ap 21, 9). In realtà vediamo come – su indicazione di Giovanni Battista – si crea un vortice di conoscenza e di accoglienza di colui che è stato appena indicato dal Precursore quale <agnello di Dio che toglie il peccato del mondo> (Gv 1). E’ proprio come agnello che il Signore Gesù muove i primi passi in mezzo a noi accettando serenamente di essere accolto o anche non visto… persino disprezzato. Il Verbo fatto carne accetta di farsi passante anonimo tra le vie della nostra umanità e continua – come agnello mansueto e deciso – ad andare per la sua strada, tanto da aprirci una strada e fare la strada con noi senza imporsi. Suo intento è piuttosto quello di donarci  tutto il tempo necessario perché di lasciamo interrogare – e anche un po’ affascinare – dalla sua discreta presenza.

L’Apocalisse apre i nostri occhi e il nostro cuore sul mistero sublime della Gerusalemme del cielo che diventa il simbolo dei credenti: <Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello> (21, 14). Ogni nome è in realtà una porta che si apre su un mistero unico e irripetibile come lo è una <gemma preziosissima> e <come pietra di diaspro cristallino> (21, 11) che ha il suo unico <splendore> e che pure è chiamato ad interagire fino a fare tutt’uno con altre pietre, con altre gemme, con altri splendori. È questo il mistero della Chiesa chiamata ad essere città sicura munita di <alte mura>, ma pur sempre assolutamente aperta e interagente con il mondo circostante, attraverso le sue <dodici porte> (21, 12).

In questa splendida diversità c’è posto per il dono di tutti e di ciascuno! Natanaele significa, appunto: Dio ha donato! Quest’uomo è se stesso esercitando un dono di immediatezza che permette al Maestro di rivelare ulteriormente se stesso: <Da Nazaret può venire qualcosa di buono?> (Gv 1, 46). La parola di Filippo raggiunge quella dell’angelo e rievoca la stessa parola di Gesù ai suoi due primi discepoli che sembrano quasi dei segugi: <Vieni e vedi> (Gv 1, 46). Ciò che fa di Natanaele un uomo affidabile, è il fatto di camminare verso la verità accettando di fare verità su se stesso oltre che sugli altri attorno a sé. Nonostante, o forse proprio a motivo del suo naturale e non nascosto scetticismo, Natanaele è un uomo in cammino. Lo scetticismo dichiarato apre la possibilità di un dialogo vero che comincia con l’accoglienza incondizionata di Gesù. Prima di essere dei chiamati, siamo dei riconosciuti, colti là dove siamo e come siamo. Questo è il primo gradino per vedere <cose più grandi> (1, 50). Tutti noi siamo un po’, come Giacobbe, addormentati a Betel dopo un lungo viaggio che se ci ha stancato, ma non ci impedisce comunque di continuare a sognare. Il Signore Gesù non viene a spegnere i nostri sogni, al contrario vuole abitarli fino a compierli in pienezza.

Profetizza

XX settimana T.O.

L’invito del Signore al profeta è quello di profetizzare <su queste ossa> (Ez 37, 4) perché possano rivivere proprio a partire dalla certezza che, da Dio e in Dio, tutto può e deve riprendere vita. Si può veramente dire che ciò che sta a cuore al Signore è che la vita sia piena e abbondante per tutti. Per questo <il grande comandamento> (Mt 22, 36) di cui si parla nel Vengelo non può che essere imprescindibilmente legato a questo mistero di vita che si fa continua e creativa apertura alla vitalità. Vi è un solo obbiettivo: amare perché l’amore crea, conserva e incrementa la vita. Anche la nostra esistenza, come quella del profeta, è chiamata ad essere posta come a custodia del mistero di una sempre possibile insurrezione di un di più di amore che è sempre un di più di vitalità.

Se l’obbiettivo è unico i soggetti e gli oggetti di questo amore non possono mai essere unilaterali, sempre ci sono almeno e Dio e l’uomo che si incontrano ora dolcemente e talora con grande fatica tanto che sembra ci si perda di vista… ci si perda di cuore. Così pure va tenuto presente che le esperienze e le sensazioni non sono realtà univoche, ma per loro natura dinamiche, ricche e complesse. Il Signore Gesù si sottrae alla tendenza ad assolutizzare il comandamento dell’amore verso Dio, ma lo mette in relazione e comunicazione con quello di amare il fratello. In tal modo si ribadisce il dinamismo originario che passa del tutto naturalmente e in modo amorevolissimo da Dio, nel mistero della sua vita intima, alla creazione nel dinamismo di una continua e mai conclusa crescita che ci riguarda in modo profondo e irrinunciabile.

Basilio Magno insiste con i monaci affidati alle sue cure: <Abbiamo ricevuto il precetto di amare il prossimo come noi stessi. Ma Dio non ci ha forse dato anche una propensione naturale a farlo? Nulla è più conforme alla nostra natura che vivere insieme, cercarci l’un l’altro e amare il proprio simile. Il Signore domanda dunque i frutti di quello di cui ha deposto il germoglio in noi, dicendo: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri” (Gv 13, 34)>1. L’amore per Dio non è assoluto perché cancellerebbe ogni altro amore. Al contrario, l’assoluto dell’amore di Dio ci permette di abitare e di animare l’amore che dobbiamo a noi stessi e agli altri senza relativizzare, ma vivendo in pienezza ogni minima relazione.


1. BASILIO MAGNO, Regole più ampie, § 3