Attendere… tranquillo

III settimana T.A.

Ciò che il profeta Geremia profetizza pensando agli effetti sul popolo dell’avvento del Messia, può ben diventare non solo l’oggetto amato della nostra attesa, ma ancor più intimamente l’attitudine del cuore davanti ad ogni desiderio e ad ogni suo compimento: <Nei suoi giorni Giuda sarà salvato e Israele vivrà tranquillo> (Gr 23, 6). Mentre Giuseppe vive tutto il suo dramma davanti a ciò che ha indubitabilmente attraversato come una folgore la vita della sua <promessa sposa> (Mt 1, 18) trovandosi alla difficilissima scelta di incarnare con scelte personali e uniche la <giustizia> dei padri, il Verbo se ne sta profondamente <tranquillo> nel fondo della barca del seno della sua giovane madre, già come Giona nel fondo della nave e nelle viscere della balena. Più volte nella sua vita ritroveremo il Signore Gesù in questo atteggiamento di tranquillo abbandono mentre attorno a sé – pensiamo ancora alla barca dei suoi discepoli sballottata dalla tempesta – ed è proprio questa sua serenità inviolabile che permette al dramma della nostra libertà di giocarsi fino a risolversi.

Il <germoglio giusto> (Gr 23, 5) di cui parla Geremia è affidato alla mano delicata e decisiva di Giuseppe che era <un uomo giusto> (Mt 1, 19). Essere giusto per Giuseppe non è né facile da capire né facile da vivere, ma risulta chiaro che per Giuseppe – come sempre lo sarà per il suo figlio Gesù quando incontrerà il mistero unico e sempre rispettabile di ogni persona che incontrerà sul suo cammino – non c’è una giustizia che sia una fedeltà semplici e unidirezionale, ma si tratta sempre di vivere in una doppia fedeltà – a Dio e all’uomo – che è l’unico modo per essere veramente giusti con se stessi e fedeli a <ciò che il cuore gitta dentro>, come poeterebbe Dante. Certo rileggendo ancora una volta questi testi fondativi della nostra esperienza di fede possiamo rimanere così ammirati di Giuseppe, di Maria, di Gesù… da non essere in realtà toccati e interpellati da ciò che se è avvenuto sempre avviene e può inverarsi persino nella nostra vita, come in quella del nostro vicino.

Come immaginare il giusto Giuseppe e l’amata Maria davanti a questo mistero di presenza inatteso e, sicuramente, indesiderato almeno per rispetto a Dio e pietà verso se stessi. Eppure, Dio passa nella vita… l’amore ci disturba… l’inaccessibile si realizza proprio dentro le pieghe più nascoste e intime della nostra vita. E ogni volta che questo avviene – e avviene molto più di quanto immaginiamo e desideriamo – si tratta di rivivere ciò che il popolo ha attraversato gioiosamente e penosamente quando è stato <fatto uscire dalla terra d’Egitto!> (Gr 23, 7). Anche noi possiamo ritrovarci personalmente e essere chiamati a prendere atto che nella vita di una persona che amiamo si trovi qualcosa di assolutamente nuovo <che viene dallo Spirito Santo> (Mt 1, 20) e che per manifestarsi ha bisogno della nostra cura e della nostra accoglienza perché salvato possa salvare. La vita di Dio e i suoi passaggi ci sorprendono, ci turbano, ci cambiano, ci rimettono in strada e talora ci mettono sulla strada… eppure quanta cura esige un <germoglio> perché possa divenire albero? E la prima cura è di essere lasciato <tranquillo> per poter crescere in pace!

Attendere… generare

III settimana T.A.

La <genealogia di Gesù Cristo> (Mt 1, 1) è il nostro album di famiglia, in cui foto sempre più antiche e misteriosamente sconosciute si alternano ad altre di cui conosciamo invece più chiaramente i contorni. Contrariamente a ciò cui siamo abituati le foto che corrisponderebbero ai nomi più antichi e remoti sono quelle più familiari, mentre dopo la <deportazione in Babilonia> (1, 12) tutto diventa più sfumato e incerto. Eppure, l’invito del patriarca ancora risuona in questo inizio dell’immediata preparazione al Natale del Signore: <Radunatevi e ascoltate, figli di Giacobbe, ascoltate Israele, vostro padre!> (Gn 49, 2). Mentre prepariamo il presepio in cui deporre il bambino in cui riconosciamo <Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo> (Mt 1, 1) non possiamo fare a meno di ripensare a tutta la storia di Israele che ne ha preparato la venuta nella nostra carne, ma non possiamo dimenticare di riflettere sulla nostra propria storia.

Come nella genealogia possiamo riscontare una sorta di indebolimento di forza e di onore tanto che la storia di Israele diventa sempre più oscura ed umbratile a forza di tradimenti e di compromessi, così pure anche nelle nostre piccole storie la grandezza delle persone più lontane nel tempo – dovuta in parte anche alla loro lontananza – mette ancora più in evidenza le debolezze e le fragilità di quanto abbiamo conosciuto circa la vita degli altri e, naturalmente, di noi stessi. Eppure, pare che l’incarnazione si avvicini sempre di più nella misura in cui, sembra, che le ombre diventino più pesanti e gli interrogativi più brucianti. L’annuncio di gioia e di salvezza sta proprio nella presa di coscienza che non è la nostra onorabilità ad averci meritato di accogliere tra le braccia della nostra umanità ferita il Verbo di Dio, ma è la sua amabile e serena venuta in mezzo a noi a restituire onore e fierezza alla nostra umanità.

Come annota Pascal: <Egli è rimasto nascosto, sotto il velo della natura che lo copriva ai nostri sguardi, fino all’Incarnazione; e quando giunse il momento in cui si dovette mostrare, si è nascosto più ancora, coprendosi dell’umanità. Era, infatti, più riconoscibile quando era invisibile che al momento in cui si è reso visibile>1. Un nuovo cammino nella fede si apre per noi e per chiunque si lasci toccare e interrogare dalla venuta del Verbo nella nostra carne per rivelarci l’invisibile e amabilissimo volto del Padre. Il passaggio cruciale della storia è significato dal cambiamento di modo verbale: dopo che per 39 volte si fa riferimento al <generò> di uomini più o meno noti e più o meno pii, nel momento in cui si parla di Giuseppe, il padre di Gesù, non si dice che lo generò ma che egli è <lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù> (Mt 1, 16). Al 40° anello delle generazioni si passa dall’attivo al passivo: <Così fu generato Gesù Cristo…> (1, 18). Entriamo in questo tempo d’immediata preparazione al Natale chiedendoci in che misura la nostra vita è illuminata e cambiata dalla conoscenza del mistero di Cristo tanto da accettare di deporre serenamente e felicemente <lo scettro> e il <bastone> (Gn 49, 10).


1. B. PASCAL, Opusculi (lettera a Sig.na de Roannez, ottobre 1656)

Attendere… da testimoni

III settimana T.A.

La reazione elegante e per certi aspetti un po’ sprezzante con cui il Signore Gesù risponde agli scribi e ai farisei circa la sua <autorità> (Mt 21, 23), ci aiuta a comprendere la differenza tra l’essere dei semplici “portavoce” ed essere, invece, dei testimoni. Questo è, di certo, il mistero di Giovanni il Battista, ma questa è pure l’esperienza vissuta da Balaam che da essere semplicemente l’esecutore di un bisogno si fa, invece, interprete di una realtà che lo supera e la cui forza e verità non può tacere: <Io lo vedo, ma non ora, io lo contemplo, ma non da vicino: una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele> (Nm 24, 17). Balaam è capace di compiere un gesto che è ben più di un gesto: <alzò gli occhi> (24, 2). In tal mondo gli è possibile vedere oltre ciò che gli è stato comandato di vedere o, forse meglio, di non vedere. Quello di alzare gli occhi, per andare oltre ciò che si teme, è un atteggiamento che ritroviamo in Gesù ed è una delle esortazioni ricorrenti per i suoi discepoli.

In tal modo, solo così, da spettatori della vita – propria ed altrui – si può diventare testimoni di una vita che ci precede e sempre ci supera. La reazione di Balaam è quella di un uomo che sa cambiare visuale fino a cambiare atteggiamento e si trova così agli antipodi del modo di reagire di quanti interrogano il Signore, ma non si lasciano mai interrogare e mettere in discussione dalla vita: <Non lo sappiamo>. Questa reazione “da struzzo” permette al Signore di sottrarsi all’iniquo interrogatorio: <Neanch’io vi dico con quale autorità faccio queste cose> (Mt 21, 27). Ciò che troviamo in Balaam, ed è assente nei capi dei sacerdoti e negli anziani del popolo, è la capacità di alzare lo sguardo, di levare gli occhi, di mantenere un minimo di sensibilità alla meraviglia. Del resto, come ci si può meravigliare se si è sempre e solo sulla difensiva? Eppure, bisogna riconoscerlo, ci vuole del coraggio per porre uno sguardo nuovo – l’unico che abbia una minima speranza di verità – sulle persone, sugli eventi… persino sulle cose!

Tutto ciò esige un atteggiamento da nomadi che ritroviamo in Balaam, che riscontriamo in Giovanni Battista, che è uno dei tratti più amabili del Signore Gesù. Come spiega mirabilmente Origene: <Una casa è una realtà fondata e stabile entro limiti fissi; le tende invece sono delle abitazioni da nomadi sempre in viaggio, sempre in cammino e che mai ritengono di essere arrivati alla mèta>1. Per questo Balaam ha un sussulto di stupore e di ammirazione: <Come sono belle le tue tende, Giacobbe, le tue dimore, Israele> (Nm 24, 5). È come se si ritrovasse davanti alla magnifica e rarissima possibilità di un popolo compatto e stabile; eppure, non sedentarizzato e in continuo esodo. La discussione sull’<autorità> (Mt 21, 23), in cui gli scribi tentano di trascinare il Signore Gesù, viene da questi affrontata in termini di autorevolezza, che è sempre legata alla capacità di rischiare la propria vita per ciò in cui si crede… tanto da essere testimoni e martiri dell’amore alla vita come lo fu Giovanni.


1. ORIGENE, Omelie sui Numeri, 17, 4, 2.

Attendere… fare

III Domenica T.A.

La domanda posta a Giovanni Battista da parte di quanti si fanno veramente interpellare dalla sua predicazione è quella che la Liturgia di quest’oggi ci chiede di fare nostra: <Che cosa dobbiamo fare?> (Lc 3, 10). Con questa domanda così concreta il nostro cammino di Avvento fa un passo non solo necessario ma anche essenziale per far sì che l’attesa del Signore coincida con il concreto fargli posto nella nostra esistenza quotidiana e nelle nostre ordinarie relazioni. Nel testo di Luca la domanda ritorna per ben tre volte: viene posta dal <folle>; viene ripetuta da un gruppo di <pubblicani> (3, 12) e persino da alcuni <soldati> (3, 14). Mentre queste categorie prendono forma sotto i nostri occhi di lettori o di ascoltatori, si fa spazio uno scenario così ampio e così inclusivo da creare un posto anche per noi, da fare spazio anche alla domanda che sorge dal nostro cuore: <Cosa dobbiamo fare?>. E’ questo il primo passo per chiedere a se stessi contando sull’aiuto degli altri chi vogliamo essere cercando di dare un orientamento sempre più chiaro al nostro modo di agire.

L’unico modo per attendere il Signore e preparare fattivamente e realisticamente la sua strada è quello di condividere la propria vita – a partire dai suoi aspetti più pratici e materiali – per giungere ad una comunione di cammino, di desideri, di aneliti. Credere è agire e l’agire caratterizza la fede nel senso che la fa crescere e le dà il suo volto più autentico. Le risposte di Giovanni sono semplici e hanno tutta l’aria di essere un semplice rimando a ciò che non fa rumore e che si confonde in modo del tutto naturale e silenzioso con le pieghe della storia di tutti e di sempre: <Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto> (3, 11). Oppure: <Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato> (3, 13). E ancora <Non maltrattate… accontentatevi> (3, 14). Sembra di essere nella stessa situazione del giovane ricco a cui il Signore Gesù risponde con lo stesso tono fino a metterlo in difficoltà. Eppure, nessuna strada si potrà aprire per l’avvento del Regno di Dio nella storia, se non cominciamo ad appianare la soglia della nostra casa perché sia dolce e invitate, aperta e semplice.

L’apostolo Paolo riprende l’atteggiamento di Giovanni con una parola che dà il sapore proprio a questa domenica: <siate sempre lieti nel Signore… la vostra amabilità sia nota a tutti> (Fil 4, 4-5). La serenità raccomandata dall’apostolo Paolo non è l’indifferenza superficiale degli ingenui o dei furbi, è un atto di fede. Se viviamo nella fiducia in Dio, le nostre preoccupazioni, le nostre prove non si cancelleranno magicamente, ma potremo attingere nella nostra comunione con Dio la forza necessario per fare ciò che è buono e per vivere ciò che è giusto. La domanda con cui san Bernardo scuoteva i suoi monaci nei freddi mattini di Clervaux tocca anche noi: <Come pensi di dare un posto in te al Signore che viene?>. E la risposta ci riguarda: <La larghezza d’animo, è l’amore a fare posto al Signore>. Il Signore che viene ricrea il mondo riprendendo e radicalizzando i gesti della creazione che sono un atto continuo di separazione che permette, così, di dare identità e creare relazione rinnovando ogni cosa <con il suo amore> (Sof 3, 17). Per ognuno di noi si rinnova la sfida di passare dalla questione di <chi sono> a quella <cosa posso fare> per imparare ad essere. Il Signore è vicino con le sue promesse sapremo noi avvicinarci a Lui con le nostre scelte?!

Attendre… faire

III Dimanche du T.A. 

La question posée à Jean Baptiste de la part de ceux qui se sentent vraiment interpelés par sa prédication est celle que la Liturgie de ce jour nous demande de faire nôtre : ” Que devons-nous faire ? ” ( Lc 3, 10 ). Par cette question si concrète, notre chemin d’Avent fait un pas, non seulement nécessaire, mais aussi essentiel pour que l’attente du Seigneur coïncide avec le fait de Lui  accorder une place concrète dans notre existence quotidienne et dans nos relations ordinaires. Dans le texte de Luc, la question revient trois fois : posée par la ” foule” , répétée par un groupe de ” publicains ” ( 3, 12 ) et même par quelques ” soldats ” ( 3, 14 ). Alors que ces groupes prennent forme sous nos yeux de lecteurs ou d’auditeurs, l’espace s’élargit amplement et inclusivement pour nous aussi, laissant  une place à la question  qui surgit de notre coeur : ” Que devons-nous faire ? “. Ceci est le premier pas pour nous demander, avec l’aide des autres, qui nous voulons être en cherchant une orientation toujours plus claire à notre façon d’agir.

La seule manière d’attendre le Seigneur et de préparer efficacement et réalistement son chemin  est de partager sa propre vie – à partir de ses aspects les plus pratiques et matériels – afin de rejoindre une communauté de marche, de désirs, d’aspirations. Croire c’est agir et agir caractérise la foi dans le sens qu’elle augmente en exprimant son visage le plus authentique. Les réponses de Jean sont simples et ont tout à fait l’air d’être seulement un rappel à ce qui ne fait pas de bruit et se confond de façon toute naturelle et silencieuse avec les replis de l’Histoire de tous et de  toujours : ” Celui qui a deux tuniques, qu’il en donne une à celui qui n’en a pas et que celui qui a de quoi manger, fasse de même ” ( 3, 11.) Ou encore : ” N’exigez rien de plus que ce qui vous a été fixé ” ( 3, 13 ). Et encore : ” Ne maltraitez pas…contentez-vous ” ( 3, 14 ). L’on se croirait dans la même situation que celle du jeune homme riche à qui le Seigneur Jésus répond d’un même ton en le mettant en difficulté. Et pourtant, aucune route ne pourra s’ouvrir ainsi pour l’avènement du Règne de Dieu si nous ne commençons par aplanir l’entrée de notre maison pour qu’elle soit douce et avenante, ouverte et simple.

L’apôtre Paul reprend l’attitude de Jean par une parole qui donne de la saveur à ce dimanche : ” Soyez toujours heureux dans le Seigneur…que votre amabilité soit remarquée par tous ” ( Ph 4, 4-5 ). La sérénité recommandée par l’apôtre Paul n’est pas l’indifférence superficielle des ingénus ou des rusés, mais c’est un acte de foi. Si nous vivons dans la confiance en Dieu, nos préoccupations, nos épreuves ne disparaîtront pas magiquement, mais, nous pourrons atteindre dans notre communion en Dieu la force nécessaire pour faire ce qui est bon et pour vivre ce qui est juste. La question par laquelle Saint Bernard secouait ses moines dans les froides matinées de Clervaux nous concerne nous aussi : ” Comment penses-tu donner une place en toi au Seigneur qui vient ?” . Et la réponse nous concerne : ” la largesse d’âme, c’est l’amour qui permet de donner une place au Seigneur “. Le Seigneur qui vient recrée le monde en reprenant et en ancrant les gestes de la création qui sont un acte continuel de séparation qui permet ainsi de donner une identité et de créer une relation rénovant chaque chose ” par son amour ” ( Sop 3, 17 ). Pour chacun de nous se renouvelle le défi de passer de la question ” qui suis-je ” à ” que puis-je faire ” pour apprendre à être. Le Seigneur est proche avec ses promesses, saurons-nous nous approcher de Lui par nos choix ?!

Attendere… come fiaccola

II settimana T.A.

Questa seconda settimana di Avvento si conclude con l’immagine forte e così ambivalente del fuoco. Di Elia, sulla cui falsariga viene presentata la figura del Battista, si dice che <la sua parola bruciava come fiaccola> (Sir 48, 1). Con quest’immagine si indica magnificamente non solo la bellezza e l’utilità di una fiaccola che arde, ma pure il fatto che si accetti di coinvolgere la propria vita in questo ministero di illuminazione accettando di consumare se stessi: nessun fiaccola può ardere e illuminare senza che qualcosa si consumi e in certo modo accetti di morire e di offrirsi. L’evangelista Giovanni ci parla del Battista, quale amico dello sposo, proprio così: <era una lampada che arde e risplende> (Gv 5, 35) e in tal modo evoca assieme al legame di intimità che unisce il Precursore all’Atteso anche il prezzo di dedizione e di autodonazione che ogni vera attesa e ogni autentica preparazione esigono. Inoltre, ogni fiaccola rimanda alla volontà di lasciarsi illuminare e scaldare dalla e alla sua presenza e di questo si fa testimone lo stesso Signore quando, rispondendo alla domanda dei suoi discepoli, afferma: <Elia è già venuto e non l’hanno riconosciuto; anzi hanno fatto di lui quello che hanno voluto. Così anche il Figlio dell’uomo dovrà soffrire per opera loro> (Mt 17, 11).

Siamo chiamati anche noi ad accogliere la presenza del Verbo nella nostra vita come luce e come fuoco capace di trasmettere il suo calore e la sua fiamma alla nostra stessa vita rendendola una fiaccola che si offre liberamente e gratuitamente senza mai imporsi eppure sempre disponibile chiunque si esponga alla sua luce e voglia approfittare del suo calore. In particolare, siamo invitati a illuminare, purificare, infuocare la nostra parola mettendola continuamente in contatto con questa presenza che ci abita e che ci permette di bruciare d’amore. Sapremo andare incontro al Cristo che viene come si va incontro ad un fuoco lasciando che consumi ogni nostra grande e piccola tenebra trasformando così interamente la nostra vita se non in fuoco almeno in un raggio di luce o in una scintilla.

La domanda che i discepoli pongono a Gesù viene espressa nel contesto particolarissimo della discesa dal monte della trasfigurazione ove hanno visto il Maestro con Mosè ed Elia. È chiaro che Gesù è il Messia atteso e questo, nella logica delle attese messianiche, presuppone il ritorno di Elia. Ma quale Elia si attende? Quello <glorioso> (Sir 48, 4) capace di sterminare i sacerdoti di Baal o il più umile profeta soccorso da angeli e da corvi nel deserto di un’amara depressione e paura unita ad un senso di isolamento e di superiorità, che infine incontra sull’Oreb un Dio così diverso da quello del monte Carmelo <nel sussurro di una brezza leggera> (1Re 19, 12)? Le figure evocata dalla Liturgia a metà del nostro cammino di Avvento non ci sono offerte solo per onorarle e farne memoria, ma soprattutto come ispirazione per discernere che cosa realmente attendiamo e per verificare come concretamente attendiamo. La memoria del Battista come quella di Elia ci rimandano alle esigenze di una profonda conversione il cui senso profondo si può riassumere in una frase suggestiva con cui Henry McCabe riassume la sfida dell’intero vangelo: <Se ami sarai messo a morte, se non ami sei già morto>.

Attendere… attenzione

II settimana T.A.

Il male cronico della nostra vita è legato fondamentalmente alla nostra incapacità di guardare la realtà “attraverso” senza lasciarci ingannare e appiattire da una visione superficiale. Il guardare e il considerare la realtà senza profondità ci fa rischiare di sentire in modo apparentemente forte, ma talmente esteriore da non essere reale. Persino esperienze ed emozioni così forti come il ridere e il piangere possono essere segno che siamo veramente vivi, oppure esattamente il contrario che siamo già morti alla sensibilità interiore che è capace di cogliere la realtà sapendone indovinare lo spessore e portarne il peso. L’invito alla conversione che ancora una volta ci raggiunge attraverso la Parola è a divenire capaci di andare oltre le apparenze e ciò non può che costare fatica perché esige un di più di attenzione e una disponibilità ad andare oltre le proprie impressioni o, peggio ancora, quelle degli altri: <Ecco un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori> (Mt 11, 19).

Il profeta Isaia con la sua consueta forza ci invita a dare un minimo di <attenzione> (Is 48, 18) in più per cogliere la realtà per ciò che in essa conferma i nostri preconcetti e pregiudizi, ma per quanto ci chiede di imparare vedendo e ascoltando in modo più profondo. L’Avvento può veramente diventare una scuola di rieducazione dei sensi e in particolare della vista e dell’udito. Come afferma Romano Guardini parlando del Signore Gesù <Egli è la luce del mondo ma è anche segno di contraddizione e lo è per ciascuno di noi. Tutti siamo esposti al pericolo dello scandalo, lasciamo che sia risvegliato il nostro cuore e la nostra volontà per non soccombere>1. Lo scandalo da cui oggi il Signore ci chiede di prendere una certa distanza è proprio quel modo di guardare e ascoltare la realtà con atteggiamento capriccioso. Essere capricciosi è proprio di chi non riesce a esiliare se stesso dal centro del mondo, rischiando così di costringere il mondo ad esiliarsi da noi fino a lasciarsi tremendamente isolati.

Inutile lamentarsi con Dio, col mondo, con gli altri e persino con se stessi, se mai si accetta di essere guidati <per la strada> (Is 48, 17) che conduce alla vita e che esige, da parte nostra, una scelta di campo che non può essere il semplice omologarsi al sentire comune. Senza una certa capacità di distanziarsi dai luoghi comuni non potrà mai crescere in noi quella persona libera e responsabile che siamo chiamati a diventare attraverso un ascolto profondo e senza pregiudizio. La <sapienza> di cui ci parla il Signore Gesù identificandovisi è come un albero che ha bisogno di profonde radici per dare <frutto a suo tempo> (Sal 1, 3). Mentre già pensiamo all’albero di Natale da allestire nella nostra casa, forse potremmo dedicare un po’ di tempo al nostro albero interiore che ha bisogno forse di un po’ di attenzione per essere capace di <attenzione> (Is 48, 18).


1. R. GUARDINI, Prières théologique, Solesmes, Genève 2007, p. 39.

Attendere… la risposta

II settimana T.A.

La parola del Signore ci mette di fronte al grande paradosso della logica del Regno di Dio ove il più grande è il più piccolo. Il riferimento ammirato nei confronti del Battista non comporta un isolamento di questa figura nel senso di una eccezionalità che distingue e separa, al contrario quanto più si è prossimi al cuore di Dio tanto più si è solidali con tutti e specialmente con i più poveri e i più piccoli. Lo stesso nome del Precursore significa <Dio fa grazia> ed è proprio di questo che il Battista è testimone unico con la sua parola e la sua vita che è capace di perdere la testa nel duplice senso: morire ma, ben prima, di mettere tutte le proprie risorse a servizio dell’annuncio di una via nuova per incontrare il Signore. Giovanni prepara la strada a quella che, paradossalmente, possiamo definire la violenza della grazia. Del resto è esattamente quello che troviamo nella prima lettura di quest’oggi: il profeta Isaia ci parla di una tenerezza di Dio spinta fino alla capacità di trasformarsi e trasformare in <trebbia acuminata, nuova, munita di molte punte> (Is 41, 15).

Gregorio Magno si pone una serie di domande rileggendo questo testo evangelico: <Come può subire violenza il regno dei cieli? Chi può farla questa violenza? E se il regno dei cieli può essere esposto alla violenza, perché lo è solo dal tempo del Battista e non da prima?>. Ed è lo stesso papa che offre una possibile risposta: <Fratelli carissimi… riflettiamo anche noi su tutto il male che abbiamo fatto: impadroniamoci dell’eredità dei giusti attraverso la penitenza. Il Signore vuole accettare questa violenza da parte nostra. Egli vuole che ci impadroniamo in tal modo del Regno che non ci era dovuto in base ai nostri meriti>1. E per meriti sono da intendere proprio la nostra risoluzione ad entrare e rimanere nel numero di quei <piccoli> fuori dal quale non è possibile aprire realmente al dono della salvezza che ci viene gratuitamente donata.Il Regno subisce violenza ogni volta in cui il nostro desiderio di Dio è capace di forzare il suo cuore per sperimentare l’interezza infinita di quella misericordia e di quella tenerezza di cui Isaia ci parla con toni appassionati: <non temere vermiciattolo di Giacobbe… tuo redentore è il santo di Israele> (41, 14). Questo titolo divino fa parte del vocabolario della salvezza: indica Dio come colui che porta a compimento l’opera di riscatto pagando di tasca propria il prezzo della nostra liberazione. Se Dio paga per noi il prezzo del nostro riscatto per renderci liberi come ha fatto ai tempi del grande Esodo, è chiaro che non possiamo rimanere insensibili a questo gesto di compromissione di Dio con la nostra vita e ciò esige un personale appassionato coinvolgimento nel dramma della salvezza che ancora ha bisogno di essere realizzato per tanti uomini e donne e che, forse, non ha ancora portato il suo frutto pieno nel nostro cuore.


1. GREGORIO MAGNO, Omelia per l’Avvento, n° 20.

Attendere… da discepoli

II settimana T.A.

Mentre il profeta riesce ad esprimere il nostro timore più profondo e più inquietante che nasce dal dubbio che la nostra vita sia nascosta – e quindi come indifferente – al cuore di Dio, il Signore Gesù ci conforta senza per questo evitarci il peso che la vita con le sue esigenze rappresenta per tutti e per ciascuno. Le parole con cui il Signore conforta e sostiene il nostro cammino di vita sono semplici e, al contempo, essenziali: <Venite a me… il mio peso è leggero> (Mt 11, 28.30). A quest’affermazione del Signore Gesù fa eco la domanda espressa dal profeta Isaia: <A chi potreste paragonarmi, quasi che io gli sia pari?> (Is 40, 25). Queste due parole che la Liturgia ci offre oggi possono essere accolte come i binari su cui far viaggiare, in tutta sicurezza e sostenuta velocità, il treno della nostra discepolanza. Per noi si tratta di farci imitatori del nostro Maestro e Signore. Un maestro di vita spirituale così rammenta: <La prima venuta, nella quale Dio si è fatto uomo, è vissuto in umiltà ed è morto per amore per noi, dobbiamo prenderla a modello, coltivando nel comportamento esterno i modi perfetti delle virtù, e dentro di noi la carità e vera umiltà>1.

Questo cammino di imitazione è possibile per quella infinita condiscendenza di Dio verso la nostra umanità che lo ha portato ad assumerne tutta la fragilità conferendole così rispettabilità ed onore. Perciò il rimprovero del profeta ci riguarda: <Perché dici Giacobbe, e tu, Israele, ripeti: “La mia via è nascosta al Signore e il mio diritto è trascurato dal mio Dio> (40, 27). Al contrario tutta la rivelazione e in modo del tutto particolare nelle parole e nei gesti del Signore, ci viene ricordato quanto e come non solo il Signore ci solleva, ma è perfino capace di portare con noi e per noi il peso della vita, così da farci sentire il bisogno e la gioia di offrire lo stesso servizio di consolazione e conforto ai nostri fratelli e sorelle in umanità, normalmente gravati da pesi che li rendono <stanchi e oppressi> (Mt 11, 28) perfino sotto la maschera della trasgressività. No, la via del nostro vivere e del nostro soffrire non è nascosta al Signore, anzi <egli dà forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato> (Is 40, 29).

La disponibilità del Signore a farsi compagno di tribolazione e sostenitore di speranza, obbliga ad un serio e rigoroso discernimento per comprendere quando alle fatiche normali e imprescindibili della vita ne aggiungiamo, più o meno consciamente, di inutili e dannose. Mentre i nostri passi si avvicinano ad una rinnovata contemplazione del mistero di un Dio che si fa bambino, ci viene richiesto un passo ulteriore di lucidità su noi stessi assolutamente necessaria per compiere quei passi di carità cui siamo chiamati. Il <giogo>, che nel giudaismo evoca la gioiosa sottomissione alle esigenze della fedeltà alla Torah, diventa per il Signore Gesù la memoria di un Dio che accetta di condividere più che infliggere un peso. Come discepoli siamo chiamati a fare altrettanto, tenendoci risolutamente lontani da ogni forma di pesantezza e di appesantimento.


1. J. VAN RUYSBROEK, Lo splendore delle nozze spirituali, 1.