Vicino

XXVI settimana T.O.

La reazione del Signore Gesù alla <discussione> (Lc 9, 46) avvenuta tra i suoi discepoli i quali pensavano e forse speravano che il Maestro non se ne accorgesse, prima di essere una parola è un gesto: <prese un bambino, se lo mise vicino> (9, 47). Questo gesto, in realtà, è duplice perché se è vero che questo bambino si ritrova ad essere così vicino a Gesù è anche vero che Gesù vuole ritrovarsi così vicino a questo bambino che sembra preso dalla folla senza nessuna particolare segnalazione né selezione. Con questo gesto cui segue una parola tra le più importanti per il nostro cammino di discepoli e di Chiesa, il Signore Gesù prima di tutto accoglie il bisogno che ciascuno dei suoi discepoli ha di essere <più grande> che, per loro, significava riuscire a dirsi chi era più vicino al Maestro e chi, forse, era destinato a succedergli nella guida del gruppo. A quest’ansia di prestazione e a questo comprensibile bisogno di riconoscimento, il Cristo risponde con una sorta di semplificazione assoluta: <Chi accoglierà questo bambino nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Chi infatti è il più piccolo fra tutti voi, questi è grande> (9, 48).

La liturgia ci obbliga a leggere queste parole del Signore Gesù dopo aver cominciato la lettura del libro di Giobbe che si conclude quest’oggi con una frase portentosa: <In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di ingiusto> (Gb 1, 22). Giobbe è sicuramente un uomo che corrisponde al modello proposto dal Signore Gesù ai suoi discepoli proprio perché accetta di farsi interpellare dalla vita nei suoi momenti più gradevoli come in quelli più dolorosi e incomprensibili con una semplicità che gli permette di subire la prova senza essere disumanizzato dal dolore. Davanti alla sequenza di terribili drammi che avrebbero reso comprensibile almeno un minimo di rivolta, Giobbe dice così: <Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore> (1, 21).

La prova più grande che Giobbe dovrà affrontare sembra non essere quella della sofferenza, bensì la resistenza che dovrà opporre ai suoi tre amici e al saccente Eliu che cercheranno in tutti i modi di indurlo a dubitare di se stesso e di strapparlo così alla sua semplicità che gli permette di accogliere nella vita i momenti più belli unitamente a quelli più dolorosi con quella serenità con cui si accetta di vincere o di perdere in un gioco. Il Signore Gesù cerca di aiutare i suoi discepoli a rettificare il loro modo di pensare alla vita. Invece di essere continuamente preoccupati di come saremo accolti e stimati, siamo chiamati ad accogliere così da imparare a lasciarci accogliere. Giovanni tenta di cambiare discorso forse per superare il rossore della vergogna e cita la questione di questi esorcisti che si fanno forti del nome di Gesù senza essere formalmente suoi discepoli e rischiando così di allargare in numero dei concorrenti. La risposta del Signore è, ancora una volta, chiara, serena, semplificante: <Non lo impedite, perché chi non è contro di voi, è per voi> (Lc 9, 50). Come spiega Ermes Ronchi: <Gesù, uomo senza frontiere, ci ripropone il sogno di un mondo di uomini le cui mani sanno solo donare, i cui piedi percorrono i sentieri degli amici, un mondo dove fioriscono occhi più luminosi del giorno, dove tutti sono dei nostri, tutti amici del genere umano, e per questo tutti amici di Dio>.

Semi

XXVI Domenica T.O.

La reazione di Mosè è un’indicazione e un orientamento per ciascuno di noi e per la Chiesa tutta: <Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito?> (Nm 11, 29). La reazione di Mosè alla presa di posizione di Giosuè può illuminare il cammino della nostra Chiesa in relazione ai “semi del Verbo” – come amavano dire i santi Padri – che sono disseminati nel cuore di tutti gli uomini. Questi semi producono i loro fiori nelle religioni, nelle credenze, nelle culture e negli aneliti di bellezza che attraversano, come un filone d’oro sotterraneo, la storia dell’umanità attraverso le storie degli uomini e delle donne di ogni luogo e di ogni tempo. Non si tratta in nessun modo di relativizzare la verità o di omologare ogni effluvio della verità con la sua essenza: talora il vento porta lontano profumi e aromi la cui origine remota resta segreta. Se non bisogna relativizzare, nondimeno sembra proprio che il Signore ci inviti a non assolutizzare noi stessi identificando l’essenza con l’esperienza. Per questo il Signore reagisce energicamente: <Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi> (Mc 9, 39-40). Naturalmente, non è facile distinguere il limite tra il relativizzare e l’assolutizzare. Per questo il Signore stesso sembra darci un criterio di discernimento che non è teorico, ma assai concreto: <Chiunque, infatti, vi darà un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità, io vi dico, non perderà la sua ricompensa> (9, 41). Mentre Giovanni chiede al suo Maestro di impedire ad altri di appropriarsi del suo nome <perché non ci seguiva> (9, 38), il Signore Gesù risponde dando un criterio di discernimento circa l’appartenenza alla cerchia dei suoi discepoli. Esso non è affatto ideologico, ma la condivisione profonda di atteggiamenti inequivocabili per la loro qualità di umanità e di carità. Il nostro è un <Dio geloso> nella sua infinita misericordia e nel suo immenso amore per ogni creatura: <Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita. Poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose> (Sap 11, 26). Allora la preghiera di ogni discepolo del Maestro Gesù non può che essere l’umile richiesta di essere capaci di ammirato stupore per essere liberato da ogni forma di gelosia che è un <grave peccato> quello – imperdonabile – di voler dirigere lo Spirito dell’Altissimo. Si rende necessario apprendere la gelosia di Dio che difende sempre e ad ogni costo l’autonomia, la libertà, la creatività e la crescita delle sue creature create <a sua immagine e somiglianza>. Non ci capiti di dimenticare il proverbio: <Chi ha raccolto il vento nel suo pugno?> (Pr 30, 4). 

Semences

XXVI Dimanche du T.O. 

La réaction de Moïse est une indication et une orientation pour chacun de nous et pour toute l’Eglise : ” Es-tu donc jaloux pour moi ? Plût à Dieu que tout le peuple fût prophète et que le Seigneur mît son esprit sur eux ! ” ( Nm 11, 29 ). La réaction de Moïse face à la prise de position de Josué peut illuminer le chemin de notre Eglise en relation aux ” semences du Verbe ” – comme aimait le dire les saints Pères – qui sont disséminées dans le coeur de tous les hommes. Ces semences produisent leurs fleurs dans les religions, les croyances, les cultures et les désirs de beauté qui , comme un filon souterrain d’or, traversent l’histoire de l’humanité, à travers les histoires des hommes et des femmes de tous lieux et de tous temps. Il ne s’agit d’aucune façon de relativiser la vérité ou d’homologuer chaque effluve de la vérité avec son essence : le vent alors emporte au loin les parfums et les arômes dont l’origine lointaine reste secrète. S’il ne faut pas relativiser, il semble pourtant que le Seigneur nous invite à ne pas absolutiser en identifiant l’essence avec l’expérience. Pour cela, le Seigneur réagit énergiquement : ” Ne le lui interdisez pas, car personne ne fait un miracle en mon nom et, aussitôt après parle mal de moi : qui n’est pas contre nous est pour nous ” ( Mc 9, 39-40 ). Naturellement, il n’est pas facile de distinguer la limite entre relativiser et absolutiser. Pour cela, le Seigneur lui-même semble nous donner un critère de discernement qui n’est pas théorique, mais assez concret : ” Car quiconque vous donnera un verre d’eau en mon nom, parce que vous êtes du Christ, je vous le dis en vérité, il ne perdra pas sa récompense ” ( 9, 41 ). Pendant que Jean demande à son Maître d’empêcher les autres de s’approprier son nom  ” car ils ne nous suivaient pas ” ( 9, 38 ), le Seigneur Jésus répond en donnant un critère de discernement concernant l’appartenance au cercle de ses disciples. Ceci n’est pas un fait idéologique, mais le partage profond d’attachement irrévocables par leur qualité d’humanité et de charité. Notre Dieu est un ” Dieu jaloux ” dans son infinie miséricorde et dans son immense amour pour chaque créature : ” Tu es indulgent avec toute chose, car ce sont les tiennes, Seigneur, amoureux de la vie. Parce que ton esprit incorruptible est dans toute chose ” ( Sg 11, 26 ). Alors la prière de chaque disciple du Maître Jésus ne peut qu’être l’humble demande d’être capable d’un étonnement admirable pour être libérer de toute forme de jalousie qui est un ” péché grave “celui – impardonnable – de vouloir diriger l’Esprit du Très-Haut. Il est nécessaire d’apprendre la jalousie de Dieu qui défend toujours et à tous les coups l’autonomie, la liberté, la créativité et la croissance de ses créatures créees ” à son image et à sa ressemblance “. Qu’il ne nous arrive pas d’oublier le proverbe : ” Qui a rassemblé le vent dans le creux ses mains ? ” ( Pr 30, 4 ).

Timore

XXV settimana T.O.

È come se un doppio <timore> (Lc 9, 45) abitasse il nostro cuore. Il timore di dover seguire il Signore Gesù sulla via dell’umiliazione e del rifiuto e il timore di dover continuamente scegliere di acconsentire alle parole del Qoèlet che sembrano dire esattamente il contrario: <Godi, o giovane, nella tua giovinezza, e si rallegri il tuo cuore nei giorni della tua gioventù> (Qo 11, 9). Il testo del Qoèlet continua con una doviziosa descrizione di quello che è il disfacimento del corpo fino alla sua morte. Eppure, la memoria dei <giorni tristi> (12, 1) o, meglio ancora, il saper mettere in conto i tempi più difficili dell’esistenza, diventa per Qoèlet un motivo forte per saper vivere e bere fino in fondo il calice della giovinezza con gratitudine, senza mai anticipare la morte e non senza, però, dimenticare di prepararla saggiamente.

Nel Vangelo, il Signore Gesù proprio <mentre tutti erano ammirati di tutte le cose che faceva> (Lc 9, 43), invita i suoi discepoli a non cedere al fascino dei suoi gesti, ma ad aprirsi profondamente e veramente al loro significato più vero e profondo, maturando la capacità di accogliere ed assumere le conseguenze dei suoi gesti d’amore e di tenerezza, di predilezione per i più poveri e i più sfortunati: <Mettetevi bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini> (9, 44). Dietro questo grave annuncio si cela un annuncio ancora più grande: l’amore si consegna e sa godere e gioire fino in fondo della propria disponibilità e volontà di darsi. Tutto ciò non può non incutere timore, eppure tutto ciò dovrebbe far maturare in noi un desiderio e una capacità di amore sempre più grande, tanto da essere in grado di assumere le conseguenze più dure e difficili.

La nostra vita è un passaggio che, solo alla sequela del Signore Gesù, può trasformarsi in una vera Pasqua. Il primo passo è proprio quello di assumere la logica della Pasqua senza timore e nella libertà del cuore. Mentre i discepoli non <ne coglievano il senso e avevano timore di interrogarlo su questo argomento> (Lc 9, 45), a noi è richiesto di dialogare con Gesù – come fecero Mosè ed Elia sul monte della trasfigurazione – del suo e del nostro <esodo> (9, 31). La saggezza che propone il Signore non garantisce né il successo e neanche quella riconoscenza e riconoscimento che ci aspetteremmo giustamente dai nostri fratelli. Il Signore <ha fatto risplendere la vita per mezzo del Vangelo> (2Tm 1, 10 – Canto al Vangelo) e questo vangelo si riassume in una parola: <Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini> (9, 44). E noi con Lui se vogliamo essere come Lui siamo chiamati a superare anzi assumere quel <timore> (Lc 9, 45) che attraversa il cuore e la mente dei discepoli. Come loro siamo chiamati a confrontarci con la decisa presa di posizione del Signore Gesù davanti al mistero della propria vita offerta fino all’ultimo e senza nessun ripensamento.

I tempi di Gesù

XXV settimana T.O.

Il Signore Gesù ha bisogno di un <luogo solitario> dove metabolizzare in modo profondo e assolutamente nuovo la realtà che sta diventando per gli altri. L’evocazione della morte del Battista è particolarmente sobria nel Vangelo secondo Luca e senza che si scenda nei particolari che, invece, sembrano essere stati totalmente affidati al racconto della sua concezione e della sua nascita. Le parole atterrite di Erode: <Giovanni è risorto dai morti> (Lc 9, 7) sembrano trasformarsi nel cuore e nell’orante meditazione di Gesù fino a diventare una sorta di strada da percorrere. Il Signore si ritira in solitudine e da questa solitudine esce con una chiarezza e una consapevolezza tutta da sentire e tutta da condividere con i suoi discepoli: <Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno> (9, 22). Sembra che il Signore si conformi in tutto alla sapienza del Qoèlet e ripercorra – non nella forma del passato, ma in quella del futuro – ognuno dei passi che lo attende con una passione e una dedizione assolute.

Se è vero che <Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo>, questo diventa vero nella misura in cui sappiamo accogliere il mistero della nostra vita e ne accettiamo i tempi, i modi, gli incidenti, i fallimenti come pure le gioie e i successi. Sembra che il Signore Gesù senta il bisogno di raccontare – a se stesso e ai suoi discepoli – la scaletta del suo salire verso Gerusalemme. Questa salita è una vera ascensione che culmina in quel chiaro <risorgere il terzo giorno> che però non può darsi senza passare per i due giorni che lo precedono e lo preparano. Qoèlet lo ricorda come un’evidenza cui doversi necessariamente arrendersi: <C’è un tempo per nascere e un tempo per morire> (Qo, 3, 2). Tuttavia questo naturale avvicendarsi delle stagioni e degli stadi della vita non è solo un’evidenza, esige pure un’accoglienza e una scelta che libera dalla tentazione di subire, piuttosto che di acconsentire in modo consapevole e coraggioso.

Il Signore ha scelto di accogliere il dinamismo pasquale nella sua vita e vuole aiutare i suoi discepoli a fare altrettanto. Per fare questo il primo passo è porre loro una domanda, e il secondo è quello di illuminare la risposta che se è esatta, va comunque ben compresa e radicalmente purificata: <Ma voi, chi dite che io sia?> (Lc 9, 20). Certo la risposa degli apostoli ha la sua importanza soprattutto perché rende possibile quel necessario e fondamentale chiarimento del Signore sul suo cammino pasquale, ma la domanda di Gesù conserva tutta la sua preziosità perché rivela una relazione con i discepoli che non è unilaterale, ma veramente reciproca. Il Signore è un Maestro che ascolta, interroga, interpreta gli avvenimenti e si lascia interpellare persino dagli incidenti di percorso, tanto da rendere ancora più vera la parola del Qoèlet: <Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, inoltre ha posto nel loro cuore la durata dei tempi, senza però che gli uomini possano trovare la ragione di ciò che Dio compie dal principio alla fine> (Qo 3, 11).

Novità?

XXV settimana T.O.

Le parole del Qoèlet sembrano incontrovertibili e indiscutibili: <C’è forse qualcosa di cui si possa dire: “Ecco questa è una novità”?> (Qo 1, 10). Tra re forse ci si intende molto più di quanto si possa immaginare e desiderare, per cui forse un’affermazione come questa avrebbe incontrato il favore e l’approvazione del tetrarca Erode, tremendamente imbarazzato davanti a tutto ciò che sente dire di Gesù e ancor più ossessionato dal ricordo del suo modo infame di sbarazzarsi del Battista. Eppure, con buona pace di Salomone, possiamo dire che in Gesù, nella sua parola e nei suoi gesti, siamo posti veramente dinanzi al mistero di una <novità> che non ha niente a vedere con la curiosità, ma esige un rinnovamento radicale della nostra vita. L’evangelista Luca annota che Erode <non sapeva cosa pensare> (Lc 9, 7) e, in realtà, è proprio questo il dramma del re che continua ad immaginare il mondo a partire dal suo palazzo e dal suo trono, senza lasciarsi interpellare veramente da ciò che la vita gli richiede come scatto di consapevolezza e di conversione.

La nota con cui si conclude il Vangelo ha una sua bellezza: <E cercava di vederlo> (9, 9). Sarà la stessa cosa che starà a cuore a Zaccheo mentre si arrampica come un bambino sul sicomoro per vedere Gesù. La differenza tra Erode e Zaccheo sta nella disponibilità o meno a farsi vedere da Gesù, fino a lasciarsi cambiare dall’incontro con Lui. Chissà, forse, il Signore avrebbe persino accettato di incontrare il re Erode non essendosi mai sottratto a nessun invito con una capacità di sedere alla mensa della vita di chiunque. In realtà Erode cerca di vedere Gesù, ma senza maturare nel proprio cuore la disponibilità a perdere il controllo – peraltro così illusorio – della vita sua e del mondo che lo circonda. Questo bisogno di controllo e di autorassicurazione induce, suo malgrado, il re Erode a non immaginare e a non aspettarsi nulla di nuovo. Sulle sue labbra persino la risurrezione perde tutta la sua capacità di insurrezione contro la morte di ciò che è scontato e che è “déjà vù”. L’unica cosa di cui Erode è certo è che: <Giovanni, l’ho fatto decapitare io>!

Pertanto, il re dimentica che <decapitare> è una cosa ed eliminare è un’altra! In realtà, ciò che turba il cuore di Erode è una sottile consapevolezza che l’aver fatto giustiziare Giovanni non ha significato far tacere la sua voce, ma l’ha resa persino più inquietante, perché essa ormai disturba non più le stanze del palazzo ma quelle, ben più segrete, del suo cuore malato. Se tra re sempre un po’ ci si intende, allora la parola del Qoèlet può essere applicata benissimo a Erode: <Quale guadagno viene all’uomo per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole?> (Qo, 1, 3). Soprattutto quando questa fatica consiste nel cercare in tutti i modi di preservare il proprio mondo, condannandolo così a un fallimento certo. La <novità> (1, 10) che il Signore Gesù annuncia è proprio la possibilità per tutti di poter cambiare fino a dare alla propria vita un orientamento talmente nuovo da essere capace di guarirci fino alla radice della nostra personalità, liberandoci dalle catene del passato che rischia di diventare un incubo. Questo esige un assenso… non impossibile, ma forse troppo costoso per la nostra immagine! Eppure, questo è il prezzo della pace e della serenità. Il rischio è sempre quello di decapitare la verità per salvare un onore effimero.

Nulla

XXV settimana T.O.

La consegna del Signore Gesù ai Dodici è duplice: <diede loro forza e potere su tutti i demòni e di guarire le malattie> (Lc 9, 1). Per gli antichi ogni malattia – sia psichica che fisica – è legata all’azione devastante di un demonio ed è per questo che tutti sono consapevoli di avere bisogno di aiuto per poter essere liberati da ciò che turba e avvilisce la vita. Questo aiuto non può essere semplicemente un rimedio che tenti di guarire il male particolare che sperimentiamo, ma ogni volta che si cura un sintomo si ha di mira la guarigione di tutta la persona. Per questo il Vangelo continua così: <E li mandò ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi> (9, 2). Come ci ricorda la prima lettura: <Ogni parola di Dio è purificata nel fuoco; egli è scudo per chi in lui si rifugia> (Pr 30, 5). Questo vale per tutti e vale sempre ed è stata un’esperienza che gli stessi apostoli hanno dovuto assumere nel loro cammino di fede e, naturalmente, è un processo che ci riguarda personalmente e come Chiesa se vogliamo – realmente – continuare ad essere testimoni credibili e annunciatori accettabili del Vangelo.

Per questo il Signore Gesù invece di mettere nelle mani dei suoi apostoli un kit da pronto intervento o di iscriverli ad un corso paramedico, li spoglia ulteriormente rendendoli così ancora più liberi ed essenziali: <Non prendete nulla…> (Lc 9, 3). Non possiamo nasconderci che questo <nulla> ci spaventa non poco. Ciascuno di noi mettendosi in cammino o cominciando un viaggio per prima cosa prepara i bagagli o prende tutto ciò che gli può servire per portare a termine con successo una missione di lavoro o semplicemente per non fare brutta figura. Chi di noi non mette nel proprio zaino o nella propria borsetta quello che “potrebbe servire”, fosse anche una crema o qualche analgesico… naturalmente che potrebbe venire utile a qualcun altro! È difficile non attrezzarsi e non premunirsi.

Il Signore Gesù ci chiede di non attrezzarci e di non premunirci, ma di rischiare e di esporci tanto da permettere ai nostri fratelli e sorelle in umanità di lasciarsi toccare da quell’annuncio che prima di essere un contenuto è una forma di vita e una testimonianza. Solo così si può immaginare un modo possibile di stare al mondo, sottratto – guarito sarebbe meglio dire – dalle logiche mondane del successo, dell’autoaffermazione e della continua rassicurazione che può trasformarsi, inconsapevolmente, in una sorta di immunizzazione dalla vita. Il libro dei Proverbi ci esorta nella medesima direzione di essenzialità e di leggerezza: <Non aggiungere nulla alle sue parole> (Pr 30, 6). Al contempo mette sulle nostre labbra le parole giuste capaci di esprimere l’atteggiamento giusto nei confronti della vita: <non darmi né povertà né ricchezza> (30, 8). Naturalmente questo non vale solo a livello materiale, ma pure a livello esistenziale e spirituale. Il primo segno con cui siamo chiamati ad annunciare il Vangelo non è quello di dare e portare qualcosa, ma il fatto di presentarci serenamente poveri e bisognosi di essere accolti e accuditi. Questo dovrebbe infondere il coraggio anche agli altri di riconoscere i loro bisogni, fino ad essere guariti dalla terribile malattia dell’autosufficienza che isola fino ad uccidere. Così, paradossalmente, il <nulla> diventa la condizione del tutto!

Benevolenza

XXV settimana T.O.

Questa nuova settimana dell’anno liturgico sarà accompagnata dalla lettura di alcuni passi del libro dei Proverbi. La lettura liturgica comincia appunto con un detto che ci riguarda in relazione agli altri e non solo a noi stessi: <non negare un bene a chi ne ha il diritto se hai la possibilità di farlo> (Pr 3, 27). Se questa è la parola con cui si apre la prima lettura, che sarà solennemente ripresa dall’apostolo Giacomo nella sua Lettera, l’ultima suona così: <agli umili concede la sua benevolenza> (3, 34). La benevolenza cui ci esorta la prima lettura si concretizza nell’esortazione del Signore Gesù a non privatizzare fino a sprecare i doni che riceviamo dall’Altissimo, perché ne usiamo non solo per noi stessi, ma per metterli a servizio di tutti. Il Signore Gesù, dopo aver raccontato la parabola del seminatore che fa cadere il seme della sua parola e della sua presenza con una larghezza e benevolenza impressionanti, ci ricorda che il destino di questo seme è affidato ora alle nostre mani e non abbiamo il diritto di lasciarlo morire, ma abbiamo il compito di lasciarlo fruttificare: <Nessuno accende una lampada e la copre con un vaso o la mette sotto un letto, ma la pone su un candelabro, perché chi entra veda la luce> (Lc 8, 16).

Con questa breve parabola il Signore si sposta dal campo aperto in cui viene largamente seminata la Parola, all’intimità della casa in cui il seme si fa raggio di luce. Il Signore Gesù non dice che la lampada è posta sul candelabro per vederci meglio, ma precisa, sottilmente, che la lampada accesa va posta in evidenza perché chi entra veda la luce. La nostra esperienza della grazia è chiamata a diventare un dono e un’occasione di grazia per tutti senza cedere a nessuna inutile forma di privatizzazione intimistica che corrisponderebbe ad una follia, proprio come se, dopo aver accesa una lampada, la nascondessimo. Il Signore Gesù si spinge ancora oltre! Dopo averci condotto nell’intimità della casa, ci fa scendere nella profondità del nostro cuore: <Non c’è nulla di segreto che non sia manifestato, nulla di nascosto che non sia conosciuto e venga in piena luce> (8, 17).

La <benevolenza> con cui siamo chiamati a condividere con gli altri i doni ricevuti, diventa una spinta a far fruttare pienamente questi doni nella nostra vita più personale e intima, perché tutta la nostra esistenza possa essere un vero processo di crescita e di dilatazione che comprende sempre un dinamismo di chiarificazione e di consapevolezza. Proprio come quando si accende una piccola lucerna e, pian piano, si impara a riconoscere le cose e le persone in una luce nuova, così è pure dell’intimità del nostro cuore. L’ascolto della Parola e l’incontro quotidiano con il Signore sono sempre l’occasione per diventare più solidali con gli altri e più autentici con se stessi. L’ultima parola che ci viene consegnata nel Vangelo può diventare per noi un vero punto di meditazione e uno spunto esigente di verifica: <Fate attenzione dunque a come ascoltate; perché a chi ha, sarà dato, ma a chi non ha, sarà tolto anche ciò che crede di avere> (8, 18)… per proteggerlo da se stesso.

Flusso regale

XXV settimana T.O.

Una frase racchiude il mistero che abita il cuore di chiunque senta di avere un certo grado di parentela nei confronti del Signore Gesù: <Tua madre e i tuoi fratelli stanno fuori e desiderano vederti> (Lc 8, 20). Il passaggio della famiglia di Gesù avviene in un momento assai significativo dell’itinerario spirituale che l’evangelista Luca va tracciando attraverso la memoria delle parole e dei gesti del Signore. I familiari <non potevano avvicinarlo a causa della folla> (8, 19). In realtà questa difficoltà di avvicinare Gesù è la rivelazione della fedeltà al suo ministero di illuminazione e di guarigione offerto generosamente a tutti e non solo a chi è più vicino. Mentre sentiamo la difficoltà e l’imbarazzo dei parenti del Signore, che talora sono la nostra stessa difficoltà e il nostro stesso imbarazzo di discepoli, non possiamo chiudere gli occhi e il cuore sulla stupenda rivelazione di Gesù che assomiglia così tanto a ciò che leggiamo in apertura della prima lettura: <Il cuore del re è un corso d’acqua in mano al Signore> (Pr 21, 1). Un fiume o un torrente si rallegra nel donarsi e proprio quando scorre riesce a superare ogni ostacolo in un magnifico equilibrio tra la forza e la dolcezza attraverso cui l’acqua trova sempre un modo per correre verso il mare.

Se il cuore del Signore Gesù sembra proprio un corso d’acqua che continua allegramente e decisamente la sua corsa, la sua famiglia sembra cedere alla tentazione di voler fare da diga per contenere e quasi controllare la sua incondizionata donazione. Ancora una volta la saggezza dei Proverbi ci ricorda che <chi scruta i cuori è il Signore> (21, 2) il quale è capace di rettificare fino a orientare e guarire i nostri desideri. La risposta risuona tagliente e al contempo liberante: <Mia madre e i miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica> (Lc 8, 21). Tutto il lavoro della nostra vita di discepoli è di ritrovare continuamente il nostro posto dopo i due punti di questa frase del Maestro. Saremo sempre ammaliati e tentati dalla tentazione di avere un posto di prestigio identificando nel privilegio un segno di maggiore vicinanza e di più intima appartenenza. Se invece veramente ci poniamo alla scuola del Vangelo sottoponendo al suo giudizio non solo i nostri gesti, ma pure i nostri desideri, allora scopriremo che, spesso, ciò che consideriamo un impedimento per arrivare a Gesù – la folla – è, in realtà, il luogo più adeguato e più bello per fare esperienza di quella grazia che ci viene dalla sua parola ed è capace di guarire e di salvare insieme.

L’immagine del <re> paragonato al <corso d’acqua> ci parla, indubbiamente, del Signore Gesù, ma parla anche di noi. Siamo chiamati a non contrapporci al fluire della grazia e il primo modo per farlo è quello di sottrarsi a questo flusso appartandosi alla ricerca di una situazione di privilegio, talora con il pretesto di un’intimità che rischia di essere piuttosto la ricerca di una marginalità aristocratica. Potremmo dire che se c’è un modo per discernere il nostro grado di vicinanza al Signore Gesù è proprio quello dell’assoluta condivisione della vita di tutti. Infatti, il nostro grado di parentela spirituale è direttamente proporzionale alla nostra capacità di conformarci radicalmente a ciò che la Parola cerca di creare nel nostro cuore come attitudine ad una discepolanza condivisa e non elitaria. A partire da questa consapevolezza – sempre in crescita – l’ultima parola della prima lettura può diventare una vera guida al discernimento spirituale: <Chi chiude l’orecchio al grido del povero invocherà a sua volta e non otterrà risposta> (Pr 21, 13). Siamo chiamati a farci solidalmente popolo di poveri che insieme cercano di vedere Gesù e di lasciarsi vedere da Lui, per essere la sua famiglia senza mai cedere all’istinto di fare famiglia – nel senso del clan o della setta – escludendo qualcuno.

Comprendere

XXV Domenica T.O.

L’apostolo ci propone un criterio per saggiare, ogni giorno, il livello del nostro consenso al vangelo e questo non a parole ma – secondo lo spirito proprio di questo apostolo così poco amato da Lutero – in modo pratico e quotidiano: <dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni> (3, 16). Se rileggiamo la prima lettura è chiaro che, se l’intento dichiarato degli empi è quello di saggiare la mitezza e la santità del giusto, in realtà le loro azioni non sono altro che l’espressione di quella disperazione che la gelosia è capace non solo di generare, ma di nutrire in modo regolare e continuo. Non si fanno illusioni gli empi e non possono nascondere a se stessi il male che li divora come un fuoco che incendia la paglia – per usare alcune immagini che ritroviamo nella lettera di Giacomo – e per questo si confessano l’un l’altro: <Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione da noi ricevuta> (Sap 2, 12). In realtà, proprio mentre si cerca di mettere <alla prova con violenze e tormenti> (2, 19) il giusto, non si fa che saggiare e smascherare la propria grettezza e la propria inadeguatezza: <per la strada, infatti, avevano discusso tra loro chi fosse più grande> (Mc 9, 34). I discepoli fanno fatica, come noi, a lasciarsi realmente plasmare dalla parola e dai gesti del Signore Gesù. Per questo reagiscono al suo solenne annuncio del fallimento pasquale tentando di mettere a punto i quadri del fantomatico successo messianico. Il progetto messianico abita segretamente il cuore dei discepoli pieno di sogni e di idealismi che non contempla e non sopporta il contrario cui il Maestro li sta preparando senza dimenticare di preparare se stesso: <Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà> (9, 31). L’evangelista annota qualcosa che riguarda i discepoli ma che riguarda così spesso anche noi: <Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo> (9, 32). Quando noi non capiamo o non vogliamo capire, il Signore non esita a interrogarci e a spiegarci ulteriormente per metterci in condizione di <saggiare> la nostra <mitezza> (Sap 2, 19). Lo fa con un gesto che non ha nulla di romantico e che, invece, è una sorta di giudizio che esige sempre profonda conversione: <Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti> (Mc 9, 35). Come se non bastasse, il modello del servizio del discepolo non è il servitore, cosciente del proprio compito, bensì il <bambino> (9, 36) che non può servire a molto se non nella misura in cui gli si da fiducia e lo si ama per la promessa di vita che rappresenta. Tutto ciò comporta di accettare il rischio di farsi garanti di ciò che non può imporsi da sé, ma che solo può lasciarsi accogliere <abbracciandolo>.