Aspettare

IX settimana T.O.

L’apostolo Pietro sembra essere radicalmente fiducioso: <Noi infatti, secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia> (2Pt 3, 13). Il breve racconto che viene oggi evocato dal Vangelo ci mette di fronte ad un Gesù in cui abita un senso di <giustizia> che non sfugge nemmeno ai suoi nemici i quali <rimasero ammirati di lui> (Mc 12, 17). Eppure, sembra che non basi l’ammirazione a colmare quel fossato che si è creato nel cuore di quanti ormai sembrano aver smarrito quell’immagine di Dio che pure è impressa – per il dono della grazia attraverso i doni della natura – nel cuore di tutti. Potremmo intendere la risposta del Signore rivolta a ciascuno di noi e riguardante la nostra stessa vita: <Perché volete mettermi alla prova? Portatemi un denaro: voglio vederlo> (12, 15). Siamo richiamati a guardare noi stessi come fossimo una moneta per cercare di capire che cosa riusciamo a dire di noi stessi e, soprattutto, in relazione a chi progettiamo e spendiamo la nostra vita.

Un testo di un monaco medievale può aiutarci a ripensare la nostra realtà di creature chiamata a non perdere la memoria di se stesse: <Ecco che il vaso di porcellana sfugge dalla mano di colui che l’ha impastato; sfugge dalla mano che lo tiene e lo porta. Se gli succedesse di cadere dalla tua mano, sarebbe un disastro, perché si romperebbe in mille pezzi, si ridurrebbe a nulla. Egli lo sa, e per tua grazia non cade. Abbi pietà, Signore, abbi pietà: tu ci hai modellati, e noi siamo argilla (Ger 18,6; Gen 2,7). Fin qui restiamo fermi, fin qui la mano della tua forza ci porta; siamo sospesi alle tue tre dita, la fede, la speranza e la carità, con le quali sostieni la massa della terra, la solidità della tua santa Chiesa. Abbi compassione, sostienici; la tua mano non ci lasci cadere. Raffinaci al fuoco dello Spirito Santo il cuore e la mente (Sal 26,2); consolida ciò che in noi hai modellato, affinché non ci disgreghiamo e non ci riduciamo all’argilla che eravamo o al nulla>1.

La preghiera è forse la scuola in cui siamo chiamati ogni giorno a ripulire la moneta della nostra vita perché sia veramente capace di favorire lo scambio e l’incontro piuttosto che essere motivo di opposizione e di oppressione. Se sapremo sempre meglio <di chi> (Mc 12, 16) siamo e a chi vogliamo realmente assomigliare, allora la nostra vita potrà conoscere uno splendore inimmaginato eppure assolutamente riconoscibile. Il primo passo che ci viene richiesto è quello di fare verità: in realtà il solo fatto che i notabili abbiano una moneta romana dice chiaramente che si servono della moneta della nazione occupante e così ne accettano, in realtà, l’amministrazione e il dominio con tutte le angherie che ciò comporta soprattutto per i più poveri. Allora risuona ancora più forte l’esortazione dell’apostolo: <Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia> (2Pt 3, 14)!


1. GUGLIELMO DI ST. THIERRY, Orazioni meditative, 1, 1.


Santamente

IX settimana T.O.

Sembra ci siano due modi ben diversi di vivere e di relazionarsi. Il primo è quello di cui ci parla l’apostolo Pietro e che può diventare il programma di tutta una vita: <Per questo mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l’amore fraterno, all’amore fraterno la carità> (2Pt 1, 5-7). Il secondo è quello, ben diverso, con cui i notabili del popolo si relazionano – sarebbe meglio dire che non si relazionano – al Signore Gesù e dapprima <cercavano di catturarlo> e poi, vinti dalla <paura della folla>, <Lo lasciarono e se ne andarono> (Mc 12, 12). Ciò che rende inaccettabile e pericoloso il modo di pensare e di comportarsi da parte dei notabili del popolo è la loro fatica a comprendere di essere a servizio e non di essere padroni. Così, quasi a loro stessa insaputa, comportandosi da padroni si rivelano usurpatori che invece di aggiungere e di condividere i frutti di una vita giusta non fanno che sottrarre e impadronirsi ingiustamente della speranza che è di tutti ed è per tutti. 

Coloro che erano chiamati a riconoscere, ad accogliere e ad indicare la presenza del <figlio> (…) scelgono invece di farlo sparire dall’attenzione fino ad ordire la sua morte. Il motivo è la paura di perdere quel senso di privilegio e di immunità su cui si fonda ogni sentimento di casta che rischia di contaminare anche il nostro cuore ogni volta che non riusciamo ad amare il nostro posto e il nostro ruolo lasciandoci prendere da sentimenti e da pretese che non possono che farci dare il peggio di noi stessi. Ma Pietro ci ricorda che non siamo chiamati ad entrare in competizione bensì a vivere una relazione trasformante: <affinché per loro mezzo diventiate partecipi della natura divina> (2Pt 1, 4). Questo è un dono che comunque esige l’<impegno> (1, 5) di una vita che si orienti sempre più decisamente verso quella logica che fa del padrone un uomo di cuore: <piantò una vigna, la circondò con una siepe, scavò una buca per il torchio e costruì una torre> e come se non bastasse <La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano> (Mc 12, 1). Nell’atteggiamento di questo padrone vi è una grande fiducia che sembra quasi ingenua! Non sembra temere che i suoi servi possano ingannarlo e, al <momento opportuno, mandò un servo dai contadini a ritirare da loro la sua parte del raccolto> (12, 2). Inoltre, nonostante quello che viene fatto ai suoi servi non si capacità di tanta cattiveria tanto da pensare di rischiare di mandare <un figlio amato> (12, 6).

Attraverso il linguaggio e il ritmo proprio della parabola, il Signore Gesù aiuta i suoi uditori ad entrare nel dramma del rifiuto che segna la storia tra Dio e il suo popolo. Eppure sembra che non tutte le speranze siano perdute poiché <lo lasciarono e se ne andarono>. Ma dove mai se ne vanno i notabili del popolo? Dove mai ci nascondiamo noi stessi quando non riusciamo a sostenere in confronto esigente e spiazzante della parola? Spesso dimentichiamo che <La sua potenza divina ci ha donato tutto quello che è necessario per una vita vissuta santamente> (2Pt 1, 3).


Fermento

Corpus Domini

Nella Colletta di questa solennità viene chiaramente evidenziato il “nesso pasquale” di questa festa: <Signore Gesù Cristo, che nel mirabile sacramento dell’Eucaristia ci hai lasciato il memoriale della tua Pasqua>. La Chiesa vuole invitare i suoi figli a adorare, cioè a rendersi conto della grandezza del dono che viene fatto loro perché l’opera della redenzione – frutto della Pasqua di Cristo – sia sempre più benefica. L’Eucaristia è per la Chiesa la garanzia del legame al suo Signore. Infatti, a partire dalla Pentecoste essa non cessa di celebrare l’Eucaristia fino al giorno del suo ingresso nel banchetto del Regno. Vi è un profondo legame tra la contemplazione del Dio-Amore e il Cristo presente nel sacramento. L’Eucaristia è infatti il mezzo – sacramento – attraverso cui la vita di Dio viene riversata nella nostra stessa vita, tanto da fare della Chiesa il Corpo di Cristo per mezzo del Corpo mistico di Cristo. Come dice Efrem il Siro: <Il fuoco e lo Spirito sono nel nostro battesimo ma anche nel calice sono il fuoco e lo Spirito>. Quando la Chiesa ci invita a porci in relazione particolare al mistero dell’Eucaristia lo fa nella speranza che ciascun credente possa, in tal modo, prendere coscienza o rettificare la sua coscienza di fronte a questo dono che nutre e fortifica la vita di ogni battezzato. Ma quante volte si rischia di dimenticare ciò che Agostino dice così fortemente: <il mistero che voi siete è nelle vostre mani>? Proprio come quella misteriosa <brocca d’acqua> (Mc 14, 13) che indica la strada per la sala al <piano superiore> (14, 15). L’Eucaristia è il luogo in cui impariamo a vivere come Cristo donando la vita fino a portare l’acqua come fanno le donne e come farà Gesù – nel vangelo di Giovanni – amando i suoi <fino alla fine> (Gv 13, 1). Attraverso l’Eucaristia, Dio stesso – in Cristo Gesù – si mette nelle nostre mani, entra nel nostro stesso corpo per assimilarci al suo e farci una cosa sola con tutti i credenti. Infatti, comunicare con Cristo risorto significa far entrare dentro di noi un seme di vita incorruttibile che desidera trovare nella nostra vita il terreno buono e fertile in cui portare frutto abbondante. Il seme di risurrezione posto dentro il nostro stesso corpo vuole essere in noi fermento di <immortalità> come scriveva Ignazio di Antiochia e questo <in virtù del proprio sangue> (Eb 9, 12). Questo fermento avrà fatto la sua opera solo, quando la nostra vita sarà una vita da risorti, ossia segnata dalla medesima logica del Cristo: l’autodonazione, il dono totale di sé, il lasciarsi prendere al pari di un nutrimento e di una bevanda. Mangiare e guardare per essere assorbiti e assorbire una presenza del Mistero che ci trasformi, assieme a tutti i credenti, nello stesso Corpo di Cristo in cammino verso l’unità. Un Dio che accetta di mettersi nelle nostre mani non può che aspettarsi da noi che facciamo altrettanto: non solo che ci rimettiamo nelle sue mani, ma che ci abbandoniamo fiduciosi alle mani degli altri.

Ferment

Corpus Domini 

Dans la Collecte de cette solennité, l’on met clairement en évidence le ” la connexion pascale ” de cette fête: ” Seigneur Jésus qui nous a laissé dans l’admirable sacrement de l’Eucharistie le mémorial de ta Pâques “. L’Eglise veut inviter ses fils à adorer, c’est-à-dire à se rendre compte de la grandeur du don qui leur est fait afin que l’oeuvre de la rédemption – fruit de la Pâques du Christ – soit toujours plus bénéfique. L’Eucharistie est pour l’Eglise la garantie du lien à son Seigneur. En effet, à partir de la Pentecôte, elle ne cesse de célébrer l’Eucharistie jusqu’au jour de son entrée au banquet du Règne. Il y a un lien profond entre la contemplation du Dieu- Amour et le Christ présent dans le sacrement. L’Eucharistie est en fait le moyen – sacrement – par lequel la vie de Dieu est reversée dans notre propre vie, pour faire de l’Eglise le Corps du Christ par l’intercession du Corps mystique du Christ. Comme le dit Ephrem le Syrien : ” Le feu et l’Esprit sont dans notre baptême mais dans le calice aussi il y a le feu et l’Esprit “. Quand l’Eglise nous invite à entrer en relation particulière dans le mystère de l’Eucharistie, elle le fait dans l’espérance que chaque croyant puisse ainsi prendre conscience ou rectifier sa conscience face à ce don qui nourrit et fortifie la vie de chaque baptisé. Mais combien de fois nous risquons d’oublier ce que Augustin dit d’une manière forte : ” Le mystère que vous êtes est entre vos mains ” ? Tout comme dans la mystérieuse ” cruche d’eau ” ( Mc 14, 13 ) qui indique le chemin pour la salle de  ” l’étage supérieur ” ( 14, 15 ). L’Eucharistie est le lieu où nous apprenons à vivre comme le Christ en donnant la vie jusqu’à porter l’eau comme le font les femmes et comme le fera Jésus – dans l’évangile de Jean – en aimant les siens ” jusqu’à la fin ” ( Jn 13, 1 ). A travers l’Eucharistie, Dieu lui-même – en Jésus-Christ – se met entre nos mains, vient dans notre propre corps pour nous assimiler au sien et devenir un avec tous les croyants. En effet, communiquer avec le Christ ressuscité signifie faire entrer en nous une graine de vie incorruptible qui désire trouver dans notre vie le bon terrain fertile pour porter des fruits abondants. La graine de résurrection mise à l’intérieur de notre corps veut être en nous un ferment ” d’immortalité ” comme l’écrit Ignace d’Antioche, et ceci, ” en vertu du propre sang ” ( He 9, 12 ). Ce ferment aura fait son oeuvre seulement lorsque notre vie sera une vie de ressuscité, également marquée par la même logique du Christ : l’auto-don, le don total de soi, le fait de se laisser prendre comme une nourriture et une boisson. Manger et chercher à être absorbé et absorber une présence du Mystère qui nous transforme, ensemble à tous les croyants, dans le même Corps du Christ en chemin vers l’unité. Un Dieu qui accepte de se mettre entre nos mains ne peut qu’attendre de nous que nous fassions de même : non seulement que nous nous remettions entre ses mains, mais que nous nous abandonnions, confiants, entre les mains des autres.

Tranello

VIII settimana T.O.

Il Signore Gesù non ha paura delle nostre domande! Il Signore Gesù non ha nessun timore a porci delle domande attraverso cui cerca di portarci un poco oltre le questioni che rischiano di occupare il nostro cuore senza, in realtà, essere in grado di darci quella pace che nasce non dalla conoscenza teorica ma dall’esperienza di una relazione sempre più vera e autentica. La provocazione dei notabili suona così: <Con quale autorità fai queste cose? O chi ti ha dato l’autorità di farle?> (Mc 11, 27-28). Già il modo di porre la domanda rivela quale sia il centro dell’attenzione e delle preoccupazioni dei capi dei sacerdoti di ogni tempo e di ogni luogo: il problema dell’autorità che viene posto nella segreta speranza di dare alla propria autorità un fondamento inviolabile e inattaccabile. La risposta del Signore Gesù è un interrogativo ancora più grande e sicuramente meno teorico e più esistenziale: <Il battesimo di Giovanni veniva dal cielo o dagli uomini? Rispondetemi> (11, 30).

Chiaramente il Signore Gesù si rifà alle tecniche rabbiniche per non cadere nel tranello che gli viene teso, ma non si accontenta di questo perché costringe i capi dei sacerdoti ad uscire allo scoperto con se stessi dovendo accettare di non essere assolutamente in grado di uscire allo scoperto con gli altri: <temevano la folla> (11, 32)! Senza colpo ferire e senza cadere nella trappola che gli è stata tesa, Gesù costringe i notabili del popolo a prendere coscienza del fatto che, in realtà, ciò che più li interessa è non di sapere da dove viene l’autorità del rabbi di Nazaret, m di conservare il più possibile la propria autorità che non si piega nemmeno alla parola del <profeta> che, invece, è unanimemente riconosciuto dal popolo. La conclusione della diatriba è il silenzio di Gesù su quelle che sono questioni di scuola attraverso cui si cerca di far prevalere il proprio interesse facendo finta di avere a cuore la verità.

Questo “silenzio dogmatico” del Signore è un insegnamento preciso e da non dimenticare mai per non cadere nella trappola che tiene prigionieri i capi dei sacerdoti tanto da farli ricorrere – in preda alla paura – all’arma del tranello. In questo caso vale la complessa esortazione dell’apostolo: <Siate misericordiosi verso quelli che sono indecisi e salvateli strappandoli dal fuoco; di altri infine abbiate compassione con timore, stando lontani perfino dai vestiti, contaminati dal loro corpo> (Gd 22-23). Esortazione dura dall’apparente sapore così poco evangelico e che pure rappresenta una vera via di fuga da tutto ciò che rischia di incastrarci e di incatenarci in perniciose questioni di principio in cui si annida il tarlo dell’amore di noi stessi che ci induce a conservare e a rafforzare i nostri piccoli e talora ridicoli poteri. Del resto se c’è un’autorità che viene da Dio è quella che ci porta sempre più generosamente verso una pienezza di dono: <Costruite voi stessi sopra la vostra santissima fede, pregate nello Spirito Santo, conservatevi nell’amore di Dio, attendendo la misericordia del Signore nostro Gesù Cristo per la vita eterna> (20-21).