Se corriger

XXVII Dimanche du T.O. 

Comment ne pas être émus face à ce Dieu pensif dont nous parle la première lecture de ce dimanche ? Un Dieu qui, au lieu  de se prélasser dans l’auto admiration narcissique face à sa splendide création, est capable d’en découvrir les limites et a l’humilité de compléter son l’oeuvre et même d’en corriger le tir. De cette manière, Dieu révèle magnifiquement l’essence de son être d’amour  continuellement attentif au monde extérieur de lui, qui  émane pourtant de lui : un Dieu attentif à l’autre, au crée, lui qui est Autre et Créateur. Notre Dieu n’a ni peur, ni honte de devoir se corriger, car c’est seulement ainsi qu’il pourra demander à ses créatures de prendre  continuellement le chemin de la conversion. Le Seigneur Jésus  – dont ” Adam ” est ” l’image ” ( Rm 5, 14 ) – porte à son accomplissement cette révélation, lorsque, face à toutes les chicaneries juridiques possibles, il essaie d’emmener le coeur de ses interlocuteurs ” au début de la création ” ( Mc 10, 6 ). Alors que nous pourrions nous attendre à la quintessence d’une perfection absolue, nous sommes reconduits à l’instant où notre Dieu dit avec grande humilité : ” Il n’est pas bon que l’homme soit seul, je veux lui donner une aide qui lui corresponde ” ( Gn 2, 18 ). Dans les versions grecques de la Bible d’Aquila et de Simmaco, l’expression de Gn 2, 18 résonne en ces termes : ” Il n’est pas bon que l’homme soit monachos ” ! Cela pourrait ressembler à une solennelle et autoritaire désapprobation de la vie monastique, mais, en réalité, c’est une reconnaissance profonde de la finalité et du sens de toute vie humaine – dans toutes les circonstances vécues ou choisies délibérément – elle est appelée à se vivre dans processus d’humanisation qui ne peut se donner qu’à travers la relation. Au ” début de la création “, du moins dans la logique  de la seconde version que la Genèse nous rapporte, il semble que Dieu a pensé être suffisant du point de vue relationnel pour assurer le processus d’humanisation de  l’Adam original… Mais, ensuite, Il se rend compte du besoin d’une médiation plus voisine, qui soit une ” aide ” plus proche et qui lui ” corresponde ” ( Gn 2, 18 ) de façon plus directe. De cette inspiration, le Seigneur Jésus nous en a donné la preuve dans son incarnation et dans la capacité d’assumer entièrement les risques : ” celui qui a été abaissé un moment au-dessous des anges, nous le voyons couronné  de gloire et d’honneur, parce qu’il a souffert la mort, il fallait que, par la grâce de Dieu, au bénéfice de tout homme, il goutât la mort . ” ( He 2, 9 ) Pour cela, le Seigneur Jésus qui ” n’a pas honte de les appeler frères ” ( 2, 11 ) demande aux hommes et femmes de tous les temps – y compris du nôtre – d’être capables d’aller au-delà de ce que ” Moïse a prescrit pour la dureté de votre coeur “.

Però

XXVI settimana T.O.

L’evangelista Luca annota con cura ciò che potremmo definire un momento di entusiasmo pastorale dei discepoli reduci dalla loro prima esperienza missionaria: <i settantadue tornarono pieni di gioia> (Lc 10, 17). È ciò che sentiamo e viviamo anche noi tutte le volte in cui sperimentiamo la bellezza di un evento che riesce, di una parola che viene accolta, di un’intenzione che riesce a realizzarsi con il concorso di tutti e la gioia di ciascuno. I discepoli sono entusiasti: <Signore, anche o demòni si sottomettono a noi nel tuo nome>! La reazione del Signore Gesù potrebbe sembrarci disfattista: <Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli> (10, 20). In realtà non si tratta di disfattismo, ma della preoccupazione del Maestro di preservare i suoi discepoli dal pericolo di identificare i motivi della propria gioia con il successo del loro ministero. Se ci dev’essere grande gioia nel constatare che il proprio annuncio è accolto, il segreto della gioia deve radicare in quella segreta e radicale certezza di essere nel cuore di Dio come dei <piccoli> (10, 21).

La conclusione della lettura liturgica del libro di Giobbe ci riporta a questo stesso mistero. Il testo dice che <Il Signore benedisse il futuro di Giobbe più del suo passato> (Gb 42, 12). Tuttavia, il presente non è come il passato e la conclusione della vicenda di Giobbe non è semplicemente la restaurazione della condizione previa con l’aggiunta di una sorta di risarcimento danni! Il doloroso cammino di Giobbe non è, di certo, una passeggiata è un vero processo di purificazione ed illuminazione che cambia il suo rapporto con la vita. Infatti, troviamo alla fine di questo cammino tormentato non semplicemente una restituzione, ma anche un profondo cambiamento che riguarda proprio e sole le tre figlie femmine. La prima cosa da notare e da sottolineare è l’evocazione del nome delle figlie e non quello dei figli: <Alla prima mise nome Colomba, alla seconda Cassia e alla terza Argentea> (Gb 42, 14). Come se non bastasse viene sottolineata dal testo un’altra grande novità: <In tutta la terra non si trovarono donne così belle come le figlie di Giobbe e il loro padre le mise a parte dell’eredità insieme con i loro fratelli> (42, 15).

Il cammino doloroso di Giobbe ha cambiato oltre che segnato il cuore di quest’uomo che se era giusto già all’inizio del libro, è, di certo, più umano alla fine. La sua esperienza lo ha reso più sensibile ai <piccoli> di cui parla il Signore Gesù nel Vangelo ed ha acutizzato la sua sensibilità per coloro che normalmente sono messi al secondo posto o sono, talora, completamente dimenticati. Così pure l’annuncio del Vangelo non può essere mai identificato con il successo dei numeri o degli applausi, ma nelle misura in cui ci rende sempre più <piccoli> e sempre più sensibili ai <piccoli>. Quando questo avviene, allora si compie ancora la parola del Signore: <Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore> (Lc 10, 18). Il gioco che Satana ordisce all’inizio del libro di Giobbe viene radicalmente vinto dalla ritrovata fiducia tra il Creatore e le sue creature.

Piccolino

San Francesco

Alla fine del suo testamento Francesco parla di sé come <piccolino> e in questo modo rivela quanto la parola del Vangelo abbia formato la sua vita trasformandola radicalmente. Come la goccia che scava persino la roccia, lo scalpello della parola del Vangelo ha permesso allo scultore divino, con mano ferma e dolcissima, di spogliare, giorno dopo giorno, quest’uomo offertosi interamente all’Amore, di tutto ciò che era in più per liberare l’uomo nuovo, l’uomo vero, l’uomo recuperato alla bellezza di un’armonia ritrovata. Le parole del Signore Gesù si cono magnificamente compiute in Francesco: <hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli> (Mt 11, 25). Sul giaciglio di morte Francesco si fa portare, in un codice che contiene tutta la Bibbia, il Vangelo perché lo possa ascoltare ancora una volta. Non riceve come Benedetto il viatico dell’Eucaristia, ma quello del Vangelo e, sacerdote del Nuovo Testamento senza essere ordinato presbitero, assolve oltre che benedire i suoi fratelli. In tal modo Francesco rivela, alla fine della sua vita, la consapevolezza di una conformazione a Cristo di rara profondità che gli permette di fare sue le parole dell’apostolo: <quando a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo> (Gal 6, 14). Una vita conformata che diventa capace di confermare nella fede i propri fratelli.

In Francesco possiamo contemplare e imparare la via di una conformazione discepolare a Cristo Signore che comincia sempre con il passo necessario della spoliazione da tutto ciò che fa da schermo alla luce trasformante del Vangelo al cui calore siamo chiamati a far sciogliere tutto ciò che in noi rende vana la logica trasformante della croce di Cristo. Claudel, in uno dei suoi tre inni dedicati al santo di Assisi, lo definisce <un uomo ebbro>. Si tratta dell’ebrezza di un amore ritrovato dopo essere stato a lungo cercato che permette a Francesco di riconciliarsi col suo essere <piccolino> fino ad accettarsi serenamente come una creatura tra altre creature. Dopo aver vaneggiato la gloria del cavaliere fino a rischiare lo squilibrio della mente, del corpo e dello spirito, Francesco ha sposato la sua povertà di creatura trovando la gioia e la pace che non si possono acquistare, ma che sempre si possono condividere con tutti. Sempre Claudel dice che <Dio lo fa passeggiare come in paradiso nel mistero delle creature naturali>. In Francesco possiamo ammirare e desiderare la possibilità sempre aperta di ritrovare in noi stessi il neonato e lo sposo.

Solo dopo aver sposato la sua povertà ed essersi riconciliato con la sua vulnerabilità Francesco ha cominciato a danzare la vita in una pienezza, da sempre desiderata e finalmente trovata. Sposata la propria umanità, il piccolino d’Assisi ha conosciuto la gioia impagabile di essere stato sposato dall’amore dell’Altissimo. Paul Claudel lo dice magnificamente: <è requisito perché serva nella sua carne al Crocifisso>. 

Mandati

XXVI settimana T.O.

La liturgia della Parola di oggi mette sotto i nostri occhi due figure: Giobbe e il discepolo mandato da Gesù <avanti a sé in ogni luogo dove stava per recarsi> (Lc 10, 1). Nel terribile lamento/protesta di Giobbe possiamo scorgere il grande coraggio di dire senza tema: <Io!> (Gb 19, 25.27). Nel dolore e attraverso il dolore, Giobbe diventa una persona che può prendere la parola e osare di prendere posizione davanti a Dio e davanti alla vita. Quest’uomo, che ha perso tutto e non può più contare su quei beni che gli davano sicurezza e prestigio e – ancora più duramente – non può più contare su nessuno, arriva ad implorare: <Pietà, pietà di me almeno voi miei amici> (Gb 19, 21). Un’implorazione che, a giudicare dall’atteggiamento saccente di quanti vengono a trovarlo, rischia di cadere miseramente nel vuoto. Nella tribolazione persino gli amici di un tempo sembrano spargere il sale della loro presuntuosa sapienza sulle brucianti ferite di un uomo su cui si abbatte la sventura da ogni parte. Eppure, Giobbe mostra di conservare la sua dignità persino in un momento in cui tutto sembra remare contro la sua vita. Questa dignità si manifesta nella forza di sperare e di gridare a dispetto di tutto e di tutti: <Io lo vedrò, io stesso!> (19, 27). Un testo che la tradizione liturgica e spirituale usa nel contesto della proclamazione della propria speranza nella risurrezione al momento delle esequie. Un’audacia a cui dobbiamo conformare il nostro stesso cuore ogni volta che anche noi possiamo dire come un grido di protesta: <perché vi accanite contro di me, come Dio, e non siete mai sazi della mia carne?> (Gb 19, 22). Questo grido di protesta e di speranza può accompagnare le nostre esequie del quotidiano, quei momenti di cui l’intera vita è costellata e in cui siamo costretti a vedere morire qualcosa di noi: illusioni, sogni, rapporti…! Nonostante queste morti dobbiamo essere ancora e sempre capaci di vivere la cosa più importante: vivere anche le nostre morti in prima persona, senza delegare e senza ripiegarci. Giobbe, che pure si sente non solo abbandonato da Dio ma pure ingiustamente perseguitato da Lui, riesce a non perdere il contatto con se stesso, riesce malgrado tutto e attraverso tutto a non deporre e a non abdicare alla propria speranza: <Questa mia speranza è riposta nel mio seno> (19, 27). Noi tutti siamo come dei “Giobbe” che il Signore invia davanti a sé per preparare la strada all’evangelo. Come i <settantadue discepoli> (Lc 10, 1) siamo inviati e invitati a non perderci in chiacchiere, ma a tirare diritto per la strada della testimonianza: <non salutate nessuno lungo la strada> (10, 4) e ancora <non passate di casa in casa> (10, 7). La via dell’evangelo la si spiana con la capacità di non perdersi in chiacchiere e convenevoli, ma nella disponibilità e nella decisione di mostrare fino in fondo il proprio “Io” libero e spoglio da ogni inutile accessorio: <non portate né borsa, né bisaccia, né sandali> (10, 4). Questa povertà di fondo è la garanzia per essere accolti non per quello che portiamo con noi, ma, eventualmente, mettendo in conto di essere decisamente rifiutati per quello che portiamo dentro noi stessi, infitto nella nostra carne e sul nostro volto, impresso <con stilo di ferro sul piombo> (Gb 19, 24) e che si riassume in un solo annuncio testimoniato con la nostra stessa vita: <il regno di Dio è vicino> (Lc 10, 11). Questa vicinanza/prossimità del Regno ha un prezzo: la disponibilità ad attraversare con forza l’esperienza della lontananza “accanita” di Dio. Fino a che non si sperimenta la morsa dei <lupi> (10, 3) i quali cercano di convincerci del valore della forza e fino a quando non sappiamo – fattivamente – contrapporre la natura risorta di <agnelli> non potremo vedere il Regno di Dio, non potremo dire in verità e fino in fondo senza paura alcuna e in piena, splendida e fiera nudità: <Io> (Gb 19, 10).

Trasgressione

Santi Angeli custodi

Il Catechismo della Chiesa Cattolica non dimentica di parlare degli angeli e lo fa in questi termini: <Gli angeli, come gli uomini, creature intelligenti e libere, devono camminare verso il loro destino per una libera scelta e un amore di preferenza>1. Il Concilio Vaticano II, parlando della Chiesa, a sua volta non dimentica di evocare queste figure e lo fa con queste parole: <in comunione con tutta la Chiesa pellegrinante veneriamo gli angeli e innalziamo lodi a Dio che ci conceda il loro potere di intercessione>2. Sembra dunque che gli angeli non siano poi così distanti da noi e che non siano poi così diversi da noi per quelle realtà essenziali che fanno la nostra umana avventura. Come loro, dobbiamo camminare verso una capacità sempre più matura di scegliere e costruire il nostro destino, perché sia segnato da <un amore di preferenza> che non può mai e in nessun modo venire imposto, ma ha bisogno di essere continuamente riscelto. Inoltre, la loro intercessione ci assicura della loro comprensione. Gli angeli comprendono il nostro cammino e la nostra fatica di fedeltà e di amore e si offrono a noi non solo come esempi, ma come alleati e complici del nostro pellegrinaggio di fede, di speranza e di amore. In una parola ci sostengono nel travaglio di corrispondere alla nostra vocazione fondamentale di creature capaci di conservare la memoria del loro Creatore e di vivere secondo la logica del dono di creazione. Questo dono esige l’impegno personale per tutto ciò che ha bisogno di attenzione, di cura, di comprensione… in una parola di custodia.

Nell’Esodo troviamo una parola forte che ci permette di comprendere il senso profondo di questa relazione invisibile e al contempo così sensibile: <Abbi rispetto della sua presenza, dà ascolto alla sua voce e non ribellarti a lui; egli infatti non perdonerebbe la vostra trasgressione, perché il mio nome è in lui> (Es 23, 21). Il Signore Gesù conferma questa parola rivolta dall’Altissimo al suo popolo mentre è in cammino nel deserto e diventa un invito chiaro ad evitare con sommo impegno la più terribile delle trasgressioni: quella di voler primeggiare e di non prendersi cura di ciò che è più piccolo. Con una parola così solenne, il Signore Gesù sembra ricordarci che bisogna stare sempre dalla parte dei più piccoli: <Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli> (Mt 18, 10). Questo stare dalla parte di ciò che è piccolo significa impegnarsi in un cammino di continua conversione per evitare di cadere nella trasgressione madre di tutte le trasgressioni che si esprime in quella domanda dei discepoli che abita pure il nostro cuore di discepoli: <Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?> (Mt 18, 1). La memoria degli angeli ci aiuta a non proiettare sul cielo le nostre domande e le nostre angosce, ma ad accogliere sulla terra delle nostre relazioni la logica di cui gli angeli vivono in cielo partecipando così alla loro serenità e alla loro gioia.


1. Catechismo della Chiesa Cattolica, 311.

2. Lumen Gentium, 49.

Preparare

XXVI settimana T.O.

Ciò che il Signore chiede ai suoi discepoli è ciò che chieda ancora alla sua Chiesa nell’oggi della storia: <preparargli l’ingresso> (Lc 9, 52). Perché questo possa realmente ed efficacemente avvenire bisogna che i discepoli si lascino ispirare dal Maestro che <Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme> (9, 51). Il Signore decide di camminare decisamente verso il compimento della sua missione nel mistero pasquale che si sarebbe consumato a Gerusalemme. Come discepoli dobbiamo ogni giorno investire il meglio delle nostre energie nel preparare la strada perché la rivelazione di un così grande amore non cada nel vuoto, ma penetri la terra della nostra umanità fino a radicarsi per germogliare e fruttificare. Per questo – verrebbe da dire solo per questo – la Chiesa è ancora in cammino nella storia ed è chiamata, giorno dopo giorno, a preparare il passaggio del Signore nella vita degli uomini che consuma il tempo dell’attesa e lo apre a quello del compimento.

In questo lavoro di preparazione, Giobbe si fa maestro di sapienza perché modello di pazienza capace di affrontare con decisione le esigenze del proprio cammino di vita non accusando mai nessuno se non se stesso fino a dire: <Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: “E’ stato concepito un maschio”> (Gb 3, 3). L’atteggiamento di Giobbe rende ancora più facile cogliere la differenza radicale tra lo stile del Signore e la reazione dei discepoli: <Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?> (Lc 9, 54). Alcuni antichi manoscritti completano la reazione del Signore al bisogno di Giacomo e Giovanni di punire i samaritani con una parola che suona così: <Voi non sapete di quale spirito siete perché il Figlio dell’uomo non è venuto per perdere le vite degli uomini, ma per salvarle>. Questa salvezza che i discepoli sono chiamati a preparare e ad accompagnare viene vissuta in prima persona dal Signore Gesù con la sua disponibilità ad essere <elevato in alto> (9, 51) con la sua crocifissione. Ciò che il Signore ha appena insegnato ai suoi apostoli lo vive in prima persona e con assoluta intensità: non bisogna sospettare, ma scusare e dare tempo! L’evangelista Luca parla di <ferma decisione> e in questo modo mette in evidenza, attraverso la sacralità del viaggio di Gesù a Gerusalemme, la profondità del suo orientarsi verso il compimento della sua Pasqua che rappresenta l’inizio e l’indizio di ogni possibile esperienza di salvezza. In tal modo l’evangelista pensa alla croce e alla risurrezione/ascensione come unico atto del medesimo amore che si abbassa e si fa servo. 

In conclusione, potremmo dire che il Signore ha portato a compimento il suo cammino fino a dare la sua vita come atto d’amore gratuito e unilaterale che non ammette né discussione né comparazioni. Ora tocca a noi come discepoli e come Chiesa: preparare sì, ma con delicatezza e senza colpi di testa ma con decisione e con stile… naturalmente stile evangelico.