Comprendre

XXV Dimanche du T.O. 

L’apôtre nous propose un critère pour tester, chaque jour, le niveau de notre consentement à l’évangile et ceci non par des paroles mais – selon l’esprit propre à cet apôtre, si peu aimé de Luther -de façon pratique et quotidienne : ” là où se trouve la jalousie et l’esprit de contestation, il y a le désordre et toute sorte de mauvaises actions ” ( 3, 16 ). Si nous relisons la première lecture, il est clair que, si l’intention déclarée par les impies est celle d’évaluer la douceur et la sainteté du juste, en réalité, leurs actions ne sont rien d’autre que l’expression de cette désespérance que la jalousie est capable, non seulement de créer, mais aussi de nourrir de façon régulière et continuelle. Les impies ne se font aucune illusion et ne peuvent se cacher à eux-mêmes le mal qui les dévore comme un feu qui incendie la paille – pour utiliser quelques image que nous retrouvons dans la lettre de Jacques – et pour cela ils se confessent les uns aux autres : ” Traquons donc le juste, puisqu’il nous est inutile, qu’il est contraire à notre manière d’agir, qu’il nous reproche de violer la loi et nous fait une honte de démentir notre éducation ” ( Sg 2, 12 ). En réalité, alors que l’on essaie de mettre  ” à l’épreuve avec violences et tourments ” ( 2, 19 ) le juste, l’on ne fait que tester et démasquer sa propre étroitesse d’esprit et sa propre insuffisance ”  en route, ils avaient discuté entre eux pour savoir qui était le plus grand ” ( Mc 9, 34 ). Les disciples ont des difficultés, comme nous, à se laisser réellement modeler par la parole et les gestes du Seigneur Jésus. C’est pour cela qu’ils réagissent à son annonce solennelle d’échec pascal en tentant de mettre au point le cadre d’un fantomatique succès messianique. Le projet messianique habite secrètement le coeur des disciples pleins de rêves et d’idéalisme qui ne peut supporter ni contempler le contraire auquel le Maître est en train de les préparer sans oublier de se préparer lui-même : ” Le Fils de l’homme sera livré aux mains des hommes et ils le tueront ; mais, une fois tué, il ressuscitera le troisième jour ” ( 9, 31 ). L’évangéliste note quelque chose qui concerne les disciples, mais qui nous concerne aussi si souvent : ” Pourtant, ils ne comprirent pas ces paroles et craignaient de l’interroger ” ( 9, 32 ). Lorsque nous ne comprenons pas ou ne voulons pas comprendre, le Seigneur n’hésite pas à nous interroger et à nous expliquer ultérieurement pour nous mettre en condition de ” tester ” notre ” douceur ” ( Sg 2, 19 ). Il le fait par un geste qui n’a rien de romantique et qui, au contraire, est une sorte de jugement qui exige toujours une conversion profonde : ” Si quelqu’un veut être le premier, qu’il devienne le dernier de tous et le serviteur de tous ” ( Mc 9, 35 ). Et, comme si cela ne suffisait pas, le modèle de service du disciple n’est pas le serviteur, conscient de son propre devoir, mais bien ” le petit enfant ” ( 9, 36 ) qui ne peut servir à grand-chose, si ce n’est à la mesure de la confiance qu’on lui fait et à l’amour qu’on lui donne comme promesse de vie qu’il représente. Tout cela suppose d’accepter le risque d’être garant de ce que l’on ne peut s’imposer soi-même, mais qui ne peut qu’être accueilli en ” l’embrassant “.

Che bel segno!

San Matteo apostolo

Un testo di Beda il Venerabile molto caro a Papa Francesco da cui ha tratto il suo motto episcopale che è divenuto il suo programma pastorale come Vescovo di Roma può aiutarci ad entrare nel mistero di questa festa che ci apre alla contemplazione del mistero di una sequela: <Gesù vide un uomo chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: ‘Seguimi’. Vide non tanto con lo sguardo degli occhi del corpo, quanto con quello interiore della misericordia. Vide un pubblicano e, siccome lo guardò con un sentimento di amore e lo scelse, gli disse: ‘Seguimi’. Seguimi, cioè imitami. Seguimi, disse, non tanto col movimento dei piedi quanto con la pratica della vita. Infatti, “chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato” (1 Gv 2,6). “Ed egli si alzò, e lo seguì”. Non c’è da meravigliarsi che un pubblicano alla prima parola del Signore, che lo invitava, abbia abbandonato i guadagni della terra che gli stavano a cuore e, lasciate le ricchezze, abbia accettato di seguire colui che vedeva non avere ricchezza alcuna. Infatti lo stesso Signore che lo chiamò esternamente con la parola, lo istruì all’interno con un invisibile impulso a seguirlo. Infuse nella sua mente la luce della grazia spirituale con cui comprendere come colui che sulla terra lo strappava alle cose temporali era capace di dargli in cielo tesori incorruttibili (cf Mt 6,20). “Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli”. La conversione di un solo pubblicano ha aperto la strada della penitenza e del perdono a molti pubblicani e peccatori. Che bel segno! Al momento della conversione colui che doveva più tardi diventare apostolo e maestro dei pagani trascina dietro di sé sulla via della salvezza un gruppo di peccatori>1.

Lo stesso papa Francesco nella sua intervista rilasciata un anno fa al direttore de La Civiltà Cattolica paragonava la Chiesa a un ospedale da campo: <Io vedo con chiarezza — prosegue — che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso>

Che i malati siano preferiti ai sani, che i peccatori siano anteposti ai giusti è l’opera grande, discreta e strepitosa del Medico che sana e salva la realtà quotidiana delle nostre vite. Andare e imparare a fare lo stesso è potenza di risurrezione cha fa nuovo il mondo. La misericordia è il filo a piombo, che scenda dal cielo di Dio verso la nostra terra, che ci permette di costruire in modo sicuro e bello <fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo> (Ef 4, 13).


1. BEDA IL VENERABILE, Omelie sui Vangeli, I, 21.

Farsi avanti

XXIV settimana T.O.

Molto prima che l’idea venisse agli apostoli di istituire dei diaconi a servizio della comunità e a sostegno dell’attenzione e dedizione degli apostoli nella loro missione di servizio alla parola, vediamo che questo dinamismo è già in atto attorno a Gesù. La presenza di un gruppo di donne sembra assicurare il buon funzionamento del primo nucleo della Chiesa, ma non va né dimenticato, né tantomeno sottaciuto, il carattere profetico di rottura con quelle che erano gli usi e la sensibilità del tempo. Una profezia che sa inglobare le necessarie rotture e che interroga ancora e sempre il cammino della Chiesa nella storia. La presenza di queste donne accanto al Signore e ai suoi discepoli, fanno la qualità e rappresentano la grande novità della chiesa nascente, non per il particolare e necessario servizio assicurato da sempre e in ogni ambito dalle donne, ma per il ruolo che esse assumono e il riconoscimento che viene loro assicurato.

Il mistero dell’unità e della comunione che porta il frutto così profumato e gustoso di una dedizione piena di compassione e di tenerezza risiede nel fatto che il centro delle relazioni di questo gruppo, non solo diverso – pensiamo alla provenienza e ai temperamenti degli apostoli – ma anche misto, trova il suo centro nell’amore per il Signore Gesù, al cui contatto ciascuno e ciascuna sembra aver ritrovato l’integrità e la serenità con se stesso e con gli altri. La prima diaconia della Chiesa, in cui vivono persone di diversa origine e temperamento, è la testimonianza di una comunione non solo possibile, ma anche veramente posta a servizio di tutti. Se è vero che Gesù sceglie i Dodici e li costituisce per un ministero particolare all’interno e a favore della comunità, rimane pur vero che c’è qualcuno che sceglie Gesù e mette tutta la sua vita al servizio del Vangelo.

Questo piccolo quadretto precede immediatamente il racconto della parola di quelle che sono le avventure del seme offerto e affidato dal seminatore ai vari tipi di terreni. Le donne di cui fa menzione Luca sono tutte donne che hanno sperimentato una guarigione che le rende, in modo del tutto naturale, accompagnatrici e sostenitrici del ministero di guarigione di Gesù e degli apostoli. Il frutto della loro guarigione è una devozione che si fa dedizione come superamento radicale e duraturo dell’egoismo e come postura femminile all’alterità. Fabrice Hadjadj constata che: <Il diavolo non ha viscere. Non accoglie l’altro nel suo cuore come la realtà più cara e amata>. Ciò che nel giardino di Eden il serpente è riuscito a rovinare attorno a Gesù si ricostruisce fino a rifondarsi.

Mentre gli apostoli vengono scelti, queste donne non hanno bisogno di nessuna elezione e di nessuna investitura. La loro esperienza di Cristo che ne tocca la vita così profondamente da guarirle, dà loro tutta la libertà e l’audacia di farsi avanti senza mai mettersi in una posizione diversa da quella che nessuno può loro togliere: il servire! In questo senso corrispondono del tutto naturalmente a ciò che i discepoli stentano a capire e ad imparare. Parafrasando ciò che dice Paolo nella prima lettura <se Cristo non è risorto dai morti…>, si potrebbe dire così <se Cristo non ci guarisce, nessuna testimonianza è autorevole e nessuna diaconia è vivificante>. Proprio le donne non solo si fanno avanti, ma resteranno fedeli al loro posto anche quando gli apostoli lo diserteranno, poiché quella di queste donne è una vocazione che viene da dentro e non da fuori, e il loro mettersi a servizio non è un’idea, è un’evidenza esistenziale che richiama la Chiesa e la discepolanza di ogni tempo e di ogni luogo.

Profeta come?

XXIV settimana T.O.

Come invita il monaco Macario: <Accogliamo il nostro Dio e Signore, il vero medico, l’unico che, venendo da noi, è capace di guarire le nostre anime, lui che ha tanto sofferto per noi. Bussa senza stancarsi alla porta dei nostri cuori perché gli apriamo, così da entrare e riposare nelle nostre anime, perché laviamo i suoi piedi e li cospargiamo di olio profumato e lui faccia in noi la sua dimora>1. Come ci ricorda il Signore Gesù con quell’unica parola rivolta a questa donna che si sdraia ai suoi piedi riversando tutti i gesti dell’amore in un senso di gratitudine immensa, perché qualcuno finalmente le permette di donarsi in piena verità e in piena gratuità: <La tua fede ti ha salvata, va in pace!> (Lc 7, 50). Nel contesto di questo magnifico racconto, che solo Luca ci tramanda e che starebbe bene in un dittico accanto alla parabola del figliol prodigo, potremmo leggere senza tradire il testo: <Il tuo amore ti ha salvata, va’ in pace!>.

Del resto, il Signore lo ricorda severamente al fariseo che lo ha invitato alla sua mensa: <Invece colui al quale si perdona poco, ama poco> (Lc 7, 47). Per il Signore Gesù l’amore si rivela nella sua capacità assoluta e incondizionata non solo di perdonare, ma persino di lasciarsi perdonare. Ed è qui la differenza tra il modo di pensare dei farisei – di cui Paolo fu un fiero e sincero testimone – e la logica del <Vangelo> di cui si fa araldo intrepido. La differenza sta nel fatto di concepire la fedeltà a Dio a partire da una capacità eccessiva di amare e non identificandola con una rachitica volontà di sottomissione alle regole senza essere capaci di comprenderne il senso più profondo. Il fatto che il Maestro si lasci toccare, in modo così sconveniente, da una donna a tutti nota come <peccatrice> (7, 37), induce il fariseo, che pure ha generosamente e gioiosamente invitato Gesù nella sua casa, a dubitare del fatto che egli sia in verità <profeta> (7, 39).

In realtà, come già la folla ha testimoniato dopo la restituzione del figlio alla vedova di Nain, il Signore Gesù è veramente profeta non perché indovina le colpe degli altri e ne rivela i peccati, ma perché sente – in mezzo al putridume più ributtante – il <profumo> (7, 37) che è contenuto nel <vaso>, tanto prezioso quanto fragile, di ogni vita. Il Signore Gesù ci rivela un modo nuovo di essere profeti e ce ne dà la chiave di discernimento: <sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato> (7, 47). Il <Vangelo> che abbiamo ricevuto e che siamo chiamati a trasmettere con fedeltà si basa su un articolo basilare e fondante: <Cristo morì per i nostri peccati> (1Cor 15, 3). Potremmo rileggere questo testo, in cui è racchiusa la più antica professione di fede e il kerygma essenziale del nostro essere discepoli, dicendo che <Cristo ci amò per i nostri peccati>! Tutto questo senza chiudere gli occhi sulle nostre fragilità, ma rivelandosi capace di sentire il buon <profumo> di ciò che siamo nel più profondo di noi stessi, tanto da poter dire a nostra volta con Paolo e con questa donna senza nome che può portare il nostro stesso nome: <la sua grazia in me non è stata vana> (15, 10). Questo perché, nonostante tutto, ho continuato ad amare e a lasciarmi amare.


1. MACARIO D’EGITTO, Omelie spirituali, 30, 9.

Intensamente

XXIV settimana T.O.

Un avverbio è il messaggio fondamentale che riceviamo per il nostro cammino dalla Parola di Dio che ci raggiunge e ci illumina attraverso le Scritture: <desiderate intensamente> (1Cor 12, 31). Indubbiamente l’apostolo Paolo fa riferimento alla necessità di aprirsi sempre di più ad una carità capace di animare e autenticare ogni minimo gesto e ogni minima parola. Eppure, bisogna riconoscere che persino la carità più generosa e più dimentica di se stessa ha continuamente bisogno di essere verificata, quasi certificata da un’intelligenza del cuore senza la quale il rischio è che si trasformi in generosa, ma supponente elemosina. A questo riguardo, la parola del Signore Gesù non fa che rincarare la dose di quella, già abbastanza severa, dell’apostolo Paolo: <A chi posso paragonare la gente di questa generazione? A chi è simile?> ed è il Signore stesso a dare la risposta: <È simile a bambini…> (Lc 7, 31-32). In questo caso il riferimento non è ai <piccoli> ma ai <bambini>!

Ciascuno di noi porta dentro di sé e talora nutre con cura questa parte “bambinesca” che continua a lamentarsi per non prendere mai su di sé la responsabilità della vita, accontentandosi – si fa per dire – di dedicarsi allo sport della continua mormorazione che, in realtà, è un modo sottile ed efficace per sentirsi sempre innocenti e mai responsabili. L’apostolo ci ricorda una verità che fa parte della nostra esperienza quotidiana: <noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio> (1Cor 13, 12). Ciò non toglie che pur nell’incertezza di ogni passo che la vita ci richiede di fare per noi stessi e per gli altri sia necessaria una determinazione e un coraggio senza i quali tutto rischia di essere delegato e continuamente rimandato. Il rischio più grande è quello di rimandare non solo la gioia e il dolore, ma di rimandare la vita, tanto da perderne il senso fino a smarrirlo definitivamente.

La differenza sostanziale tra i <bambini> di cui ci parla il Signore Gesù nella parabola e il <bambino> (1Cor 13, 11) cui fa riferimento Paolo, nella prima lettura, sta nel fatto che mentre i primi non vogliono assolutamente crescere, il secondo è disposto a farlo <intensamente> (12, 31). Nulla di intenso e quindi di degno può accaderci se non coltiviamo una reale e coinvolgente disponibilità a rompere lo specchio dell’incantesimo di noi stessi: <Divenuto uomo, ho eliminato ciò che era da bambino> (13, 11). Se ogni uomo è stato un bambino, non è poi così certo che ogni bambino divenga veramente uomo. La discriminante sta proprio in quel passaggio non facile dal bisogno continuo di essere ascoltati ad una capacità crescente di ascoltare e di accogliere gli altri come un appello. La differenza sta nel superamento del fondamento di ogni atteggiamento capriccioso che consiste nel bisogno spasmodico di essere continuamente visti, per imparare e scegliere, invece, di avere occhi e cuore per gli altri in una carità che non ha niente di piccino, anzi è: <magnanima, benevola… tutto crede, tutto spera, tutto sopporta> (13, 7). Uno dei segni primari ad indicare se si è cominciato o meno questo cammino fino ad accogliere la vita in modo adulto è il non avere più bisogno di giudicare e l’essere sempre più inclini ad ammirare con discrezione.

Come può avvenire tutto ciò se non attraverso un cammino interiore di autentica maturazione che ci rende capaci di desiderare così intensamente da non temere più di giocare alla vita fino a saperci giocare nella vita tanto da non avere paura di giocarci, prima o poi, la stessa vita… intensamente!

Profeta

XXIV settimana T.O.

L’apostolo Paolo ci ricorda come e quanto nella comunità cristiana i carismi e i ministeri siano diversi: <in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri> e aggiunge <poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare in varie lingue> (1Cor 12, 28). Alla fine del Vangelo, la folla acclama il Signore Gesù come il <grande profeta> (Lc 7, 16). L’esultanza della folla rende ancora più parlante il silenzio quasi impietrito di questa <madre rimasta vedova> (7, 12) che porta alla sepoltura il suo unico figlio senza dire una parola, in un silenzio e in un’accettazione del dolore e della morte che toccano il cuore di Cristo Signore volgendolo ad una <grande compassione> (7, 13). Sembra proprio che la sofferenza stessa di questa donna e di questa madre, ormai privata non solo del marito, ma pure del figlio, sia sufficiente a Gesù per sentirsi interpellato vivamente.

La sofferenza nella sua semplice realtà e senza nessun commento fa segno al Signore Gesù e lo costringe a prendere posizione a favore della vita e della gioia. Questa donna non chiede nulla, a differenza di molti altri che si affollano sulle strade percorse dal Signore per chiedergli un aiuto, un sostegno, una consolazione… un miracolo! In questo caso è come se l’evangelista Luca ci volesse far fare un passo in più nella conoscenza del mistero di Dio che si rivela attraverso il cuore compassionevole di Cristo: i suoi gesti e le sue parole non sono solo una risposta alle nostre richieste, ma sono una necessità intrinseca del suo cuore sempre schierato dalla parte della vita e sempre desideroso di salvare il meglio delle nostre umane relazioni. Il silenzio di questa donna, che dopo aver seppellito il marito accompagna al sepolcro il suo unico figlio, rende ancora più ridondante la parola del Signore: <Non piangere!> (7, 13).

Non è raro che – come singoli discepoli e come Chiesa – ci chiediamo in che cosa mai consista il nostro ministero di annuncio del Vangelo. Ebbene sembra che la risposta sia proprio in questa profezia della consolazione e della compassione, capace di schierarsi sempre e comunque dalla parte del dolore e di aprirsi ad un rispetto così assoluto della sofferenza da farne il luogo autenticante di ogni annuncio e la forma imprescindibile di ogni conversione. Il <morto> risponde alla sollecitazione del Signore Gesù: <si mise seduto e cominciò a parlare> (7, 15). Da questa conclusione del Vangelo potremmo imparare che prima di parlare e di pontificare dobbiamo verificare che la nostra parola sia realmente profetica, perché capace di mettere l’altro a proprio agio e di restituirgli fino a potenziare la possibilità di parlare e di dirsi in verità e in totalità. Solo così tutti potranno testimoniare che <Dio ha visitato il suo popolo> (7, 16). L’esortazione con cui si conclude la prima lettura può assumere così una connotazione assai particolare e magnificamente profetica ed evangelica: <Desiderate invece intensamente i carismi più grandi> (1Cor 12, 31). Il più grande di tutti sembra proprio essere la profezia della compassione.

Salvare

XXIV settimana T.O.

L’intenzione e il desiderio di questo centurione è che il Signore Gesù si degni di <salvare il suo servo> (Lc 7, 3). Il racconto termina con una constatazione semplice e chiara: <trovarono il servo guarito> (7, 10). Verrebbe da dire che il desiderio di questo centurione è stato esaudito, eppure sarebbe da aggiungere che se il servo è stato guarito questo è segno di una salvezza che è ben più grande della guarigione. In questo caso il Signore Gesù non vede neanche il malato, né tantomeno si avvicina in alcuno modo al suo letto non potendo né toccarlo, né parlargli, tutto avviene in una sorta di triangolazione della salvezza che fa cadere ogni ambiguità magica. Il contatto senza contatto tra il Signore Gesù e questo <centurione> (Lc 7, 2) raggiunge il suo apice non in un incontro né in una parola diretta, ma in una sorta di contatto a distanza che sembra salvaguardare la differenza e la distanza come cifra di una necessaria trascendenza. Ciò che normalmente nelle guarigioni troviamo come parola spesso accompagnata da un gesto nei confronti del malato e del bisognoso, in questo caso è una parola rivolata ad altri: <Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!> (7, 9).

La guarigione di questo servo sembra essere il segno esterno e visibile di un’esperienza di salvezza vissuto da quel centurione la cui due caratteristiche principali sono le seguenti: da una parte aveva <molto caro> uno dei suoi servi che versa in pericolo di vita, e dall’altra aveva <udito parlare di Gesù> (7, 2). La salvezza, quella vera e profonda che si può vivere persino senza incontrarsi con il Signore, è il frutto di questa duplice attenzione verso ciò che amiamo e ci tocca profondamente nel quotidiano della nostra vita come gli affetti, è una parola capace di portarci un po’ oltre fino a permetterci di contestualizzare le nostre esperienze più forti e più intime in modo più largo per non soccombere alla stretta dei sentimenti e non essere accecati dalla paura di perdere chi o ciò che amiamo. Il centurione soffre per la sofferenza del proprio servo e per il dolore di poterlo perdere da un momento all’altro, ma conserva la sua lucidità nel mandare a chiamare Gesù e nel saperlo fermare perché non entri nella sua casa contaminandosi e quindi creandosi c’ dei problemi: <dì, una parola e il mio servo sarà guarito> (7, 7).

L’apostolo Paolo nella prima lettura ci parla della comunità cristiana colta nel momento della celebrazione della cena del Signore e che sembra aver conservato i gesti di Cristo avendone smarrito il senso più profondo e più vero tanto da far dire: <il vostro non è più un mangiare la cena del Signore> (1Cor 11, 20). La Parola di Dio di quest’oggi ci mette in guardia dal rischio sempre in agguato di abituarci talmente alle cose di Dio da non essere più in grado di entrare veramente in relazione con Dio fino a farci veramente toccare dalla sua presenza e dalla sua parola per sperimentare una salvezza di cui la guarigione e i sacramenti sono segni, ma che non sono tutto. L’esortazione finale dell’apostolo non riguarda soltanto quella che potremmo definire una forma di “educazione liturgica”, ma dovrebbe essere la forma stessa della nostra vita: <aspettatevi gli uni gli altri> (1Cor 11, 33). Il centurione diventa così icona di una capacità di attesa che sa persino rimandare ulteriormente l’incontro con il Signore Gesù a motivo della sua magnifica fede nella potenza della sua parola che è sempre fiducia in una relazione che la distanza non solo non diminuisce ma rischia persino di rendere ancora più efficace. 

Domande

XXIV Domenica T.O.

Domenica delle domande! Nelle tre letture di oggi ricorrono otto domande che potremmo riassumere nelle parole taglienti dell’apostolo Giacomo: <Quella fede può forse salvarlo?> (Gc 2, 14). La salvezza – dice Marco – non è legata alla capacità di dare la risposta giusta – come sembra fare Pietro – o quella più bella – come tenderemmo a fare noi. Si tratta, invece, di farci trasformare interiormente e radicalmente dalle risposte che diamo e che, inevitabilmente, creano domande sempre più profonde e sconvolgenti. Queste esigono una corrispondenza esistenziale tra ciò che proclamiamo a parole e la nostra conformazione a Cristo e alla logica del suo vangelo di servizio e di condivisione della vita. Ogni volta che il Signore ci pone una domanda, richiede da noi non una semplice risposta, ma un passo in più nella sua sequela. Pietro ha risposto bene: <Tu sei il Cristo!> (Mc 8, 29). Gli sembra di aver dato il massimo dei titoli possibili al suo amato Maestro, ma è come se questo riconoscimento sommo non risponda, in realtà, alla domanda posta dal Signore Gesù. Questo perché non corrisponde al cammino interiore di autocoscienza che il Signore sta compiendo dentro di sé camminando con i suoi discepoli, ma anche pellegrinando interiormente verso la comprensione piena della sua missione che è rivelazione di Dio. La reazione alla reazione di Pietro è chiara: <tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini> (8, 33). Il Signore Gesù prende sul serio le nostre risposte, ma ne dispiega il senso profondo, il senso vero, quello preannunciato dai profeti: <Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi> (Is 50, 6). La nostra fede, infatti, rischia di essere un modo per metterci al sicuro da pericoli, più o meno chiari, di cui però sentiamo come il remoto approssimarsi, per cui non ci resta che dire e augurare all’altro che non ci metta – in prima persona – in una situazione difficile da gestire per cui <Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo> (Mc 8, 32). Tutto ciò avviene proprio mentre il Signore Gesù <faceva questo discorso apertamente>. Aprirsi alla fede non significa parare i colpi e ancor meno mettersi al sicuro da possibili fallimenti e disfatte, bensì significa mettersi in cammino e quindi in pericolo: mettersi a rischio condividendo i rischi. Come Pietro, anche noi spesso ci comportiamo “al contrario”: invece di aderire rimproveriamo, invece di seguire vogliamo tracciare la strada, invece di imparare ci sembra di poter insegnare. È così che meritiamo con Pietro di essere chiamati nientedimeno che <Satana> (8, 33): colui che – come nel caso che ci viene narrato nel libro di Giobbe – racconta le cose al rovescio.  

Question

XXIV Dimanche du T.O. 

Dimanche des questions ! Dans les trois lectures d’aujourd’hui, nous trouvons huit questions que nous pourrions résumer par les paroles tranchantes de l’apôtre Jacques : ” Quelle foi peut donc le sauver ? ” ( Jc 2, 14 ). Le salut – nous dit Marc – n’est pas lié à la capacité de donner la bonne réponse – comme semble le faire Pierre – ou la plus belle – comme nous essayerions de le faire nous. Il s’agit, au contraire, de se laisser transformer intérieurement et radicalement par les réponses que nous donnons et qui, inévitablement, entraînent des réponses toujours plus profondes et déconcertantes. Celles-ci exigent une correspondance existentielle entre ce que nous proclamons à haute voix et notre conformité au Christ et  la logique de son évangile de service et de partage de la vie. Chaque fois que le Seigneur nous pose une question, cela demande de notre part, non seulement une simple réponse, mais un pas de plus à sa suite. Pierre a bien répondu : ” Tu es le Christ ! ” ( Mc 8, 29 ). Il pense avoir donner le titre maximum des noms possibles à son Maître bien-aimé, mais c’est comme si cette reconnaissance suprême ne correspondait pas, en réalité, à la question posée par le Seigneur Jésus. Et ceci parce que cela ne correspond pas au chemin intérieur  de prise de conscience que le Seigneur est en train d’accomplir en lui tout en marchant avec ses disciples, mais aussi en pérégrinant intérieurement vers la compréhension entière de sa mission qui est révélation de Dieu. La réaction  à la réaction de Pierre est claire : ” tu ne penses pas selon Dieu, mais selon les hommes ” ( 8, 33 ). Le Seigneur Jésus prend nos réponses au sérieux, mais il en déplie le sens profond, le sens véritable, celui prononcé par les prophètes : ” J’ai présenté mon dos aux flagellateurs, mes joues à ceux qui m’arrachaient la barbe ; je n’ai pas dérobé mon visage aux insultes et aux crachats ” ( Is 50, 6 ). Notre foi, en fait, risque d’être une façon de nous permettre à l’abri des dangers, plus ou moins clairs, mais dont nous sentons une approche lointaine et que nous espérons et souhaitons que cela ne nous concernera pas- personnellement – par une situation difficile comme celle de ” Pierre qui fut pris à l’écart et réprimandé ” ( Mc 8, 32 ). Tour cela arriva justement lorsque le Seigneur Jésus  ” fit ce discours ouvertement “. S’ouvrir à la foi, ne signifie pas éviter les coups et encore moins se mettre à l’abri de possibles échecs et risques. Comme Pierre, nous faisons souvent les choses “à l’envers” : au lieu d’adhérer, nous réprouvons, au lieu de suivre, nous voulons tracer la route, au lieu d’apprendre, nous avons le sentiment de pouvoir enseigner. C’est ainsi que nous méritons, comme Pierre d’être appelés pas moins que ” Satana ” ( 8, 33 ) :  celui qui  dans le livre de Job – raconte les choses à l’envers.

Il viaggio

Esaltazione della santa Croce

La liturgia della Parola ci conduce nel mistero della Croce come luogo di rivelazione ultima e piena del disegno di Dio sulla nostra vita e sul nostro destino. Questa riflessione comincia con un’immagine: <il popolo non sopportò il viaggio> (Nm 21, 4). Fa parte del nostro modo consueto di vivere la Liturgia che sia proprio la croce ad aprire le nostre processioni, da quelle più solenni a quelle più familiari com’è la processione al cimitero quando vi accompagniamo i nostri cari per il loro ultimo viaggio da questo mondo al Padre. Secondo quanto dicono i liturgisti, la croce precede sempre! E potremmo aggiungere: la croce accompagna sempre. Dire questo può, certo, significare l’evocazione di tutta quella serie di croci che segnano il cammino della nostra vita, tanto da essere ormai parte integrante del linguaggio comune anche di quelli che non credono in Cristo, quando ad esempio si dice di qualcuno o a qualcuno: <sei proprio una croce>!

Nondimeno dobbiamo tenere presente che ciò di cui oggi facciamo memoria non sono le nostre croci, ma siamo invitati a contemplare il mistero glorioso della croce di Cristo Signore nel cui fulgore possiamo trovare il senso profondo e vero delle nostre fatiche. Le parole che il Signore Gesù dice a Nicodemo sono sussurrate al cuore di ciascuno di noi soprattutto nei momenti in cui sentiamo il peso della sofferenza, del paradosso, della fatica: <Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui> (Gv 3, 17). Laddove noi sentiamo la “croce” come una potenziale condanna di tutto ciò che riteniamo essere per noi fonte di gioia e di soddisfazione, il Signore Gesù attira la nostra attenzione e ci esorta alla conversione dello sguardo interiore per cogliervi invece un senso più profondo e più vero. Quando il Signore Gesù dice a Nicodemo: <Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo> (3, 13) richiede a ciascuno di noi, come avvenne già per Giacobbe al momento del suo sogno e della sua visione della scala che congiungeva la terra al cielo, di contestualizzare in modo più preciso persino la nostra fatica di viaggiare nella vita in un orizzonte più ampio.

In tal senso la croce, con la sua simbologia così forte, diventa uno strumento di orientamento e una sorta di chiave di senso. La croce di Cristo si offre alla nostra contemplazione in ottica di simbolo tridimensionale. Lo raccogliamo nella dimensione verticale di questo legno innalzato al cielo, a Dio. La dimensione orizzontale, la parte più corta che Gesù carica sulle sue spalle e trascina nel salire, e da cui ci abbraccia e ci costituisce fratelli ai suoi piedi. Per significare la dimensione della profondità, la croce è piantata sulla nostra terra tanto da riconoscere noi stessi nell’uomo che sulla croce soffre e, nell’abbandono, ritrova il senso più profondo della vita nella relazione con il Padre, sperimentiamo già la speranza della realtà della risurrezione. L’apostolo Paolo sembra esultare: <Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome> (Fil 2, 9). Questo nome è <Gesù> che significa <salvezza> ma è anche <Cristo> che significa <unto del Signore> ed è pure <Signore> che indica la sua vittoria sui <serpenti brucianti> dell’egoismo i quali rischiano di trasformare il <viaggio> in una inutile odissea.