I tempi di Gesù

XXV settimana T.O.

Il Signore Gesù ha bisogno di un <luogo solitario> dove metabolizzare in modo profondo e assolutamente nuovo la realtà che sta diventando per gli altri. L’evocazione della morte del Battista è particolarmente sobria nel Vangelo secondo Luca e senza che si scenda nei particolari che, invece, sembrano essere stati totalmente affidati al racconto della sua concezione e della sua nascita. Le parole atterrite di Erode: <Giovanni è risorto dai morti> (Lc 9, 7) sembrano trasformarsi nel cuore e nell’orante meditazione di Gesù fino a diventare una sorta di strada da percorrere. Il Signore si ritira in solitudine e da questa solitudine esce con una chiarezza e una consapevolezza tutta da sentire e tutta da condividere con i suoi discepoli: <Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno> (9, 22). Sembra che il Signore si conformi in tutto alla sapienza del Qoèlet e ripercorra – non nella forma del passato, ma in quella del futuro – ognuno dei passi che lo attende con una passione e una dedizione assolute.

Se è vero che <Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo>, questo diventa vero nella misura in cui sappiamo accogliere il mistero della nostra vita e ne accettiamo i tempi, i modi, gli incidenti, i fallimenti come pure le gioie e i successi. Sembra che il Signore Gesù senta il bisogno di raccontare – a se stesso e ai suoi discepoli – la scaletta del suo salire verso Gerusalemme. Questa salita è una vera ascensione che culmina in quel chiaro <risorgere il terzo giorno> che però non può darsi senza passare per i due giorni che lo precedono e lo preparano. Qoèlet lo ricorda come un’evidenza cui doversi necessariamente arrendersi: <C’è un tempo per nascere e un tempo per morire> (Qo, 3, 2). Tuttavia questo naturale avvicendarsi delle stagioni e degli stadi della vita non è solo un’evidenza, esige pure un’accoglienza e una scelta che libera dalla tentazione di subire, piuttosto che di acconsentire in modo consapevole e coraggioso.

Il Signore ha scelto di accogliere il dinamismo pasquale nella sua vita e vuole aiutare i suoi discepoli a fare altrettanto. Per fare questo il primo passo è porre loro una domanda, e il secondo è quello di illuminare la risposta che se è esatta, va comunque ben compresa e radicalmente purificata: <Ma voi, chi dite che io sia?> (Lc 9, 20). Certo la risposa degli apostoli ha la sua importanza soprattutto perché rende possibile quel necessario e fondamentale chiarimento del Signore sul suo cammino pasquale, ma la domanda di Gesù conserva tutta la sua preziosità perché rivela una relazione con i discepoli che non è unilaterale, ma veramente reciproca. Il Signore è un Maestro che ascolta, interroga, interpreta gli avvenimenti e si lascia interpellare persino dagli incidenti di percorso, tanto da rendere ancora più vera la parola del Qoèlet: <Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, inoltre ha posto nel loro cuore la durata dei tempi, senza però che gli uomini possano trovare la ragione di ciò che Dio compie dal principio alla fine> (Qo 3, 11).

Novità?

XXV settimana T.O.

Le parole del Qoèlet sembrano incontrovertibili e indiscutibili: <C’è forse qualcosa di cui si possa dire: “Ecco questa è una novità”?> (Qo 1, 10). Tra re forse ci si intende molto più di quanto si possa immaginare e desiderare, per cui forse un’affermazione come questa avrebbe incontrato il favore e l’approvazione del tetrarca Erode, tremendamente imbarazzato davanti a tutto ciò che sente dire di Gesù e ancor più ossessionato dal ricordo del suo modo infame di sbarazzarsi del Battista. Eppure, con buona pace di Salomone, possiamo dire che in Gesù, nella sua parola e nei suoi gesti, siamo posti veramente dinanzi al mistero di una <novità> che non ha niente a vedere con la curiosità, ma esige un rinnovamento radicale della nostra vita. L’evangelista Luca annota che Erode <non sapeva cosa pensare> (Lc 9, 7) e, in realtà, è proprio questo il dramma del re che continua ad immaginare il mondo a partire dal suo palazzo e dal suo trono, senza lasciarsi interpellare veramente da ciò che la vita gli richiede come scatto di consapevolezza e di conversione.

La nota con cui si conclude il Vangelo ha una sua bellezza: <E cercava di vederlo> (9, 9). Sarà la stessa cosa che starà a cuore a Zaccheo mentre si arrampica come un bambino sul sicomoro per vedere Gesù. La differenza tra Erode e Zaccheo sta nella disponibilità o meno a farsi vedere da Gesù, fino a lasciarsi cambiare dall’incontro con Lui. Chissà, forse, il Signore avrebbe persino accettato di incontrare il re Erode non essendosi mai sottratto a nessun invito con una capacità di sedere alla mensa della vita di chiunque. In realtà Erode cerca di vedere Gesù, ma senza maturare nel proprio cuore la disponibilità a perdere il controllo – peraltro così illusorio – della vita sua e del mondo che lo circonda. Questo bisogno di controllo e di autorassicurazione induce, suo malgrado, il re Erode a non immaginare e a non aspettarsi nulla di nuovo. Sulle sue labbra persino la risurrezione perde tutta la sua capacità di insurrezione contro la morte di ciò che è scontato e che è “déjà vù”. L’unica cosa di cui Erode è certo è che: <Giovanni, l’ho fatto decapitare io>!

Pertanto, il re dimentica che <decapitare> è una cosa ed eliminare è un’altra! In realtà, ciò che turba il cuore di Erode è una sottile consapevolezza che l’aver fatto giustiziare Giovanni non ha significato far tacere la sua voce, ma l’ha resa persino più inquietante, perché essa ormai disturba non più le stanze del palazzo ma quelle, ben più segrete, del suo cuore malato. Se tra re sempre un po’ ci si intende, allora la parola del Qoèlet può essere applicata benissimo a Erode: <Quale guadagno viene all’uomo per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole?> (Qo, 1, 3). Soprattutto quando questa fatica consiste nel cercare in tutti i modi di preservare il proprio mondo, condannandolo così a un fallimento certo. La <novità> (1, 10) che il Signore Gesù annuncia è proprio la possibilità per tutti di poter cambiare fino a dare alla propria vita un orientamento talmente nuovo da essere capace di guarirci fino alla radice della nostra personalità, liberandoci dalle catene del passato che rischia di diventare un incubo. Questo esige un assenso… non impossibile, ma forse troppo costoso per la nostra immagine! Eppure, questo è il prezzo della pace e della serenità. Il rischio è sempre quello di decapitare la verità per salvare un onore effimero.

Nulla

XXV settimana T.O.

La consegna del Signore Gesù ai Dodici è duplice: <diede loro forza e potere su tutti i demòni e di guarire le malattie> (Lc 9, 1). Per gli antichi ogni malattia – sia psichica che fisica – è legata all’azione devastante di un demonio ed è per questo che tutti sono consapevoli di avere bisogno di aiuto per poter essere liberati da ciò che turba e avvilisce la vita. Questo aiuto non può essere semplicemente un rimedio che tenti di guarire il male particolare che sperimentiamo, ma ogni volta che si cura un sintomo si ha di mira la guarigione di tutta la persona. Per questo il Vangelo continua così: <E li mandò ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi> (9, 2). Come ci ricorda la prima lettura: <Ogni parola di Dio è purificata nel fuoco; egli è scudo per chi in lui si rifugia> (Pr 30, 5). Questo vale per tutti e vale sempre ed è stata un’esperienza che gli stessi apostoli hanno dovuto assumere nel loro cammino di fede e, naturalmente, è un processo che ci riguarda personalmente e come Chiesa se vogliamo – realmente – continuare ad essere testimoni credibili e annunciatori accettabili del Vangelo.

Per questo il Signore Gesù invece di mettere nelle mani dei suoi apostoli un kit da pronto intervento o di iscriverli ad un corso paramedico, li spoglia ulteriormente rendendoli così ancora più liberi ed essenziali: <Non prendete nulla…> (Lc 9, 3). Non possiamo nasconderci che questo <nulla> ci spaventa non poco. Ciascuno di noi mettendosi in cammino o cominciando un viaggio per prima cosa prepara i bagagli o prende tutto ciò che gli può servire per portare a termine con successo una missione di lavoro o semplicemente per non fare brutta figura. Chi di noi non mette nel proprio zaino o nella propria borsetta quello che “potrebbe servire”, fosse anche una crema o qualche analgesico… naturalmente che potrebbe venire utile a qualcun altro! È difficile non attrezzarsi e non premunirsi.

Il Signore Gesù ci chiede di non attrezzarci e di non premunirci, ma di rischiare e di esporci tanto da permettere ai nostri fratelli e sorelle in umanità di lasciarsi toccare da quell’annuncio che prima di essere un contenuto è una forma di vita e una testimonianza. Solo così si può immaginare un modo possibile di stare al mondo, sottratto – guarito sarebbe meglio dire – dalle logiche mondane del successo, dell’autoaffermazione e della continua rassicurazione che può trasformarsi, inconsapevolmente, in una sorta di immunizzazione dalla vita. Il libro dei Proverbi ci esorta nella medesima direzione di essenzialità e di leggerezza: <Non aggiungere nulla alle sue parole> (Pr 30, 6). Al contempo mette sulle nostre labbra le parole giuste capaci di esprimere l’atteggiamento giusto nei confronti della vita: <non darmi né povertà né ricchezza> (30, 8). Naturalmente questo non vale solo a livello materiale, ma pure a livello esistenziale e spirituale. Il primo segno con cui siamo chiamati ad annunciare il Vangelo non è quello di dare e portare qualcosa, ma il fatto di presentarci serenamente poveri e bisognosi di essere accolti e accuditi. Questo dovrebbe infondere il coraggio anche agli altri di riconoscere i loro bisogni, fino ad essere guariti dalla terribile malattia dell’autosufficienza che isola fino ad uccidere. Così, paradossalmente, il <nulla> diventa la condizione del tutto!

Benevolenza

XXV settimana T.O.

Questa nuova settimana dell’anno liturgico sarà accompagnata dalla lettura di alcuni passi del libro dei Proverbi. La lettura liturgica comincia appunto con un detto che ci riguarda in relazione agli altri e non solo a noi stessi: <non negare un bene a chi ne ha il diritto se hai la possibilità di farlo> (Pr 3, 27). Se questa è la parola con cui si apre la prima lettura, che sarà solennemente ripresa dall’apostolo Giacomo nella sua Lettera, l’ultima suona così: <agli umili concede la sua benevolenza> (3, 34). La benevolenza cui ci esorta la prima lettura si concretizza nell’esortazione del Signore Gesù a non privatizzare fino a sprecare i doni che riceviamo dall’Altissimo, perché ne usiamo non solo per noi stessi, ma per metterli a servizio di tutti. Il Signore Gesù, dopo aver raccontato la parabola del seminatore che fa cadere il seme della sua parola e della sua presenza con una larghezza e benevolenza impressionanti, ci ricorda che il destino di questo seme è affidato ora alle nostre mani e non abbiamo il diritto di lasciarlo morire, ma abbiamo il compito di lasciarlo fruttificare: <Nessuno accende una lampada e la copre con un vaso o la mette sotto un letto, ma la pone su un candelabro, perché chi entra veda la luce> (Lc 8, 16).

Con questa breve parabola il Signore si sposta dal campo aperto in cui viene largamente seminata la Parola, all’intimità della casa in cui il seme si fa raggio di luce. Il Signore Gesù non dice che la lampada è posta sul candelabro per vederci meglio, ma precisa, sottilmente, che la lampada accesa va posta in evidenza perché chi entra veda la luce. La nostra esperienza della grazia è chiamata a diventare un dono e un’occasione di grazia per tutti senza cedere a nessuna inutile forma di privatizzazione intimistica che corrisponderebbe ad una follia, proprio come se, dopo aver accesa una lampada, la nascondessimo. Il Signore Gesù si spinge ancora oltre! Dopo averci condotto nell’intimità della casa, ci fa scendere nella profondità del nostro cuore: <Non c’è nulla di segreto che non sia manifestato, nulla di nascosto che non sia conosciuto e venga in piena luce> (8, 17).

La <benevolenza> con cui siamo chiamati a condividere con gli altri i doni ricevuti, diventa una spinta a far fruttare pienamente questi doni nella nostra vita più personale e intima, perché tutta la nostra esistenza possa essere un vero processo di crescita e di dilatazione che comprende sempre un dinamismo di chiarificazione e di consapevolezza. Proprio come quando si accende una piccola lucerna e, pian piano, si impara a riconoscere le cose e le persone in una luce nuova, così è pure dell’intimità del nostro cuore. L’ascolto della Parola e l’incontro quotidiano con il Signore sono sempre l’occasione per diventare più solidali con gli altri e più autentici con se stessi. L’ultima parola che ci viene consegnata nel Vangelo può diventare per noi un vero punto di meditazione e uno spunto esigente di verifica: <Fate attenzione dunque a come ascoltate; perché a chi ha, sarà dato, ma a chi non ha, sarà tolto anche ciò che crede di avere> (8, 18)… per proteggerlo da se stesso.

Flusso regale

XXV settimana T.O.

Una frase racchiude il mistero che abita il cuore di chiunque senta di avere un certo grado di parentela nei confronti del Signore Gesù: <Tua madre e i tuoi fratelli stanno fuori e desiderano vederti> (Lc 8, 20). Il passaggio della famiglia di Gesù avviene in un momento assai significativo dell’itinerario spirituale che l’evangelista Luca va tracciando attraverso la memoria delle parole e dei gesti del Signore. I familiari <non potevano avvicinarlo a causa della folla> (8, 19). In realtà questa difficoltà di avvicinare Gesù è la rivelazione della fedeltà al suo ministero di illuminazione e di guarigione offerto generosamente a tutti e non solo a chi è più vicino. Mentre sentiamo la difficoltà e l’imbarazzo dei parenti del Signore, che talora sono la nostra stessa difficoltà e il nostro stesso imbarazzo di discepoli, non possiamo chiudere gli occhi e il cuore sulla stupenda rivelazione di Gesù che assomiglia così tanto a ciò che leggiamo in apertura della prima lettura: <Il cuore del re è un corso d’acqua in mano al Signore> (Pr 21, 1). Un fiume o un torrente si rallegra nel donarsi e proprio quando scorre riesce a superare ogni ostacolo in un magnifico equilibrio tra la forza e la dolcezza attraverso cui l’acqua trova sempre un modo per correre verso il mare.

Se il cuore del Signore Gesù sembra proprio un corso d’acqua che continua allegramente e decisamente la sua corsa, la sua famiglia sembra cedere alla tentazione di voler fare da diga per contenere e quasi controllare la sua incondizionata donazione. Ancora una volta la saggezza dei Proverbi ci ricorda che <chi scruta i cuori è il Signore> (21, 2) il quale è capace di rettificare fino a orientare e guarire i nostri desideri. La risposta risuona tagliente e al contempo liberante: <Mia madre e i miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica> (Lc 8, 21). Tutto il lavoro della nostra vita di discepoli è di ritrovare continuamente il nostro posto dopo i due punti di questa frase del Maestro. Saremo sempre ammaliati e tentati dalla tentazione di avere un posto di prestigio identificando nel privilegio un segno di maggiore vicinanza e di più intima appartenenza. Se invece veramente ci poniamo alla scuola del Vangelo sottoponendo al suo giudizio non solo i nostri gesti, ma pure i nostri desideri, allora scopriremo che, spesso, ciò che consideriamo un impedimento per arrivare a Gesù – la folla – è, in realtà, il luogo più adeguato e più bello per fare esperienza di quella grazia che ci viene dalla sua parola ed è capace di guarire e di salvare insieme.

L’immagine del <re> paragonato al <corso d’acqua> ci parla, indubbiamente, del Signore Gesù, ma parla anche di noi. Siamo chiamati a non contrapporci al fluire della grazia e il primo modo per farlo è quello di sottrarsi a questo flusso appartandosi alla ricerca di una situazione di privilegio, talora con il pretesto di un’intimità che rischia di essere piuttosto la ricerca di una marginalità aristocratica. Potremmo dire che se c’è un modo per discernere il nostro grado di vicinanza al Signore Gesù è proprio quello dell’assoluta condivisione della vita di tutti. Infatti, il nostro grado di parentela spirituale è direttamente proporzionale alla nostra capacità di conformarci radicalmente a ciò che la Parola cerca di creare nel nostro cuore come attitudine ad una discepolanza condivisa e non elitaria. A partire da questa consapevolezza – sempre in crescita – l’ultima parola della prima lettura può diventare una vera guida al discernimento spirituale: <Chi chiude l’orecchio al grido del povero invocherà a sua volta e non otterrà risposta> (Pr 21, 13). Siamo chiamati a farci solidalmente popolo di poveri che insieme cercano di vedere Gesù e di lasciarsi vedere da Lui, per essere la sua famiglia senza mai cedere all’istinto di fare famiglia – nel senso del clan o della setta – escludendo qualcuno.

Comprendere

XXV Domenica T.O.

L’apostolo ci propone un criterio per saggiare, ogni giorno, il livello del nostro consenso al vangelo e questo non a parole ma – secondo lo spirito proprio di questo apostolo così poco amato da Lutero – in modo pratico e quotidiano: <dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni> (3, 16). Se rileggiamo la prima lettura è chiaro che, se l’intento dichiarato degli empi è quello di saggiare la mitezza e la santità del giusto, in realtà le loro azioni non sono altro che l’espressione di quella disperazione che la gelosia è capace non solo di generare, ma di nutrire in modo regolare e continuo. Non si fanno illusioni gli empi e non possono nascondere a se stessi il male che li divora come un fuoco che incendia la paglia – per usare alcune immagini che ritroviamo nella lettera di Giacomo – e per questo si confessano l’un l’altro: <Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione da noi ricevuta> (Sap 2, 12). In realtà, proprio mentre si cerca di mettere <alla prova con violenze e tormenti> (2, 19) il giusto, non si fa che saggiare e smascherare la propria grettezza e la propria inadeguatezza: <per la strada, infatti, avevano discusso tra loro chi fosse più grande> (Mc 9, 34). I discepoli fanno fatica, come noi, a lasciarsi realmente plasmare dalla parola e dai gesti del Signore Gesù. Per questo reagiscono al suo solenne annuncio del fallimento pasquale tentando di mettere a punto i quadri del fantomatico successo messianico. Il progetto messianico abita segretamente il cuore dei discepoli pieno di sogni e di idealismi che non contempla e non sopporta il contrario cui il Maestro li sta preparando senza dimenticare di preparare se stesso: <Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà> (9, 31). L’evangelista annota qualcosa che riguarda i discepoli ma che riguarda così spesso anche noi: <Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo> (9, 32). Quando noi non capiamo o non vogliamo capire, il Signore non esita a interrogarci e a spiegarci ulteriormente per metterci in condizione di <saggiare> la nostra <mitezza> (Sap 2, 19). Lo fa con un gesto che non ha nulla di romantico e che, invece, è una sorta di giudizio che esige sempre profonda conversione: <Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti> (Mc 9, 35). Come se non bastasse, il modello del servizio del discepolo non è il servitore, cosciente del proprio compito, bensì il <bambino> (9, 36) che non può servire a molto se non nella misura in cui gli si da fiducia e lo si ama per la promessa di vita che rappresenta. Tutto ciò comporta di accettare il rischio di farsi garanti di ciò che non può imporsi da sé, ma che solo può lasciarsi accogliere <abbracciandolo>.

Comprendre

XXV Dimanche du T.O. 

L’apôtre nous propose un critère pour tester, chaque jour, le niveau de notre consentement à l’évangile et ceci non par des paroles mais – selon l’esprit propre à cet apôtre, si peu aimé de Luther -de façon pratique et quotidienne : ” là où se trouve la jalousie et l’esprit de contestation, il y a le désordre et toute sorte de mauvaises actions ” ( 3, 16 ). Si nous relisons la première lecture, il est clair que, si l’intention déclarée par les impies est celle d’évaluer la douceur et la sainteté du juste, en réalité, leurs actions ne sont rien d’autre que l’expression de cette désespérance que la jalousie est capable, non seulement de créer, mais aussi de nourrir de façon régulière et continuelle. Les impies ne se font aucune illusion et ne peuvent se cacher à eux-mêmes le mal qui les dévore comme un feu qui incendie la paille – pour utiliser quelques image que nous retrouvons dans la lettre de Jacques – et pour cela ils se confessent les uns aux autres : ” Traquons donc le juste, puisqu’il nous est inutile, qu’il est contraire à notre manière d’agir, qu’il nous reproche de violer la loi et nous fait une honte de démentir notre éducation ” ( Sg 2, 12 ). En réalité, alors que l’on essaie de mettre  ” à l’épreuve avec violences et tourments ” ( 2, 19 ) le juste, l’on ne fait que tester et démasquer sa propre étroitesse d’esprit et sa propre insuffisance ”  en route, ils avaient discuté entre eux pour savoir qui était le plus grand ” ( Mc 9, 34 ). Les disciples ont des difficultés, comme nous, à se laisser réellement modeler par la parole et les gestes du Seigneur Jésus. C’est pour cela qu’ils réagissent à son annonce solennelle d’échec pascal en tentant de mettre au point le cadre d’un fantomatique succès messianique. Le projet messianique habite secrètement le coeur des disciples pleins de rêves et d’idéalisme qui ne peut supporter ni contempler le contraire auquel le Maître est en train de les préparer sans oublier de se préparer lui-même : ” Le Fils de l’homme sera livré aux mains des hommes et ils le tueront ; mais, une fois tué, il ressuscitera le troisième jour ” ( 9, 31 ). L’évangéliste note quelque chose qui concerne les disciples, mais qui nous concerne aussi si souvent : ” Pourtant, ils ne comprirent pas ces paroles et craignaient de l’interroger ” ( 9, 32 ). Lorsque nous ne comprenons pas ou ne voulons pas comprendre, le Seigneur n’hésite pas à nous interroger et à nous expliquer ultérieurement pour nous mettre en condition de ” tester ” notre ” douceur ” ( Sg 2, 19 ). Il le fait par un geste qui n’a rien de romantique et qui, au contraire, est une sorte de jugement qui exige toujours une conversion profonde : ” Si quelqu’un veut être le premier, qu’il devienne le dernier de tous et le serviteur de tous ” ( Mc 9, 35 ). Et, comme si cela ne suffisait pas, le modèle de service du disciple n’est pas le serviteur, conscient de son propre devoir, mais bien ” le petit enfant ” ( 9, 36 ) qui ne peut servir à grand-chose, si ce n’est à la mesure de la confiance qu’on lui fait et à l’amour qu’on lui donne comme promesse de vie qu’il représente. Tout cela suppose d’accepter le risque d’être garant de ce que l’on ne peut s’imposer soi-même, mais qui ne peut qu’être accueilli en ” l’embrassant “.

Che bel segno!

San Matteo apostolo

Un testo di Beda il Venerabile molto caro a Papa Francesco da cui ha tratto il suo motto episcopale che è divenuto il suo programma pastorale come Vescovo di Roma può aiutarci ad entrare nel mistero di questa festa che ci apre alla contemplazione del mistero di una sequela: <Gesù vide un uomo chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: ‘Seguimi’. Vide non tanto con lo sguardo degli occhi del corpo, quanto con quello interiore della misericordia. Vide un pubblicano e, siccome lo guardò con un sentimento di amore e lo scelse, gli disse: ‘Seguimi’. Seguimi, cioè imitami. Seguimi, disse, non tanto col movimento dei piedi quanto con la pratica della vita. Infatti, “chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato” (1 Gv 2,6). “Ed egli si alzò, e lo seguì”. Non c’è da meravigliarsi che un pubblicano alla prima parola del Signore, che lo invitava, abbia abbandonato i guadagni della terra che gli stavano a cuore e, lasciate le ricchezze, abbia accettato di seguire colui che vedeva non avere ricchezza alcuna. Infatti lo stesso Signore che lo chiamò esternamente con la parola, lo istruì all’interno con un invisibile impulso a seguirlo. Infuse nella sua mente la luce della grazia spirituale con cui comprendere come colui che sulla terra lo strappava alle cose temporali era capace di dargli in cielo tesori incorruttibili (cf Mt 6,20). “Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli”. La conversione di un solo pubblicano ha aperto la strada della penitenza e del perdono a molti pubblicani e peccatori. Che bel segno! Al momento della conversione colui che doveva più tardi diventare apostolo e maestro dei pagani trascina dietro di sé sulla via della salvezza un gruppo di peccatori>1.

Lo stesso papa Francesco nella sua intervista rilasciata un anno fa al direttore de La Civiltà Cattolica paragonava la Chiesa a un ospedale da campo: <Io vedo con chiarezza — prosegue — che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso>

Che i malati siano preferiti ai sani, che i peccatori siano anteposti ai giusti è l’opera grande, discreta e strepitosa del Medico che sana e salva la realtà quotidiana delle nostre vite. Andare e imparare a fare lo stesso è potenza di risurrezione cha fa nuovo il mondo. La misericordia è il filo a piombo, che scenda dal cielo di Dio verso la nostra terra, che ci permette di costruire in modo sicuro e bello <fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo> (Ef 4, 13).


1. BEDA IL VENERABILE, Omelie sui Vangeli, I, 21.

Farsi avanti

XXIV settimana T.O.

Molto prima che l’idea venisse agli apostoli di istituire dei diaconi a servizio della comunità e a sostegno dell’attenzione e dedizione degli apostoli nella loro missione di servizio alla parola, vediamo che questo dinamismo è già in atto attorno a Gesù. La presenza di un gruppo di donne sembra assicurare il buon funzionamento del primo nucleo della Chiesa, ma non va né dimenticato, né tantomeno sottaciuto, il carattere profetico di rottura con quelle che erano gli usi e la sensibilità del tempo. Una profezia che sa inglobare le necessarie rotture e che interroga ancora e sempre il cammino della Chiesa nella storia. La presenza di queste donne accanto al Signore e ai suoi discepoli, fanno la qualità e rappresentano la grande novità della chiesa nascente, non per il particolare e necessario servizio assicurato da sempre e in ogni ambito dalle donne, ma per il ruolo che esse assumono e il riconoscimento che viene loro assicurato.

Il mistero dell’unità e della comunione che porta il frutto così profumato e gustoso di una dedizione piena di compassione e di tenerezza risiede nel fatto che il centro delle relazioni di questo gruppo, non solo diverso – pensiamo alla provenienza e ai temperamenti degli apostoli – ma anche misto, trova il suo centro nell’amore per il Signore Gesù, al cui contatto ciascuno e ciascuna sembra aver ritrovato l’integrità e la serenità con se stesso e con gli altri. La prima diaconia della Chiesa, in cui vivono persone di diversa origine e temperamento, è la testimonianza di una comunione non solo possibile, ma anche veramente posta a servizio di tutti. Se è vero che Gesù sceglie i Dodici e li costituisce per un ministero particolare all’interno e a favore della comunità, rimane pur vero che c’è qualcuno che sceglie Gesù e mette tutta la sua vita al servizio del Vangelo.

Questo piccolo quadretto precede immediatamente il racconto della parola di quelle che sono le avventure del seme offerto e affidato dal seminatore ai vari tipi di terreni. Le donne di cui fa menzione Luca sono tutte donne che hanno sperimentato una guarigione che le rende, in modo del tutto naturale, accompagnatrici e sostenitrici del ministero di guarigione di Gesù e degli apostoli. Il frutto della loro guarigione è una devozione che si fa dedizione come superamento radicale e duraturo dell’egoismo e come postura femminile all’alterità. Fabrice Hadjadj constata che: <Il diavolo non ha viscere. Non accoglie l’altro nel suo cuore come la realtà più cara e amata>. Ciò che nel giardino di Eden il serpente è riuscito a rovinare attorno a Gesù si ricostruisce fino a rifondarsi.

Mentre gli apostoli vengono scelti, queste donne non hanno bisogno di nessuna elezione e di nessuna investitura. La loro esperienza di Cristo che ne tocca la vita così profondamente da guarirle, dà loro tutta la libertà e l’audacia di farsi avanti senza mai mettersi in una posizione diversa da quella che nessuno può loro togliere: il servire! In questo senso corrispondono del tutto naturalmente a ciò che i discepoli stentano a capire e ad imparare. Parafrasando ciò che dice Paolo nella prima lettura <se Cristo non è risorto dai morti…>, si potrebbe dire così <se Cristo non ci guarisce, nessuna testimonianza è autorevole e nessuna diaconia è vivificante>. Proprio le donne non solo si fanno avanti, ma resteranno fedeli al loro posto anche quando gli apostoli lo diserteranno, poiché quella di queste donne è una vocazione che viene da dentro e non da fuori, e il loro mettersi a servizio non è un’idea, è un’evidenza esistenziale che richiama la Chiesa e la discepolanza di ogni tempo e di ogni luogo.

Profeta come?

XXIV settimana T.O.

Come invita il monaco Macario: <Accogliamo il nostro Dio e Signore, il vero medico, l’unico che, venendo da noi, è capace di guarire le nostre anime, lui che ha tanto sofferto per noi. Bussa senza stancarsi alla porta dei nostri cuori perché gli apriamo, così da entrare e riposare nelle nostre anime, perché laviamo i suoi piedi e li cospargiamo di olio profumato e lui faccia in noi la sua dimora>1. Come ci ricorda il Signore Gesù con quell’unica parola rivolta a questa donna che si sdraia ai suoi piedi riversando tutti i gesti dell’amore in un senso di gratitudine immensa, perché qualcuno finalmente le permette di donarsi in piena verità e in piena gratuità: <La tua fede ti ha salvata, va in pace!> (Lc 7, 50). Nel contesto di questo magnifico racconto, che solo Luca ci tramanda e che starebbe bene in un dittico accanto alla parabola del figliol prodigo, potremmo leggere senza tradire il testo: <Il tuo amore ti ha salvata, va’ in pace!>.

Del resto, il Signore lo ricorda severamente al fariseo che lo ha invitato alla sua mensa: <Invece colui al quale si perdona poco, ama poco> (Lc 7, 47). Per il Signore Gesù l’amore si rivela nella sua capacità assoluta e incondizionata non solo di perdonare, ma persino di lasciarsi perdonare. Ed è qui la differenza tra il modo di pensare dei farisei – di cui Paolo fu un fiero e sincero testimone – e la logica del <Vangelo> di cui si fa araldo intrepido. La differenza sta nel fatto di concepire la fedeltà a Dio a partire da una capacità eccessiva di amare e non identificandola con una rachitica volontà di sottomissione alle regole senza essere capaci di comprenderne il senso più profondo. Il fatto che il Maestro si lasci toccare, in modo così sconveniente, da una donna a tutti nota come <peccatrice> (7, 37), induce il fariseo, che pure ha generosamente e gioiosamente invitato Gesù nella sua casa, a dubitare del fatto che egli sia in verità <profeta> (7, 39).

In realtà, come già la folla ha testimoniato dopo la restituzione del figlio alla vedova di Nain, il Signore Gesù è veramente profeta non perché indovina le colpe degli altri e ne rivela i peccati, ma perché sente – in mezzo al putridume più ributtante – il <profumo> (7, 37) che è contenuto nel <vaso>, tanto prezioso quanto fragile, di ogni vita. Il Signore Gesù ci rivela un modo nuovo di essere profeti e ce ne dà la chiave di discernimento: <sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato> (7, 47). Il <Vangelo> che abbiamo ricevuto e che siamo chiamati a trasmettere con fedeltà si basa su un articolo basilare e fondante: <Cristo morì per i nostri peccati> (1Cor 15, 3). Potremmo rileggere questo testo, in cui è racchiusa la più antica professione di fede e il kerygma essenziale del nostro essere discepoli, dicendo che <Cristo ci amò per i nostri peccati>! Tutto questo senza chiudere gli occhi sulle nostre fragilità, ma rivelandosi capace di sentire il buon <profumo> di ciò che siamo nel più profondo di noi stessi, tanto da poter dire a nostra volta con Paolo e con questa donna senza nome che può portare il nostro stesso nome: <la sua grazia in me non è stata vana> (15, 10). Questo perché, nonostante tutto, ho continuato ad amare e a lasciarmi amare.


1. MACARIO D’EGITTO, Omelie spirituali, 30, 9.