Attendere… la volontà

II settimana T.A.

La conclusione del vangelo è una sorta di mappa per il nostro cammino di comprensione del mistero di Dio in relazione al mistero stesso della nostra umanità: <Così è la volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda> (Mt 18, 14). Questo dinamismo divino interamente rivolto e coinvolto nella storia della nostra realtà, fatta di angosce e dolori come di gioie e speranza, comporta per noi una grande responsabilità: possiamo essere la causa della gioia, di una grande gioia, per il cuore di Dio, nella misura in cui gli permettiamo di cercarci e di ritrovarci. Così esclama ammirato e stupito Bernardo di Chiaravalle: <Stupenda bontà di Dio, che ci cerca, e stupenda dignità dell’uomo che viene così ricercato! Se questi vuole vantarsene, può farlo senza follia, non perché sia qualche cosa in sé stesso, ma perché colui che lo ha creato l’ha fatto così grande>1. È tale la passione di Dio che, come pastore, non prende e non perde nemmeno il tempo necessario per raccogliere le pecore docili nell’ovile, ma le lascia <sui monti> (Mt 18, 12).

Il testo di Matteo non parla propriamente di un pastore, bensì di <un uomo> che <ha cento pecore e una di loro si smarrisce>. Si può così immaginare che il pastore resti a vigilare sulle novantanove, mentre il padrone in persona si lancia alla ricerca di quella perduta. È anche da notare come il contesto di questa parabola, nel vangelo secondo Matteo, non è la diatriba con gli scribi e i farisei che fanno fatica ad accogliere la logica della misericordia predicata e messa in pratica dal Signore Gesù come avviene nel vangelo di Luca, ma più propriamente nel contesto della vita comunitaria e delle indicazioni evangeliche su come gestire i rapporti non escluse le difficoltà e i conflitti. Se l’invito del profeta Isaia risuona potentemente al nostro cuore e si fa esortazione e guida per un cammino di conversione e attesa che siano autentici, bisogna pure dire che a fare il primo passo della conversione e dell’attesa è lo stesso Signore. Egli per primo <viene> (Is 40, 10) con la potenza della sua passione d’amore per ognuna delle sue creature e lo fa sempre <dolcemente> (40, 11) senza aspettare anzi facendo sempre il primo passo proprio come chi ama di più e desidera di più. 

Sì, possiamo fare nostre le parole del profeta: <Ecco il nostro Dio> (cfr Is 40, 9). Ma se ciò vale per noi, siamo chiamati ad essere in grado di farlo percepire ai nostri fratelli e sorelle in umanità attraverso la nostra piena disponibilità a lasciare anche noi ciò che sarebbe più che sufficiente alla nostra vita – novantanove su cento – per lanciarci alla ricerca di quel “centesimo” senza il quale tutta sarebbe sostanzialmente uguale eppure così profondamente diverso, perché terribilmente incompleto. Ciò che è in gioco è la dignità del pastore prima che la sicurezza della pecora smarrita: egli è capace non solo di ritrovarci, ma pure di caricarci sulle sue spalle e portarci sul suo petto come si fa con un piccolo di cui si comprendono gli inevitabili smarrimenti. 


1. BERNARDO DI CHIARAVALLE, Discorso 1 per l’Avvento, 8

Attendere… la vendetta

II settimana T.A.

Non possiamo che rimanere ammirati da tutto ciò che avviene attorno e, potremmo dire ancora di più dentro il cuore, di questo <uomo che era paralizzato> (Lc 5, 18). Egli viene portato davanti a Gesù come si fa con un morto che si trasporta e si lascia trasportare senza dire una parola e senza esprimere il benché minimo sentimento. Cosa si aspettano da Gesù quanti calano dal tetto della casa il loro amico immobile, se non che gli venga ridata la possibilità di camminare e di muoversi liberamente? Eppure, il Signore non reagisce subito rimettendo in piedi il paralitico, ma lo va a toccare nelle sue profondità perdonandogli i suoi <peccati> (5, 20). Nonostante questa sottile delusione di quelle che erano le loro aspettative e speranze, da parte dei portatori e da parte di colui che è stato posto <nel mezzo della stanza> (5, 19) non c’è nessuna espressione di delusione, ma la silenziosa e docile accoglienza di ciò che il Signore pensa sia giusto offrire loro. 

Sotto i nostri occhi vediamo questi uomini che fanno di tutto per presentare il malato a Gesù nella chiara speranza di renderlo partecipe di ciò che è già avvenuto per altri visto che <la potenza del Signore gli faceva operare guarigioni> (5, 17), nondimeno costoro sanno accogliere da Gesù una parola che fa segno di guardare più lontano, di porre lo sguardo più in profondità, fino alla radice profonda di ogni nostro malessere. La parola del profeta si compie andando a toccare le radici nascoste dei nostri sentimenti e dei nostri disordini: <Coraggio, non temete! Ecco, il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi> (Is 35, 4). La salvezza di certo comprende e include la guarigione, ma è ben più ampia di essa, come il benessere, se non è escluso, è solo una parte dell’esperienza di <felicità> (35, 10). Chiaramente un termine come <vendetta> può turbare la nostra sensibilità, ma nel linguaggio biblico essa indica una restaurazione del diritto attraverso cui si ristabilisce la giustizia soprattutto a favore dei più poveri e dei più deboli cui mancano o sono stati tolti i mezzi per difendere salvaguardare fino ad incrementare la propria vita fino a incrementare la propria gioia.

Così, la <vendetta> di Dio si rivela in Gesù proprio come resistenza alla logica degli scribi e dei farisei che hanno un irrefrenabile bisogno di salvaguardare la situazione per salvaguardare i propri privilegi, primo fra tutti, il proprio senso di superiorità. Quando il Signore Gesù rimette i peccati e poi rimette in cammino quest’uomo che era paralizzato e che, infine, è capace di tornarsene a casa sua sulle sue gambe e con il <lettuccio su cui era disteso> (Lc 5, 25) sottobraccio, afferma, in modo forte, la libertà di Dio davanti a se stesso e ai propri privilegi. La potenza si fa vendetta non nel senso della punizione o della salvaguardia di una distanza, ma nel senso di una partecipazione di vita sempre più vera e più ampia: <gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto> (Is 35, 10). Luca ci ricorda che <vedendo la loro fede> (Lc 5, 20) il Signore Gesù si coinvolge nella storia di quest’uomo fino a rischiare la sua vita: nulla di passivo nella fede, come nulla di passivo, ma di profondamente attivo, è il desiderio con cui viviamo questo nuovo Avvento.

Ritrovata innocenza

IMMACOLATA CONCEZIONE

La prima lettura ci porta lontano e, in realtà, non fa altro che aiutarci a leggere la realtà della nostra vita, quella che ci è più vicina e, per molti aspetti, persino intima. Il primo dialogo tra l’Altissimo e la nostra umanità è drammatico e tocca il punto dolente della nostra realtà di creature con cui, in realtà, facciamo così tanta fatica a riconciliarsi perché non ci riesce poi così facilmente di accettarci: <Chi ti ha fatto sapere che sei nudo?> (Gen 3, 11). Con questa domanda comincia la nostra storia di salvezza che, in realtà, è un lungo processo di ritrovata innocenza in cui lo scoglio da superare è proprio quel sentimento di <vergogna> che, dopo lo stupore commosso davanti alla donna creata, è la prima grande emozione della nostra umanità. Oggi festeggiamo il mistero di Maria, la madre del Signore che rimane, pur sempre, una nostra sorella in umanità. Le parole imbarazzanti con cui l’uomo si schermisce davanti all’Altissimo possono essere riaccolte quest’oggi con un sapore molto diverso: <La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato> (Gen 3, 12). In questo modo Adamo cerca di giustificarsi, ma, in realtà, riconosce di non aver capito che l’essere gli uni accanto agli altri è un’opportunità per discernere meglio cominciando a vedere meglio insieme <per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità… a lode dello splendore della sua grazia> (Ef 1, 4-6). 

A fronte del dialogo tra il Creatore e le sue creature nel giardino di Eden, rileggiamo il racconto di un altro dialogo: quello di Maria con Gabriele. L’atmosfera è completamente diversa perché il dialogo è sommamente franco e rappresenta per Maria un modo non per nascondersi davanti al desiderio di Dio, ma di aprirsi ad esso in tutta libertà e piena consapevolezza: <Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola> (Lc 1, 38). Maria accoglie e non subisce la volontà del Signore. Oggi contempliamo, in Maria, una possibilità che è di tutti noi ed è per tutti noi: possiamo ritrovare la nostra innocenza nella misura in cui accettiamo di misurarci con la nostra libertà e la esercitiamo fino in fondo. Come la promessa sposa di Giuseppe poniamo domande diventando così capaci di dare risposte senza dimenticare che siamo posti <accanto> gli uni gli altri per sostenerci e spronarci in questo cammino di umanizzazione ineludibile e appassionante.

Oggi proclamiamo Maria <concepita senza peccato originale> perché la sua libertà davanti a Dio, che la rende <serva del Signore> (Lc 1, 38), è capace di avvolgere la sua vita fin dalle sue radici. La <piena di grazia> (1, 28) è capace di accogliere la grazia che viene dall’Altissimo in modo così totale che dalle foglie della sua umanità in fioritura è capace di andare a toccare e sanare le sue radici intrecciate con la terra di tutta la nostra umanità… fino a risanarle: <nulla è impossibile a Dio> (1, 36) ma non senza di noi e mai contro di noi! La predestinazione che ha creato tante incomprensioni e sofferenze non è una negazione della nostra libertà, ma l’orizzonte – la lettera agli Efesini usa il termine prohorizô – in cui far navigare la nostra libertà fino al porto della sua piena realizzazione <accanto> a Dio e agli altri.

Alla fine, finalmente, Maria si riconosce nel progetto di Dio che è il suo da sempre: essere <serva del Signore> per questo non si nasconde, ma è nuda davanti a Dio nella verità e nell’audacia di essere se stessa fino in fondo, tanto da essere la donna adatta a rendere figlio della nostra umanità il Verbo eterno del Padre.

L’innocence retrouvée

IMMACULEE CONCEPTION 

La première lecture nous emmène loin et, en réalité, ne fait pas autre chose que de nous aider à lire la réalité de notre vie, celle qui nous est la plus proche, et, par différents aspects, même la plus intime. Le premier dialogue avec le Très-Haut et notre humanité est dramatique et touche le point douloureux de notre réalité de créature avec qui, en réalité, nous avons tant de mal à nous réconcilier car, nous ne réussissons pas si facilement à nous accepter : ” Qui t’a dit que tu étais nu ? ” ( Ge 3, 11 ). Par cette question commence notre histoire du salut qui, en réalité, est un long processus d’innocence retrouvée où l’obstacle à surmonter est vraiment ce sentiment de ” honte”, qui, après l’émouvante stupéfaction face à la femme crée, est la première grande émotion de notre humanité. Nous fêtons aujourd’hui le mystère de Marie, la mère du Seigneur qui reste aussi toujours notre soeur en humanité. Les paroles embarrassantes par lesquelles l’homme se protège face au Très-Haut, sont réactualisées, avec une saveur très différente : ” La femme que tu as mise à mes côtés m’a donné du fruit de l’arbre et j’en ai mangé ” ( Ge 3, 12 ). De cette façon, Adam cherche à se justifier, mais, en réalité, il reconnaît ne pas avoir compris qu’être unis les uns aux autres est une opportunité pour mieux discerner en voyant mieux ensemble ” pour être saints et immaculés face à lui, dans la charité…pour louer la splendeur de sa grâce ” ( Eph 1, 4-6 ).

Face au dialogue entre le Créateur et ses créatures au jardin d’Eden, nous relisons l’histoire d’un autre dialogue : celui de Marie avec Gabriel. L’atmosphère est complètement différente car le dialogue est extrêmement franc et représente pour Marie une manière, non pas de se cacher face au désir de Dieu, mais de s’ouvrir à lui en toute liberté,  en pleine  conscience :” Voici la servante du Seigneur, qu’il me soit fait selon ta parole ” ( Lc 1, 38 ). Marie accueille et ne subit pas la volonté du Seigneur. Aujourd’hui nous contemplons, en Marie, une possibilité qui se trouve en chacun de nous et en tous : nous pouvons retrouver notre innocence dans la mesure où nous acceptons de nous y mesurer avec notre liberté et de l’exercer entièrement. Comme l’épouse promise de Joseph, nous nous posons des questions, capables ainsi  d’y répondre sans oublier que nous sommes ” proches” les uns des autres pour nous soutenir et nous encourager sur ce chemin inéluctable et passionnant d’humanisation.

Aujourd’hui, nous proclamons Marie ” conçue sans péché originel ” car sa liberté face à Dieu, qui la rend ” servante du Seigneur ” ( Lc 1, 38 ), est capable d’envelopper sa vie depuis ses racines. La ” pleine de grâce ” ( 1, 28 ) est capable d’accueillir la grâce qui vient du Très-Haut de manière si totale que depuis les feuilles de son humanité en floraison, elle peut aller toucher et assainir ses racines entremêlées avec la terre de toute notre humanité…jusqu’à les purifier : ” rien n’est impossible à Dieu” ( 1, 36 ), mais non sans nous et jamais contre nous ! La prédestination qui a créé tant d’incompréhensions et de souffrances, n’est pas une négation de notre liberté, mais l’horizon – la lettre des Ephésiens utilise le terme prohorisô – où faire naviguer notre liberté jusqu’au port de sa pleine réalisation ” près” de Dieu et des autres.

Finalement, à la fin, Marie se reconnaît dans le projet de Dieu qui est le sien depuis toujours : être ” servante du Seigneur ” et pour cela, elle ne se cache pas, mais est nue devant Dieu, dans la vérité et l’audace d’être elle-même entièrement, pour devenir la femme appropriée à rendre fils de notre humanité le Verbe éternel du Père.

Attendere… guarire

I settimana T.A.

Questa prima settimana di Avvento si conclude con immagini molto consolanti e capaci di rinfrancare il cuore. Le parole del profeta Isaia risuonano come un grido di infinita consolazione: <tu non dovrai più piangere> (Is 30, 19), mentre l’evangelista Matteo ci fa cogliere un fremito di inenarrabile <compassione> (Mt 9, 36) che attraversa il cuore del Signore Gesù e si riversa, come un fiume di grazia e un uragano di tenerezza, su tutti. Ci sentiamo, così, posti sotto il suo tenerissimo sguardo che si dona, quasi a gocce, come una medicina capace di dare sollievo e di confortare lungo il cammino della vita normalmente segnato da rare gioie e ordinarie fatiche. Il tempo di Avvento, se ci aiuta a ricomprendere i tempi e i modi della nostra esistenza come la lunga attesa di un compimento, ci rivela pure che la nostra vita è una sorta di lungo processo di guarigione. Sembra proprio che il compimento del Regno di Dio atteso e desiderato non potrà che essere l’esperienza di sentirsi finalmente e profondamente bene: <quando il Signore curerà la piaga del suo popolo e guarirà le lividure prodotte dalle sue percosse> (Is 30, 26).

Le <percosse> evocate dal profeta, potremmo interpretarle proprio in senso medico e curativo, intendendole come quegli interventi dolorosi che il chirurgo impone al paziente nella speranza che, non il dolore in sé, ma attraverso il dolore, possa permettergli una vera e duratura guarigione. La Parola di Dio non solo ci ricorda che siamo dei malati bisognosi di guarire, ma ci ricorda pure che la guarigione non dipende solo dal medico e non può essere delegata neppure alla misteriosa efficacia di una terapia, ma esige tutto il nostro coinvolgimento e la nostra serena e coraggiosa decisione di voler uscire da quelle malattie che imprigionano la nostra anima: <i tuoi occhi vedranno il tuo maestro, i tuoi orecchi sentiranno questa parola dietro di te: “Questa è la strada, percorretela”, caso mai andiate a destra o a sinistra> (30, 21).

La parola del Signore ci rimette così nella direzione giusta e nella più giusta prospettiva attraverso quell’avverbio che sembra essere stato posto dal Signore stesso a fondamento della sua Chiesa: <Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date> (Mt 10, 8). In realtà ciò che abbiamo gratuitamente ricevuto per ridonarlo con altrettanta generosità e liberalità, non è un concetto – fosse pure dogmatico – ma un’esperienza assolutamente esistenziale che è quella di essere stati guariti e di poter comprendere così profondamente ogni umana sofferenza da non poter in nessun modo rimanere indifferenti. L’invito del Signore a pregare <il Signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!> (9, 38) va inteso meno nel senso di dottori accademici e più nel segno di compassionevoli medici. Se è vero che il Signore Gesù <percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando… annunciando> rimane pur vero che lo fa sempre <guarendo ogni malattia e infermità> (9, 35). Mentre il cammino verso la rinnovata e non ripetitiva celebrazione del mistero del Natale si fa più spedito, siamo chiamati a riconoscere di avere bisogno di guarigione e quindi ad accettare che siamo malati. Nello stesso tempo l’incarnazione del Verbo ci ricorda che se Dio ha preso su di sé le nostre malattie, noi pure possiamo portare il peso gli uni degli altri <gratuitamente> o, almeno, senza troppo lamentarci.

Attendere… insieme

I settimana T.A.

Non c’è niente di più semplice dello sguardo: si guarda come si respira, eppure nulla è più difficile che essere capaci di vedere. Tutta la storia della salvezza, quale cifra della stessa storia dell’umanità, non è altro che un lento imparare a vedere attraverso lo sguardo accettando, cosa talora più difficile e penosa, di essere visti. Tra il Creatore e la nostra umanità, come in tutte le relazioni forti e significative, siamo di fronte ad una storia di sguardi attraverso cui si consuma il dramma di una relazione più o meno riuscita. Dobbiamo anche riconoscere che la sfida non consiste solo nell’imparare a guardare per essere in grado di vedere, ma pure di lanciarci in questa avventura insieme e non da soli. L’evangelista Matteo ci parla di <due ciechi> (Mt 9, 27) che insieme si rivolgono al Signore Gesù nella speranza di essere sanati e insieme, dopo aver vissuto l’esperienza del dolore condiviso e di una supplica comune, possono infine condividere la gioia e le conseguenze di essere di nuovo capaci di vedere. 

Il salmo responsoriale ci fa fare una professione di fede: <Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò timore?> (Sal 26, 1). Il profeta Isaia ci fa partecipi di una grande promessa che ci riguarda personalmente e assai profondamente: <D’ora in poi Giacobbe non dovrà più arrossire, il suo viso non impallidirà più> (Is 29, 22). La domanda che il Signore Gesù pone ai due ciechi è rivolta oggi anche a noi: <Credete che io possa fare questo?> (Mt 9, 28). Non ci capiti di rispondere troppo in fretta e ricordiamoci che è necessario un salto come quello vissuto dai due ciechi che, dopo aver invocato Gesù <gridando: “Figlio di Davide”> (9, 27) lo riconoscono e lo confessano quale <Signore> (9, 28). In pochi istanti i due ciechi percorrono, nel buio della loro cecità, un ben più lungo cammino tanto da sentirsi rispondere: <Avvenga per voi secondo la vostra fede> (9, 29).

Mentre ci prepariamo al Natale del Signore è come se la Liturgia, attraverso la scuola della Parola, volesse mettere nei nostri occhi una buona dose di collirio per poter riconoscere nel bambino adagiato in una mangiatoia la visibilizzazione della Luce increata. La luce di Cristo ci salva perché accogliendo ci rende capaci di accoglienza verso noi stessi per saper abbracciare con uno sguardo rinnovato e purificato ciò che degli altri e di noi stessi non vorremmo vedere… non vorremmo sapere. Riconoscere come questi due cieci di avere bisogno di aiuto e saperlo chiedere insieme, quasi sostenendosi nella supplica e facendosi coraggio nell’invocazione, è, paradossalmente, l’unica via per poter finalmente vedere riscoprendo i colori dell’universo che ci abita interiormente e che ci circonda. Eppure, tutto ciò non sarebbe possibile senza quella fede che apre il nostro cuore ad un di più di speranza che è già un modo di vedere oltre la tenebra e il buio e così <quelli che mormorano impareranno la lezione> (Is 29, 24).

Attendere… uno spazio

I settimana T.A.

La parola della Liturgia apre il nostro cuore alla speranza di avere, infine, uno spazio in cui poter sperare, in cui potersi sentire al sicuro non nel senso di una protezione infantilizzante, ma nella dimensione di un ambito a nostra misura in cui ci sia permesso di crescere e di far crescere. Il segno che lo spazio della <casa> (Mt 7, 24) che andiamo edificando nella e con la nostra vita sia fondata sulla <roccia> e perciò possa ritenersi veramente <salda> (Is 26, 3) è che continuamente risuoni, dai suoi più alti bastioni, un grido chiaro e forte: <Aprite le porte> (26, 2). La solidità della città del nostro cuore è direttamente proporzionale alla capacità di aprire i nostri cuori ad un’accoglienza sempre più dilatata e insensibile ad ogni paura perché fondata su quella <volontà del Padre> (Mt 7, 23) che ci riconosce tutti come suoi figli e ci pensa tutto come fratelli. Si può leggere il testo di Isaia come la parabola della città rovesciata! Infatti, il profeta parla del nostro Dio come colui che edifica, certo, ma pure come colui che <ha abbattuto coloro che abitavano in alto, ha rovesciato la città eccelsa, l’ha rovesciata fino a terra, l’ha rasa al suolo> e se non bastasse Isaia non ha nessun timore ad aggiungere un’ulteriore nota chiarificatrice: <I piedi la calpestano: sono i piedi degli oppressi, i passi dei poveri> (Is 26, 5-6).

Queste parole profetiche, unitamente a tante altre simili che ritmano il fluire delle Scritture, hanno ispirato il Cantico della Madre del Signore che, davanti all’estasiata esclamazione di Elisabetta, punta lo sguardo sul mistero non della sua eccezionalità e singolarità, ma sulla sua profonda partecipazione alla storia di salvezza dei più poveri che esige, necessariamente, la conversione di quanti sono troppo ricchi da essere motivo di oppressione. La parabola del Signore è un invito a creare nella nostra vita uno spazio di salvezza che esige una certa saldezza in cui si rifletta ciò che viene evocato dal profeta Isaia: <La sua volontà è salda; tu le assicurerai la pace, pace perché in te confida> (26, 3). L’amore di Dio si offre a noi come casa sicura e ben fondata non perché sia esente da minacce, ma perché capace di resistere graziosamente e solidamente. 

Rassicurandoci, il Signore ci chiede pure di verificare onestamente la nostra vita per comprendere meglio il motivo per cui vogliamo costruire e verificare il modo con cui ci siamo messi all’opera. Il profeta parla di una città che viene offerta da Dio al suo popolo per consolarlo delle sofferenze inflittegli dalla grande e potente Babilonia. Le sue imponenti costruzioni e i suoi splendidi giardini impressionavano la fantasia di quei <poveri> che il Signore predilige e sotto i cui <piedi> (26, 6) fa sgretolare tutti i sogni di onnipotenza autoreferenziali. La <roccia> (Mt 7, 24) di cui ci parla il Signore Gesù non è altro che la coscienza chiara di non poter in nessun modo fondare la nostra vita su noi stessi, ma nella fede che ci rende pienamente fiduciosi tanto da non avere nessuna paura di aprire <le porte> (26, 2) facendo così della nostra vita uno spazio aperto e al contempo sicuro.

Attendere… liberi

I settimana T.A.

Due scenari per intuire la medesima cura con cui il Signore accompagna il cammino del suo popolo e il nostro proprio cammino: il banchetto messianico alla fine dei tempi, di cui ci parla quasi trasognato il profeta Isaia, e la moltiplicazione dei pani – così familiare – sulle rive del lago. La preghiera orienta e forse anche un poco aggiusta il tiro della nostra attesa: <la forza di questo sacramento ci liberi… e ci prepari> (Orazione dopo la Comunione). Mentre contempliamo ancora una volta la commovente <compassione> (Mt 15, 32) con cui il Signore sfama i poveri che accorrono a lui, la liturgia ci chiede di rammentare bene che il pane che riceviamo – la presenza del Signore che ci accompagna lungo il cammino della vita fatta di bisogni oltre che di desideri – ha come scopo quello di renderci un po’ più liberi e sempre più preparati non solo a partecipare, ma ad essere pure attenti e attivi nel <banchetto> che il Signore stesso <preparerà> (Is 25, 6) per tutti.

Potremmo dire che l’Avvento se scava in noi il desiderio di partecipare alla gioia del Regno di Dio che viene, lo fa proprio aiutandoci a riappropriarci della nostra povertà. È infatti la nostra coscienza di avere bisogno che ci avvicina al Signore Gesù creando lo spazio necessario perché egli possa rendersi presente alla nostra vita: <Non voglio rimandarli digiuni, perché non vengano meno lungo il cammino> (Mt 15, 32). Il Signore Gesù non vuole che rimaniamo digiuni della sua presenza e della sua compagnia per poter serenamente vivere il nostro cammino senza venir meno e potendoci rallegrare di raggiungere la mèta del nostro desiderio più vero e profondo. Le parole del profeta Isaia ci confortano e ci rafforzano: <Questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza> (Is 25, 9).

Se abbiamo sperimentato la salvezza donataci, allora la nostra stessa vita si fa dono e condivisione di salvezza con tutti i nostri fratelli in cammino con noi e come noi. La nostra è una condivisione tra poveri più che essere una condivisione con i poveri. Il Signore Gesù si fa infatti povero accettando di dare interamente la sua vita e chiedendo ai suoi discepoli di accompagnarlo e imitarlo in questo medesimo atteggiamento. Il tempo di Avvento è un tempo di interiorizzazione e di metabolizzazione delle nostre povertà, fragilità e limiti per renderli un luogo di salvezza per noi stessi e di condivisione di salvezza per tutti coloro che la vita pone sulla nostra strada. Se è vero che <il Signore asciugherà le lacrime su ogni volto> (Is 25, 8) è anche vero che noi stessi siamo chiamati ad essere il fazzoletto con cui il Signore si prende cura del pianto di ogni uomo e donna in quella <compassione> che in Cristo Gesù si è fatta così visibile da farsi carne e sangue. La domanda risuona nel nostro cuore: <Quanti pani avete?> (Mt 15, 34) che può essere intesa così “quanta compassione avete?” mettiamola davanti al Signore ed egli la moltiplicherà fino alla <sazietà> (15, 37)… fino a farne avanzare.

Attendere… è valutare

I settimana T.A.

Dopo esserci nutriti della Parola e del Corpo e Sangue di Cristo così preghiamo nell’Eucaristia di quest’oggi: <insegnaci a valutare con sapienza i beni della terra, nella continua ricerca dei beni del cielo> (Orazione dopo la Comunione). Mentre cominciamo a vivere questo nuovo Avvento, è come se fossimo sensibilizzati al dovere di <valutare> il modo con cui ci apriamo alla presenza di Dio nella nostra vita e siamo capaci di discernerne i segni nella storia dell’umanità. Come dice un giornalista contemporaneo: <Il tempo dell’Avvento ci è dato anche per imparare a lasciarci mettere in causa proprio dalla contraddizione evangelica che ci mette alla scuola dell’Infinitamente Piccolo che a quella dei sapienti di questo mondo>1.

La gioia di cui è ricolmo il Signore Gesù viene dallo <Spirito Santo> (Lc 10, 21) e proprio per questo si differenzia da altre gioie perché non è concentrata su se stessa, ma aperta a qualcosa di più grande e di più ampio capace di inglobare – persino di preferire –i più <piccoli>. Nel mistero del Natale, alla cui rinnovata celebrazione liturgica ci prepariamo, il Figlio di Dio si rivelerà al mondo proprio come il “piccolo” del Padre che attraverso la sua vulnerabilità e la sua umiltà è capace di ristabilire i legami della famiglia di Dio interrotti dalle ferite di quel bisogno di grandezza e di irresponsabile autonomia da cui, così sovente, siamo tentati per gestire le nostre piccolezze inaccolte. Nella stessa linea il profeta Isaia offre al popolo imbarazzato dal suo sentimento di diminuzione, a motivo del giogo Assiro così opprimente e così potente da mettere in crisi la stessa identità del popolo, una speranza per sormontare il dubbio su quanto sia vero che Dio lo ami e lo custodisca.

Alle soluzioni di contrapposizione e di rivincita il profeta oppone quella di un semplice <germoglio> che <spunterà dal tronco di Iesse> (Is 11, 1). Isaia non solo rettifica e rianima la speranza del popolo e la nostra, ma pure ci mette tra le mani un criterio per <valutare> la speranza di cui siamo ricolmi. Il germoglio di cui parla il profeta, se si radica nel tronco della dinastia davidica, nondimeno porta il sigillo del modello davidico che è la coscienza consapevole della propria piccolezza che fu criterio di scelta per Samuele per riconoscere colui che, tra tutti i figli di Iesse, era stato scelto da Dio per guidare il suo popolo. Nella prima lettura troviamo come l’esplicitazione di ciò che lo <Spirito Santo> (Lc 10, 21) opera nel cuore del Signore Gesù perché ci riveli il volto del Padre suo: <ma giudicherà con giustizia i miseri prenderà decisioni eque per gli umili della terra> (Is 11, 4). Proprio in questo spirito davidico, di cui ci testimonia il salterio tradizionalmente attribuito al re-piccolo, possiamo valutare e verificare se e quanto la nostra attesa è autentica: <Perché egli libererà il misero che invoca e il povero che non trova aiuto. Abbia pietà del debole e del misero e salvi la vita dei miseri> (Sal 71, 12-13).


1. J. HAGGERTY, Quitter Dieu pour Dieu, Mame, Paris 2009, (M 205/28)

Attendere… una parola

I settimana T.A.

Il gesto di un centurione apre il nostro itinerario quotidiano di Avvento: <gli venne incontro> (Mt 8, 5). Nel vangelo secondo Matteo siamo ancora idealmente alle falde del monte delle Beatitudini ove il Signore Gesù ha appena pronunciato le parole delle beatitudini capaci di dare un colore e un calore di Regno a tutte le nostre umane situazioni. Appena sceso dal monte, ecco che le parole si fanno gesti e l’evangelista Matteo ce ne elenca ben dieci quasi un decalogo non più di comandamenti, ma di tenerezza. Dopo il lebbroso ecco il centurione, dopo quel tocco che supera la barriera eretta da una malattia così religiosa come la lebbra, ecco <una parola> (8, 8) che è capace di andare oltre tutte le nostre estraneità. Il tempo di Avvento ci prepara al Natale in cui contempliamo e accogliamo il Verbo che si fa carne, ed il primo passo di questa marcia verso la luce sembra essere quella di riappropriarci di una parola che sia capace di creare e ricreare continuamente una relazione che sia terapeutica perché umanamente autentica.

Il Vangelo ci ricorda con la figura di questo centurione che il luogo in cui può essere accolta la parola creatrice di Dio cui risponde e corrisponde la nostra parola di adesione e di amore non è il cielo disincarnato delle intuizioni, bensì la terra dell’attenzione che si fa sguardo e intercessione per sollevare e confortare prima di tutto l’altro: <Signore, il mio servo è in casa, a letto, paralizzato e soffre terribilmente> (8, 6). L’incontro tra Gesù e il centurione avviene a causa di questo <servo> che <soffre terribilmente>. Tra Gesù e il centurione si creano le condizioni di un incontro così forte da generare l’ammirazione del Signore a partire da una condivisa attenzione alla sofferenza che non riesce a rimanere semplicemente spettatrice, ma si fa condivisione e coinvolgimento estreme. Quella <fede così grande!> (8, 10) di cui Gesù parla agli astanti radica in un amore così grande da essere capace di precedere la fede come adesione di fede.

Si ritorna così alla parola originaria con cui Dio ha creato il mondo e comincia a prepararsi nel cuore lo spazio per accogliere la parola che, in Gesù, viene pronunciata ogni giorno sulle e attraverso le nostre umane situazioni, perché divengano una parola di risposta all’opera cominciata da Dio e affidata, ora, al nostro impegno e alla nostra capacità di ricreare continuamente il mondo secondo il progetto amoroso del Padre. Il <messaggio> che Isaia <ricevette in visione> (Is 2, 1) è ciò di cui il Signore Gesù è incarnazione e che richiede a ciascuno di noi di vivere in un dinamismo di obbedienza esistenziale al progetto di Dio sulla nostra umanità. Ancora oggi il Signore risponde: <Verrò e lo guarirò> (Mt 8, 7). Ancora oggi da noi il Signore si aspetta una reazione simile a quella del centurione: <dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito> (8, 8). Ciò che cambia il mondo perché guarisce il nostro modo di vivere e di pensare non sono i gesti di potenza, ma i sottili gesti di tenerezza. Che un centurione si prenda così tanta cura di un <servo> è già segno del Regno che viene ed è l’aurora di una <fede così grande> da fargli prendere posto <a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli> (8, 11).