Nudo

XIII settimana T.O.

Due detti del Signore formano il Vangelo di oggi che interpella ancora una volta la nostra vita di discepoli. Due risposte che il Cristo dà a due interlocutori senza nome che sembrano quasi impedire a Gesù di <passare all’altra riva> (Mt 8, 18). È come quando qualcuno chiede qualcosa mentre si sta partendo o si sta uscendo di casa… è comunque un’interruzione che richiede non solo un surplus di attenzione, ma pure un di più di attenzione. Il Signore Gesù, dopo aver compiuto dei segni di accoglienza e di guarigione, riprende la sua strada senza mai accettare di essere imprigionato dal suo stesso crescente successo nella considerazione della gente. Il Cristo va sempre oltre e vive ordinariamente in un dinamismo pasquale che esige una disponibilità assoluta a sapersi lasciare interpellare dai bisogni fino ad assumere il dolore in modo così profondo da saperlo lenire, ma senza mai lasciarsi bloccare né tantomeno possedere o, peggio ancora, manipolare fosse anche per motivi di compassione.

Questo tale che interroga il Signore sembra veramente ben intenzionato. Le sue parole sono sincere e decise: <Maestro, ti seguirò dovunque tu vada> (8, 19). La risposta di Gesù non è un rifiuto di accoglienza nel numero dei discepoli, ma è una chiarificazione netta del fatto – da tenere sempre presente – che mettersi alla sua sequela è un rischio e non un investimento: <il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo> (8, 20). Davanti a questo dialogo sembra proprio che uno dei discepoli trovi il coraggio di avanzare la sa richiesta, tra l’altro comprensibilissima e umanissima: <permettimi di andare prima a seppellire mio padre> (8, 21). La risposta di Gesù è un invito a restare nell’attimo presente in modo assoluto: <Seguimi…>! Per comprendere la forza e la portata di questi detti del Signore siamo aiutati dalle parole del profeta che dice: <Allora nemmeno l’uomo agile potrà più fuggire né l’uomo forte usare la sua forza, il prode non salverà la sua vita né l’arciere resisterà, non si salverà il corridore né il cavaliere salverà la sua vita. Il più coraggioso fra i prodi fuggirà nudo in quel giorno!> (Am 2, 14-15).

Questo testo sarà ripreso dall’evangelista Marco proprio nel contesto della Passione per indicare come l’unico modo per entrare nel mistero di Cristo è quello di lasciar cadere ogni maschera e ogni protezione. Il cammino richiesto ad ogni discepolo non è quello di un funzionario che si sopravveste dei suoi titoli e delle sue insegne, ma è un cammino di reale e continua spogliazione prima di tutto da ogni progetto personale. Solo così ciascuno può assumere tutta la propria vulnerabilità discepolare che ci permette di essere, infine, rivestiti dalla grazia del perdono e della compassione. Per essere discepoli non basta “volere”, bisogna prima di tutto e soprattutto assumere se stessi per andare incontro agli altri in modo disarmato e realmente aperto ad un incontro che non può e non deve mai lasciarci uguali a noi stessi.

Toccare

XIII Domenica T.O.

Una delle cose più belle – ma anche tra le più fastidiose e talora persino pericolose – che fanno i bambini è proprio quella di toccare tutto e ogni cosa. Questo è un modo per entrare in contatto con il mondo e poterlo così conoscere per avere sempre la possibilità di riconoscerlo al fine di riconoscere se stessi come sua parte: <Dio, infatti, ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte> (Sap 1, 14). Sarà forse proprio per questa certezza radicale che i bambini si portano tutto alla bocca quasi per gustare la dose di <salvezza> contenuta in ciascuna delle cose create? Il Vangelo di quest’oggi ci porta al cuore di questa umanissima esperienza che viene vissuta così divinamente dal Signore Gesù e da coloro che ne incrociano il cammino. La donna <che aveva perdite di sangue> (Mc 5, 25) non ha altra speranza se non quella di dire a se stessa: <Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata> (5, 28). Lo stesso Signore Gesù creando un’atmosfera di grande intimità con la fanciulla appena morta <prese la mano della bambina e le disse: “Talità kum”, che significa: “Fanciulla, io ti dico: alzati!> (5, 41). Non possiamo che essere toccati profondamente dalla forza di intimità e di creatività del gesto di Cristo Signore che prende per mano questa ragazza in procinto di diventare donna: <aveva infatti dodici anni> (5, 42) nonostante il padre la chiamasse ancora <la mia figlioletta> (5, 23). Davanti a questo gesto così dolce e forte del Signore Gesù nei confronti di questa giovinetta non ci resta che essere anche noi <presi da grande stupore> (5, 42). Così possiamo fare nostre le parole dell’apostolo Paolo al fine di poter esprimere la nostra profonda e commossa meraviglia: <Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà> (2Cor 8, 9). È come se il Verbo fatto carne facesse un’esperienza sensibile di questo impoverimento, che è la logica della sua incarnazione in cui si manifesta pienamente l’amore di Dio per noi, nel momento in cui la donna <venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello> (Mc 5, 27). L’evangelista ce lo fa percepire con una nota di rara intensità: <Ma subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: “Chi ha toccato le mie vesti?”> (5, 30). I discepoli faticano a capire che non si può semplicemente urtare casualmente il Signore senza che questo produca un effetto. Già nelle Scritture è attestato che non si può urtare l’Arca del Signore e rimanere illesi e non la si può neppure guardare (1Sam 6, 19) e questo vale ancora di più per il Signore Gesù in cui <abita corporalmente tutta la pienezza della divinità> (Col 2, 9). 

Toucher

XIII Dimanche du T.O. 

Une des plus belles choses – mais aussi des plus difficiles et même des plus dangereuses – que font les enfants est vraiment celle de toucher à tout et à toute chose. Ceci est une façon d’entrer en contact avec le monde et pouvoir ainsi le connaître pour avoir toujours la possibilité de le reconnaître  et enfin de se reconnaître soi-même comme faisant partie de lui : ” Dieu, en effet, a créé toutes les choses pour qu’elles existent ; les créatures du monde sont porteuses du salut, en elles il n’y a aucun poison de mort ” ( Sag 1, 14 ). C’est sans doute pour cette certitude radicale que les enfants portent tout à la bouche comme pour goûter la dose de ” salut ” contenue en chaque chose créée ? L’Evangile de ce jour nous porte au coeur de cette expérience très humaine vécue si divinement par le Seigneur Jésus et par ceux qui croisent son chemin. La femme qui ” avait des pertes de sang ” ( Mc 5, 25 ) n’a pas d’autre espérance que celle de se dire : ” Si je réussis seulement à toucher son vêtement, je serai sauvée ” ( 5, 28 ). Le même Seigneur, créant une atmosphère de grande intimité avec la jeune fille à peine morte ” Il prit la main de la fillette et lui dit : ” Talità kum “, qui signifie ” jeune fille, je te le dis : lève-toi ! ” ( 5, 41 ).  Nous ne pouvons qu’être touchés profondément par la force d’intimité et de créativité du geste du Christ Seigneur qui prend par la main cette jeune fille sur le point de devenir femme ” en effet, elle avait douze ans ” ( 5, 42 ), pourtant son père l’appelait encore ” ma fillette ” ( 5, 23 ). Par ce geste si doux et fort du Seigneur Jésus face à cette jeunette, il ne nous reste qu’à être nous aussi ” pris d’un grand étonnement ” ( 5, 42 ). Nous pouvons ainsi faire nôtres les paroles de l’apôtre Paul afin de pouvoir exprimer notre profond et émouvant émerveillement : ” Vous connaissez en effet la grâce de notre Seigneur Jésus Christ : de riche qu’il était, il s’est fait pauvre pour vous, afin que vous deveniez riches par l’intermédiaire de sa pauvreté ” ( 2 Cor 8, 9 ). C’est comme si le Verbe fait chair faisait une expérience sensible de cet appauvrissement, qui est la logique de son incarnation où se manifeste pleinement l’amour de Dieu pour nous, au moment où la femme ” se faufila à travers la foule et toucha, par derrière, le manteau de Jésus ” ( Mc 5, 27 ). Les disciples ont beaucoup de difficulté à comprendre que l’on ne peut pas simplement toucher avec désinvolture le Seigneur sans que cela ne provoque un effet. Déjà dans les Ecritures, il est attesté que l’on ne peut toucher l’Arche du Seigneur sans demeurer sain et sauf et l’on ne peut pas non plus la regarder ( 1 Sam 6, 19 )  et, ceci est encore davantage valable pour le Seigneur Jésus en qui ” habite corporellement toute la plénitude de la divinité ” (Col 2, 9 ). 

Realtà

Ss. Pietro e Paolo

La domanda rivolta dal Signore Gesù ai suoi discepoli: <La gente chi dice che io sia> è rivolta ogni giorno anche a noi. In realtà le domande del Maestro sono sempre delle provocazioni per i discepoli per andare ben oltre le risposte astratte e teoriche e divenire capaci di toccare la realtà della vita. Non c’è molto da dire, ma c’è tutto da vivere fino ad essere disposti a morire. Pietro vive la liberazione dal carcere come sospeso tra <visione> e <realtà>, ma il messaggio che tocca la vita di ogni discepolo è che la sequela del Signore è capace di trasformare in realtà le nostre visioni più grandi, più belle, più vere. Tuttavia, ciò avviene non secondo i nostri metodi e i nostri pronostici, bensì entrando nella logica della sequela e della croce. Paolo lo ricorda a se stesso e ai suoi amici: la <battaglia> da vincere è prima di tutto contro se stessi per aprirsi ad un dono che fa della nostra vita una confessione di fede che si fa dichiarazione di amore: <Tu sei il Cristo> cui risponde <Tu sei Pietro>.

Nell’esperienza di Pietro e Paolo la Chiesa contempla il segreto del suo fondamento di comunione che sa gestire la fatica del conflitto e assume le sfide di ogni crescita che esige la disponibilità alla trasformazione, al cambiamento e all’incerto. Non bisogna mai confondere la fatica della comunione con l’illusione del concordismo.

Popolo nuovo per il nuovo esodo,

siete passati nella notte del rinnegamento e del rifiuto

per rinascere nuove creature dal perdono;

servi di Cristo e della Chiesa avete confortato i suoi con l’ardore e la parola;

l’assemblea dei redenti segue dietro a voi l’Agnello e acclama:

L’amore è vincitore e ci raduna in voi nell’unità!

Le lacrime sono versate a fondamento della roccia,

gli occhi si riaprono a illuminare i popoli.

La rete è gettata per raccogliere i popoli,

il rotolo è spiegato per nutrire la libertà dei figli.

Le braccia sono distese per confermare la sequela,

il capo è offerto per sciogliere in incenso la vela.

Pietro, nel tuo cuore trovan spazio le chiavi del perdono;

Paolo, nel tuo abisso si dispiega la spada della Parola:

insieme custodi della porta dell’ovile.

Liberati

XII settimana T.O.

Uno dei passaggi più rilevanti della Dei Verbum, commentata in lungo e in largo dalla teologia post-conciliari è quello in cui si rileva che la pienezza della Rivelazione è avvenuta in Cristo Gesù <verbis gestisque>, con sue parole indissolubilmente unite ai suoi gesti. Matteo non fa che confermare e fondare tutto questo. Dopo che Gesù ha pronunciato sul monte le sue <dieci parole> nelle beatitudini poi approfondite e spiegate nei versetti seguenti della prima grande sezione del suo Vangelo, compie “dieci gesti” che di queste parole, più precisamente e profondamente, di questa logica sono l’esplicitazione. Quest’uomo che si avvicina a Gesù e che è un <lebbroso> (Mt 8, 1) apre il ciclo dei gesti di guarigione di Gesù con una domanda che tutti li ricapitola: <Signore, se vuoi, puoi purificarmi> (8, 2). Il Signore, dice Matteo, <tese la mano e lo toccò dicendo…> (8, 3) la prima e la fondamentale reazione del Signore Gesù è di profondo coinvolgimento.

Non solo si lascia interrogare dal bisogno di quest’uomo, ritualmente impuro ed escluso, ma più profondamente si lascia coinvolgere dal suo dolore e dalla sua sofferenza dichiarando – col suo gesto prima che con la sua parola – la sua disponibilità a lasciarsi “contaminare” pur di non rimanere estraneo al suo cammino. Il fatto poi che ad aprire questa sezione sia un <lebbroso> che sarà subito seguito da un <centurione> (8, 5) come pure il rimando chiara <al sacerdote> (8, 4) e alla funzione del tempio, sottolinea come il primo ambito in cui c’è bisogno di purificazione e di salvezza è proprio Israele, potremmo dire – da parte nostra – è prima di tutto la Chiesa chiamata a lasciarsi profondamente guarire prima di farsi sacramento di guarigione e di salvezza per gli altri. Il <lebbroso> che vediamo nel Vangelo è un uomo malato, ma profondamente consapevole: si distacca dal resto della <molta folla> (8, 1) con fare chiaro e avveduto come pure sembra ben conscio e in modo non passivo, come avviene con l’indemoniato di Cafarnao nel vangelo di Marco, della potenza di salvezza di cui Gesù è portatore: <Signore se vuoi, puoi…> (8, 2). 

<E colui che mi aveva illuminato tocca con le sue mani i miei legami e le mie ferite; là dove la sua mano tocca e il suo dito si avvicina, subito cadono i miei legami, scompaiono le ferite, e ogni 
sporcizia. L’impurità della mia carne scompaia… sicché egli la rende simile alla sua mano divina. Strana meraviglia: la mia carne, la mia anima e  il mio corpo partecipano della gloria divina>1.

La prima lettura in cui ci viene crudamente rapportato il resoconto di uno dei momenti più tristi della storia di Israele quando non solo la regalità davidica viene rovesciata da Nabucodonosor che, con la sua sentenza, in realtà esprime la colpa del popolo sordo ai richiami del profeta Geremia, ne rivela la colpa profonda: <<fece cavare gli occhi a Sedecia> (2Re 25, 7) rivelando così il peccato di accecamento spirituale che aveva portato persino all’incendio e alla profanazione del <tempio del Signore> (25, 9).


1. Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 30

Nel tuo nome!

XII settimana T.O.

Il Discorso della Montagna che abbiamo riletto durante la Liturgia di questi ultimi giorni arriva alla sua conclusione e sembra che l’evangelista Matteo ci tenga a sottolineare la tappa di ascolto da parte dei suoi lettori che desiderano porsi alla scuola dell’unico Maestro: <Quando Gesù ebbe terminato questi discorsi, le folle erano stupite del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come i loro scribi> (Mt 7, 28). Prima di congedarci da questa fase fondamentalmente di ascolto di un insegnamento, siamo obbligati a fare una sorta di verifica per poter accedere – come in un vero cammino iniziatico – al grado successivo. Questo passo viene assicurato dal racconto di una parabola che sembra preludere a quelle che il Signore Gesù racconterà più ampiamente ai suoi ascoltatori più avanti: <In quel giorno molti mi diranno: “Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demòni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?”> (7, 22).

Stranamente invece di essere il Maestro ad interrogare i discepoli, sono questi ultimi a porre tre domande che hanno tutta l’aria di un’autogiustificazione. Siamo così posti di fronte ad un serio processo d’iniziazione per cui ciò che sembra all’apparenza non corrisponde all’autenticità verso cui bisogna decisamente incamminarsi. Non basta aver fatto delle grandi cose per essere discepoli di Cristo e realmente formati al suo Vangelo. Perché questo sia autentico è necessario che l’annuncio ricevuto dalla bocca del Signore, che fa tutt’uno con l’aver vissuto accanto a lui in una grande vicinanza che permette una conformazione profonda al suo stile di vita, sia diventato la <roccia> (7, 24) di fondazione della nostra stessa vita. Nella logica del Vangelo non esiste nessuna fondazione interiore che non sia una rifondazione continua. In questo consiste la differenza tra l’insegnamento di Gesù e quello degli scribi, ma pure la differenza tra i discepoli di Gesù e quelli degli scribi. Questa differenza consiste nel non accontentarsi di avere raggiunto una visibilità ed efficacia spirituale, ma nell’essere continuamente impegnati a scavare per raggiungere dentro di sé quel punto di contatto tra la nostra argilla e la roccia che è Cristo.

Secondo l’esempio dell’<uomo saggio> di cui parla il Signore Gesù nella sua parabola, la Liturgia sembra accostare quella di un re non solo iniquo ma pure insipiente che, con la sua superficialità, lascia che siano asportati <tutti i tesori del tempio del Signore> (2Re 24, 13). Ciò da cui dobbiamo cercare non solo di difenderci, ma pure di prevenirci è il rischio di essere condotti in <esilio> (24, 16). Dobbiamo stare attenti a non essere condotti lontano dalla Gerusalemme del nostro cuore per essere deportati interiormente nella fornace di <Babilonia> che è segno di quel movimento ascendente frutto della superficialità e della superbia e privo di fondamento. In tal caso non c’è speranza: <essa cadde e la sua rovina fu grande> (Mt 7, 29).

Libro

XII settimana T.O.

Il Signore Gesù ci ha già vivamente esortato a non giudicare nessuno se non nella disponibilità a lasciarci giudicare con lo stesso metro con cui pesiamo e soppesiamo la vita degli altri. Oggi il discorso continua e, apparentemente, sembra contraddirsi: <Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi in veste di pecora, ma dentro sono lupi rapaci> (Mt 7, 15). Questa parola del Signore non fa che illuminare ulteriormente la consegna di un atteggiamento di non giudizio che, in realtà, sembra essere più una guerra contro ogni pregiudizio che un modo per spalancare la porta ad un ingenuo buonismo che chiude gli occhi sui necessari cammini di conversione. Mentre il giudizio cui siamo abituati e sembra fluire spontaneamente dal nostro cuore, rischia di basarsi su paure e immaginazioni sulla vita e le intenzioni profonde degli altri, il discernimento cui ci invita il Signore è un vero e proprio atteggiamento di ricerca della verità che non può che essere onesta e non pregiudiziale: <Dai loro frutti li riconoscerete> e ancora <Dai loro frutti dunque li riconoscerete> (7, 16. 20).

Mentre il pregiudizio ci fa vivere nel passato e ci chiude alle sorprese e ai cenni dei processi vitali che sono in atto dentro di noi e nelle persone che incontriamo sul nostro cammino, il discernimento è sempre un “lavoro in corso” che esige sensibilità, attenzione, rigore e una sorta di curiosità nei confronti dei cammini della vita. Nella prima lettura ritorna per ben sette volte la menzione di un <libro> trovato nel tempio dal sommo sacerdote Chelkìa che viene portato dallo scriba Safan al re perché ne ascolti la lettura. Si tratta del libro del Deuteronomio che può essere considerato una vera rilettura della Torah alla luce della storia il cui contenuto riporta all’essenza del rapporto con Dio. Questo rapporto si basa su un’alleanza che impegna le profondità di ciascuno e non semplicemente la ripetitività delle pratiche religiose: <Il re, in piedi presso la colonna, concluse l’alleanza davanti al Signore, per seguire il Signore e osservare i suoi comandi, le istruzioni e le leggi con tutto il cuore e con tutta l’anima, per attuare le parole dell’alleanza scritte in quel libro> (2Re 23, 3).

In realtà il libro siamo noi con la nostra vita fatta di scelte da cui scaturiscono, come frutti da un albero, i nostri pensieri e le nostre azioni. Per questo la fedeltà all’alleanza con Dio non può e non deve mai esteriorizzarsi nel senso dell’apparenza e dell’ipocrisia, ma rivelarsi nel senso della fecondità interiore che, in quanto autentica, non può non manifestarsi all’esterno senza mai identificarsi o, peggio ancora, mascherarsi con le apparenze. Le parole oranti del salmo ci danno la chiave per rimanere e progredire in questo processo e dinamismo: <Dammi intelligenza, perché io custodisca la tua legge e la osservi con tutto il cuore> (Sal 118, 34). L’intelligenza del cuore è ciò che ci può rendere capaci di discernimento senza essere prigionieri del pregiudizio. Il primo passo potrebbe essere quello di fare un serio esame di coscienza chiedendo perdono a Dio, a noi stessi e agli altri delle nostre colpe contro l’intelligenza del cuore.

Insultare

XII settimana T.O.

Ezechia sale al tempio con portando tra le mani la lettera che il re d’Assiria, dall’alto della sua prepotenza e tracotanza, gli ha inviato per umiliarlo toccandolo proprio nella sua via di fede in Dio: <Non ti illuda il tuo Dio in cui confidi> (2Re 19, 10). In questo incipit si riassume e si rispecchia ogni tentazione che cerca di renderci ancora più fragili e vulnerabili sgretolando la roccia sicura della nostra relazione con il Signore Dio su cui si fonda la nostra speranza. Farci pensare che il nostro sia il Dio delle facili illusioni non è prima di tutto un modo per screditare l’Altissimo, ma è il modo più sicuro per farci vacillare facendoci sentire creature abbandonate a se stesse e in balìa della legge del più forte. Ezechia diventa per noi un vero maestro di discernimento e un modello di reazione a tutto ciò che, in molti modi, cerca di sgretolare in noi la fede in Dio e la fiducia nella vita. Invece di convocare un consiglio di guerra, il re, per prima cosa, <salì al tempio del Signore> (19, 14).

Un gesto apparentemente banale e che non è solamente cultuale. Salire al tempio significa fare un passo fuori e oltre se stessi confessando così di non ritenere né di essere il centro della propria vita, né tantomeno di essere garanti di se stessi. Ezechia che pure è il re di Israele colto nel pieno e coraggioso esercizio della sua funzione è capace di creare uno spazio in cui al centro viene posto il Signore Dio. La reazione di Ezechia alla minaccia della superpotenza assira è quella di pregare prima di discutere e di pianificare le strategie di una controffensiva. La preghiera ci aiuta a ristabilire e radicalizzare le giuste proporzioni tra ciò che accade e il senso di ciò che stiamo vivendo. Inoltre la preghiera è capace di ricreare quella comunione non di dipendenza ma di alleanza con Dio a partire dalla quale possiamo sentire che ciò che ci minaccia lo minaccia e viceversa: <Ascolta tutte le parole che Sennacherib ha mandato a dire per insultare il Dio vivente> (19, 16).

Nel Vangelo, il Signore Gesù usa un’altra immagine non meno efficace per aiutarci a non perdere la misura del reale e darci sapienza di non cedere a nessuna minaccia che incrini la dignità e la fiducia: <Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi> (Mt 7, 6). Con questa parabola il Signore Gesù conferma che ogni insulto all’uomo è un insulto a Dio e ogni insulto a Dio non fa che insultare noi stessi toccando l’essenza della nostra stessa vita. È necessaria una continua vigilanza per non cadere nella trappola di una ingenuità perniciosa: nella vita è sempre necessaria la fatica del discernimento e non ci si può lasciare andare a una superficiale “buonismo” che, in realtà, è un comodo modo per abdicare alla propria responsabilità. Allora la parola del Signore diventa ancora più chiara: <Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano> (7, 13). Si tratta della laboriosità richiesta al discepolo nell’essere sempre disposto a lavorare su se stesso e a interpretare in modo adeguato – normalmente faticoso – tutto ciò che attraversa la sua vita senza mai lasciarsi insultare nella propria capacità di discernere e di scegliere.

Nome

Natività di san Giovanni Battista

La nascita di Giovanni crea scompiglio sin dal primo momento del suo venire alla luce e ciò che avviene nella casa di Zaccaria, illuminata dalla gioia non più attesa della presenza di un bambino, è profezia di ciò che il Battista rappresenterà per il cammino della Chiesa. I parenti e i vicini sono meravigliati e un po’ contrariati: <Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome> (Lc 1, 61). Come spiega Jean Danielou: <Giovanni non porterà il patronimico che esprimerebbe semplicemente la sua appartenenza ad una famiglia. Dio gli assegna un nome personale che è l’espressione della sua vocazione unica>1. La rottura con il nome di suo padre Zaccaria rappresenta anche la rottura con la tradizione sacerdotale a favore di un riemergere del ministero profetico. Figlio di un levita, Giovanni avrebbe dovuto e potuto servire nel Tempio godendo di tutti i benefici del levirato sacerdotale e, invece, sin dal momento della sua nascita l’evangelista Luca ci ricorda che <Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele> (Lc 1, 80).

Se l’annunciazione della sua nascita, come leggiamo nella Messa della Vigilia, avviene all’interno del Tempio e nel pieno delle funzioni sacerdotali di Zaccaria, la sua nascita e la sua circoncisione, che prevede l’imposizione del nome, rompono con la tradizione levitica e già si fanno segno di quel ministero di <amico dello sposo> che farà del Battista l’anello di congiunzione tra tempi e modi diversi di sentire la presenza di Dio. In mezzo al popolo e a favore di tutta l’umanità, Giovanni sarà capace di spianare la strada alla pienezza di profezia che sarà la manifestazione in Gesù di Nazaret di un modo completamente nuovo di immaginare la relazione con Dio. Paolo lo ricorda nella sinagoga di Antiochia:<Diceva Giovanni sul finire della sua missione: “Io non sono quello che voi pensate! Ma ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di slacciare i sandali”> (At 13, 25).

Si compie per Giovanni la profezia di Isaia: <Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome> (Is 49, 1). Questo vale per Giovanni, ma vale per ciascuno di noi: la nostra identità e la nostra vocazione sono una cosa sola e si illuminano a vicenda. Il lungo tempo di deserto vissuto da Giovanni cui segue un tempo imprecisato di prigionia nelle segrete di Erode gli hanno permesso di maturare nella fede fino ad aprirsi – non certo senza fatica – non solo a preparare la strada all’avvento del Messia, ma pure ad essere in grado di superare lo <scandalo> (Lc 7, 23) che Gesù ha rappresentato per la sua sensibilità. Dall’inizio alla fine della sua vita Giovanni Battista accetta di essere riconosciuto come il <profeta> (7, 26) eppure superato in quella logica di misericordia e di assoluta grazia, che già presente nel suo nome, sarà donata in modo pieno dalle parole e dai gesti del Signore Gesù attraverso cui riceviamo <grazia su grazia> (Gv 1, 16).


  1.  J. DANIELOU, Jean Baptiste témoin de l’Agneau de Dieu, Seuil, Paris 1964, p. 163. 

Fede

XII Domenica T.O.

Ai discepoli che forse pensavano di avere con sé sulla barca una sorta di talismano nella persona del Maestro che li avrebbe tenuti al sicuro da ogni pericolo, il Signore chiede di fare un passo in più. Come dice l’apostolo: <L’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti>. Paolo aggiunge e chiarisce in modo inequivocabile: <perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro> (2Cor 5, 14). Sembra proprio che al Signore non <importa che siamo perduti> (Mc 4, 38) poiché a Lui importa che viviamo e diventiamo <una nuova creatura> (2Cor 5, 17). Certo egli placa la tempesta, ma la parola che rivolge al vento e al mare la rivolge, in realtà, al nostro cuore in subbuglio e dominato dall’angoscia ogni volta che ci rendiamo conto di un pericolo per la nostra vita e per tutte quelle <cose vecchie> (5, 17) che ne sono ormai la trama e a cui siamo abituati e, spesso, così affezionati. Certo la tempesta infuria sul mare, ma a nessuno viene in mente di alleggerire la barca gettando in mare un po’ di zavorra. Noi tutti siamo in questo “ebrei”! Questo popolo che, a differenza dei suoi vicini, è così legato alla terra e così timoroso del mare come abbiamo cantato nel salmo: <Salivano fino al cielo, scendevano negli abissi, si sentivano venir meno nel pericolo> (Sal 106, 26). Eppure, proprio il salterio ci dice <sul mare passava la tua via, i tuoi sentieri sulle grandi acque, e le tue orme rimasero invisibili> (Sal 76, 20).

Il Signore ci invita a camminare sulle acque, a liberarsi dalla zavorra di quella paura di sopravvivere ad ogni costo che ci appesantisce così tanto da farci sprofondare. Come Giona anche Gesù dorme, mentre tutti si agitano. Come spiega Agostino in uno dei suoi Sermoni: <Il Signore Gesù era certamente padrone del sonno non meno che della morte e, quando si trovava nella barca sul lago, l’Onnipotente non ha certo ceduto al sonno senza volerlo. Se pensate una cosa del genere, vuol dire che il Cristo dorme dentro di voi. Se, al contrario, il Cristo è sveglio dentro di voi, anche la vostra fede è sveglia>. In realtà forse siamo noi che siamo addormentati mentre il Cristo Signore semplicemente e beatamente riposa <sul cuscino> (Mc 4, 38) della sua serena fiducia che è già il <porto sospirato> (Sal 106, 30). La domanda che Dio pone a Giobbe viene posta anche a noi: <Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissato un limite> (Gb 38, 8-10). L’unica risposta adeguata a questa domanda è una fede più fiduciosa e una speranza più serena.