Intensamente

XXIV settimana T.O.

Un avverbio è il messaggio fondamentale che riceviamo per il nostro cammino dalla Parola di Dio che ci raggiunge e ci illumina attraverso le Scritture: <desiderate intensamente> (1Cor 12, 31). Indubbiamente l’apostolo Paolo fa riferimento alla necessità di aprirsi sempre di più ad una carità capace di animare e autenticare ogni minimo gesto e ogni minima parola. Eppure, bisogna riconoscere che persino la carità più generosa e più dimentica di se stessa ha continuamente bisogno di essere verificata, quasi certificata da un’intelligenza del cuore senza la quale il rischio è che si trasformi in generosa, ma supponente elemosina. A questo riguardo, la parola del Signore Gesù non fa che rincarare la dose di quella, già abbastanza severa, dell’apostolo Paolo: <A chi posso paragonare la gente di questa generazione? A chi è simile?> ed è il Signore stesso a dare la risposta: <È simile a bambini…> (Lc 7, 31-32). In questo caso il riferimento non è ai <piccoli> ma ai <bambini>!

Ciascuno di noi porta dentro di sé e talora nutre con cura questa parte “bambinesca” che continua a lamentarsi per non prendere mai su di sé la responsabilità della vita, accontentandosi – si fa per dire – di dedicarsi allo sport della continua mormorazione che, in realtà, è un modo sottile ed efficace per sentirsi sempre innocenti e mai responsabili. L’apostolo ci ricorda una verità che fa parte della nostra esperienza quotidiana: <noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio> (1Cor 13, 12). Ciò non toglie che pur nell’incertezza di ogni passo che la vita ci richiede di fare per noi stessi e per gli altri sia necessaria una determinazione e un coraggio senza i quali tutto rischia di essere delegato e continuamente rimandato. Il rischio più grande è quello di rimandare non solo la gioia e il dolore, ma di rimandare la vita, tanto da perderne il senso fino a smarrirlo definitivamente.

La differenza sostanziale tra i <bambini> di cui ci parla il Signore Gesù nella parabola e il <bambino> (1Cor 13, 11) cui fa riferimento Paolo, nella prima lettura, sta nel fatto che mentre i primi non vogliono assolutamente crescere, il secondo è disposto a farlo <intensamente> (12, 31). Nulla di intenso e quindi di degno può accaderci se non coltiviamo una reale e coinvolgente disponibilità a rompere lo specchio dell’incantesimo di noi stessi: <Divenuto uomo, ho eliminato ciò che era da bambino> (13, 11). Se ogni uomo è stato un bambino, non è poi così certo che ogni bambino divenga veramente uomo. La discriminante sta proprio in quel passaggio non facile dal bisogno continuo di essere ascoltati ad una capacità crescente di ascoltare e di accogliere gli altri come un appello. La differenza sta nel superamento del fondamento di ogni atteggiamento capriccioso che consiste nel bisogno spasmodico di essere continuamente visti, per imparare e scegliere, invece, di avere occhi e cuore per gli altri in una carità che non ha niente di piccino, anzi è: <magnanima, benevola… tutto crede, tutto spera, tutto sopporta> (13, 7). Uno dei segni primari ad indicare se si è cominciato o meno questo cammino fino ad accogliere la vita in modo adulto è il non avere più bisogno di giudicare e l’essere sempre più inclini ad ammirare con discrezione.

Come può avvenire tutto ciò se non attraverso un cammino interiore di autentica maturazione che ci rende capaci di desiderare così intensamente da non temere più di giocare alla vita fino a saperci giocare nella vita tanto da non avere paura di giocarci, prima o poi, la stessa vita… intensamente!

Profeta

XXIV settimana T.O.

L’apostolo Paolo ci ricorda come e quanto nella comunità cristiana i carismi e i ministeri siano diversi: <in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri> e aggiunge <poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare in varie lingue> (1Cor 12, 28). Alla fine del Vangelo, la folla acclama il Signore Gesù come il <grande profeta> (Lc 7, 16). L’esultanza della folla rende ancora più parlante il silenzio quasi impietrito di questa <madre rimasta vedova> (7, 12) che porta alla sepoltura il suo unico figlio senza dire una parola, in un silenzio e in un’accettazione del dolore e della morte che toccano il cuore di Cristo Signore volgendolo ad una <grande compassione> (7, 13). Sembra proprio che la sofferenza stessa di questa donna e di questa madre, ormai privata non solo del marito, ma pure del figlio, sia sufficiente a Gesù per sentirsi interpellato vivamente.

La sofferenza nella sua semplice realtà e senza nessun commento fa segno al Signore Gesù e lo costringe a prendere posizione a favore della vita e della gioia. Questa donna non chiede nulla, a differenza di molti altri che si affollano sulle strade percorse dal Signore per chiedergli un aiuto, un sostegno, una consolazione… un miracolo! In questo caso è come se l’evangelista Luca ci volesse far fare un passo in più nella conoscenza del mistero di Dio che si rivela attraverso il cuore compassionevole di Cristo: i suoi gesti e le sue parole non sono solo una risposta alle nostre richieste, ma sono una necessità intrinseca del suo cuore sempre schierato dalla parte della vita e sempre desideroso di salvare il meglio delle nostre umane relazioni. Il silenzio di questa donna, che dopo aver seppellito il marito accompagna al sepolcro il suo unico figlio, rende ancora più ridondante la parola del Signore: <Non piangere!> (7, 13).

Non è raro che – come singoli discepoli e come Chiesa – ci chiediamo in che cosa mai consista il nostro ministero di annuncio del Vangelo. Ebbene sembra che la risposta sia proprio in questa profezia della consolazione e della compassione, capace di schierarsi sempre e comunque dalla parte del dolore e di aprirsi ad un rispetto così assoluto della sofferenza da farne il luogo autenticante di ogni annuncio e la forma imprescindibile di ogni conversione. Il <morto> risponde alla sollecitazione del Signore Gesù: <si mise seduto e cominciò a parlare> (7, 15). Da questa conclusione del Vangelo potremmo imparare che prima di parlare e di pontificare dobbiamo verificare che la nostra parola sia realmente profetica, perché capace di mettere l’altro a proprio agio e di restituirgli fino a potenziare la possibilità di parlare e di dirsi in verità e in totalità. Solo così tutti potranno testimoniare che <Dio ha visitato il suo popolo> (7, 16). L’esortazione con cui si conclude la prima lettura può assumere così una connotazione assai particolare e magnificamente profetica ed evangelica: <Desiderate invece intensamente i carismi più grandi> (1Cor 12, 31). Il più grande di tutti sembra proprio essere la profezia della compassione.

Salvare

XXIV settimana T.O.

L’intenzione e il desiderio di questo centurione è che il Signore Gesù si degni di <salvare il suo servo> (Lc 7, 3). Il racconto termina con una constatazione semplice e chiara: <trovarono il servo guarito> (7, 10). Verrebbe da dire che il desiderio di questo centurione è stato esaudito, eppure sarebbe da aggiungere che se il servo è stato guarito questo è segno di una salvezza che è ben più grande della guarigione. In questo caso il Signore Gesù non vede neanche il malato, né tantomeno si avvicina in alcuno modo al suo letto non potendo né toccarlo, né parlargli, tutto avviene in una sorta di triangolazione della salvezza che fa cadere ogni ambiguità magica. Il contatto senza contatto tra il Signore Gesù e questo <centurione> (Lc 7, 2) raggiunge il suo apice non in un incontro né in una parola diretta, ma in una sorta di contatto a distanza che sembra salvaguardare la differenza e la distanza come cifra di una necessaria trascendenza. Ciò che normalmente nelle guarigioni troviamo come parola spesso accompagnata da un gesto nei confronti del malato e del bisognoso, in questo caso è una parola rivolata ad altri: <Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!> (7, 9).

La guarigione di questo servo sembra essere il segno esterno e visibile di un’esperienza di salvezza vissuto da quel centurione la cui due caratteristiche principali sono le seguenti: da una parte aveva <molto caro> uno dei suoi servi che versa in pericolo di vita, e dall’altra aveva <udito parlare di Gesù> (7, 2). La salvezza, quella vera e profonda che si può vivere persino senza incontrarsi con il Signore, è il frutto di questa duplice attenzione verso ciò che amiamo e ci tocca profondamente nel quotidiano della nostra vita come gli affetti, è una parola capace di portarci un po’ oltre fino a permetterci di contestualizzare le nostre esperienze più forti e più intime in modo più largo per non soccombere alla stretta dei sentimenti e non essere accecati dalla paura di perdere chi o ciò che amiamo. Il centurione soffre per la sofferenza del proprio servo e per il dolore di poterlo perdere da un momento all’altro, ma conserva la sua lucidità nel mandare a chiamare Gesù e nel saperlo fermare perché non entri nella sua casa contaminandosi e quindi creandosi c’ dei problemi: <dì, una parola e il mio servo sarà guarito> (7, 7).

L’apostolo Paolo nella prima lettura ci parla della comunità cristiana colta nel momento della celebrazione della cena del Signore e che sembra aver conservato i gesti di Cristo avendone smarrito il senso più profondo e più vero tanto da far dire: <il vostro non è più un mangiare la cena del Signore> (1Cor 11, 20). La Parola di Dio di quest’oggi ci mette in guardia dal rischio sempre in agguato di abituarci talmente alle cose di Dio da non essere più in grado di entrare veramente in relazione con Dio fino a farci veramente toccare dalla sua presenza e dalla sua parola per sperimentare una salvezza di cui la guarigione e i sacramenti sono segni, ma che non sono tutto. L’esortazione finale dell’apostolo non riguarda soltanto quella che potremmo definire una forma di “educazione liturgica”, ma dovrebbe essere la forma stessa della nostra vita: <aspettatevi gli uni gli altri> (1Cor 11, 33). Il centurione diventa così icona di una capacità di attesa che sa persino rimandare ulteriormente l’incontro con il Signore Gesù a motivo della sua magnifica fede nella potenza della sua parola che è sempre fiducia in una relazione che la distanza non solo non diminuisce ma rischia persino di rendere ancora più efficace. 

Domande

XXIV Domenica T.O.

Domenica delle domande! Nelle tre letture di oggi ricorrono otto domande che potremmo riassumere nelle parole taglienti dell’apostolo Giacomo: <Quella fede può forse salvarlo?> (Gc 2, 14). La salvezza – dice Marco – non è legata alla capacità di dare la risposta giusta – come sembra fare Pietro – o quella più bella – come tenderemmo a fare noi. Si tratta, invece, di farci trasformare interiormente e radicalmente dalle risposte che diamo e che, inevitabilmente, creano domande sempre più profonde e sconvolgenti. Queste esigono una corrispondenza esistenziale tra ciò che proclamiamo a parole e la nostra conformazione a Cristo e alla logica del suo vangelo di servizio e di condivisione della vita. Ogni volta che il Signore ci pone una domanda, richiede da noi non una semplice risposta, ma un passo in più nella sua sequela. Pietro ha risposto bene: <Tu sei il Cristo!> (Mc 8, 29). Gli sembra di aver dato il massimo dei titoli possibili al suo amato Maestro, ma è come se questo riconoscimento sommo non risponda, in realtà, alla domanda posta dal Signore Gesù. Questo perché non corrisponde al cammino interiore di autocoscienza che il Signore sta compiendo dentro di sé camminando con i suoi discepoli, ma anche pellegrinando interiormente verso la comprensione piena della sua missione che è rivelazione di Dio. La reazione alla reazione di Pietro è chiara: <tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini> (8, 33). Il Signore Gesù prende sul serio le nostre risposte, ma ne dispiega il senso profondo, il senso vero, quello preannunciato dai profeti: <Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi> (Is 50, 6). La nostra fede, infatti, rischia di essere un modo per metterci al sicuro da pericoli, più o meno chiari, di cui però sentiamo come il remoto approssimarsi, per cui non ci resta che dire e augurare all’altro che non ci metta – in prima persona – in una situazione difficile da gestire per cui <Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo> (Mc 8, 32). Tutto ciò avviene proprio mentre il Signore Gesù <faceva questo discorso apertamente>. Aprirsi alla fede non significa parare i colpi e ancor meno mettersi al sicuro da possibili fallimenti e disfatte, bensì significa mettersi in cammino e quindi in pericolo: mettersi a rischio condividendo i rischi. Come Pietro, anche noi spesso ci comportiamo “al contrario”: invece di aderire rimproveriamo, invece di seguire vogliamo tracciare la strada, invece di imparare ci sembra di poter insegnare. È così che meritiamo con Pietro di essere chiamati nientedimeno che <Satana> (8, 33): colui che – come nel caso che ci viene narrato nel libro di Giobbe – racconta le cose al rovescio.  

Question

XXIV Dimanche du T.O. 

Dimanche des questions ! Dans les trois lectures d’aujourd’hui, nous trouvons huit questions que nous pourrions résumer par les paroles tranchantes de l’apôtre Jacques : ” Quelle foi peut donc le sauver ? ” ( Jc 2, 14 ). Le salut – nous dit Marc – n’est pas lié à la capacité de donner la bonne réponse – comme semble le faire Pierre – ou la plus belle – comme nous essayerions de le faire nous. Il s’agit, au contraire, de se laisser transformer intérieurement et radicalement par les réponses que nous donnons et qui, inévitablement, entraînent des réponses toujours plus profondes et déconcertantes. Celles-ci exigent une correspondance existentielle entre ce que nous proclamons à haute voix et notre conformité au Christ et  la logique de son évangile de service et de partage de la vie. Chaque fois que le Seigneur nous pose une question, cela demande de notre part, non seulement une simple réponse, mais un pas de plus à sa suite. Pierre a bien répondu : ” Tu es le Christ ! ” ( Mc 8, 29 ). Il pense avoir donner le titre maximum des noms possibles à son Maître bien-aimé, mais c’est comme si cette reconnaissance suprême ne correspondait pas, en réalité, à la question posée par le Seigneur Jésus. Et ceci parce que cela ne correspond pas au chemin intérieur  de prise de conscience que le Seigneur est en train d’accomplir en lui tout en marchant avec ses disciples, mais aussi en pérégrinant intérieurement vers la compréhension entière de sa mission qui est révélation de Dieu. La réaction  à la réaction de Pierre est claire : ” tu ne penses pas selon Dieu, mais selon les hommes ” ( 8, 33 ). Le Seigneur Jésus prend nos réponses au sérieux, mais il en déplie le sens profond, le sens véritable, celui prononcé par les prophètes : ” J’ai présenté mon dos aux flagellateurs, mes joues à ceux qui m’arrachaient la barbe ; je n’ai pas dérobé mon visage aux insultes et aux crachats ” ( Is 50, 6 ). Notre foi, en fait, risque d’être une façon de nous permettre à l’abri des dangers, plus ou moins clairs, mais dont nous sentons une approche lointaine et que nous espérons et souhaitons que cela ne nous concernera pas- personnellement – par une situation difficile comme celle de ” Pierre qui fut pris à l’écart et réprimandé ” ( Mc 8, 32 ). Tour cela arriva justement lorsque le Seigneur Jésus  ” fit ce discours ouvertement “. S’ouvrir à la foi, ne signifie pas éviter les coups et encore moins se mettre à l’abri de possibles échecs et risques. Comme Pierre, nous faisons souvent les choses “à l’envers” : au lieu d’adhérer, nous réprouvons, au lieu de suivre, nous voulons tracer la route, au lieu d’apprendre, nous avons le sentiment de pouvoir enseigner. C’est ainsi que nous méritons, comme Pierre d’être appelés pas moins que ” Satana ” ( 8, 33 ) :  celui qui  dans le livre de Job – raconte les choses à l’envers.

Il viaggio

Esaltazione della santa Croce

La liturgia della Parola ci conduce nel mistero della Croce come luogo di rivelazione ultima e piena del disegno di Dio sulla nostra vita e sul nostro destino. Questa riflessione comincia con un’immagine: <il popolo non sopportò il viaggio> (Nm 21, 4). Fa parte del nostro modo consueto di vivere la Liturgia che sia proprio la croce ad aprire le nostre processioni, da quelle più solenni a quelle più familiari com’è la processione al cimitero quando vi accompagniamo i nostri cari per il loro ultimo viaggio da questo mondo al Padre. Secondo quanto dicono i liturgisti, la croce precede sempre! E potremmo aggiungere: la croce accompagna sempre. Dire questo può, certo, significare l’evocazione di tutta quella serie di croci che segnano il cammino della nostra vita, tanto da essere ormai parte integrante del linguaggio comune anche di quelli che non credono in Cristo, quando ad esempio si dice di qualcuno o a qualcuno: <sei proprio una croce>!

Nondimeno dobbiamo tenere presente che ciò di cui oggi facciamo memoria non sono le nostre croci, ma siamo invitati a contemplare il mistero glorioso della croce di Cristo Signore nel cui fulgore possiamo trovare il senso profondo e vero delle nostre fatiche. Le parole che il Signore Gesù dice a Nicodemo sono sussurrate al cuore di ciascuno di noi soprattutto nei momenti in cui sentiamo il peso della sofferenza, del paradosso, della fatica: <Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui> (Gv 3, 17). Laddove noi sentiamo la “croce” come una potenziale condanna di tutto ciò che riteniamo essere per noi fonte di gioia e di soddisfazione, il Signore Gesù attira la nostra attenzione e ci esorta alla conversione dello sguardo interiore per cogliervi invece un senso più profondo e più vero. Quando il Signore Gesù dice a Nicodemo: <Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo> (3, 13) richiede a ciascuno di noi, come avvenne già per Giacobbe al momento del suo sogno e della sua visione della scala che congiungeva la terra al cielo, di contestualizzare in modo più preciso persino la nostra fatica di viaggiare nella vita in un orizzonte più ampio.

In tal senso la croce, con la sua simbologia così forte, diventa uno strumento di orientamento e una sorta di chiave di senso. La croce di Cristo si offre alla nostra contemplazione in ottica di simbolo tridimensionale. Lo raccogliamo nella dimensione verticale di questo legno innalzato al cielo, a Dio. La dimensione orizzontale, la parte più corta che Gesù carica sulle sue spalle e trascina nel salire, e da cui ci abbraccia e ci costituisce fratelli ai suoi piedi. Per significare la dimensione della profondità, la croce è piantata sulla nostra terra tanto da riconoscere noi stessi nell’uomo che sulla croce soffre e, nell’abbandono, ritrova il senso più profondo della vita nella relazione con il Padre, sperimentiamo già la speranza della realtà della risurrezione. L’apostolo Paolo sembra esultare: <Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome> (Fil 2, 9). Questo nome è <Gesù> che significa <salvezza> ma è anche <Cristo> che significa <unto del Signore> ed è pure <Signore> che indica la sua vittoria sui <serpenti brucianti> dell’egoismo i quali rischiano di trasformare il <viaggio> in una inutile odissea.

Ricompensa?

XXIII settimana T.O.

La domanda che si pone l’apostolo circa la <ricompensa> (1Cor 9, 17) di cui può sentirsi in diritto colui che mette tutta la propria vita al servizio del Vangelo, si fa sottilissima riguardo al nostro modo di porci gli uni di fronte agli altri. Tutti siamo animati da una sorta d’istinto a correggere gli errori altrui, un po’ per aiutarli nel loro cammino e molto di più per sentirci un po’ più sicuri di noi stessi tanto da essere come confortati, se così si può dire, dai limiti altrui. L’apostolo da una parte e il Signore Gesù dall’altra, ci richiamano, in modo assai esigente, ad una sorta di povertà interiore che ci permette di mettere in atto tutto quello che sentiamo di fare per il Vangelo con un senso profondo di soddisfazione che non ha bisogno di nessuna gratificazione ulteriore. L’apostolo Paolo si pone la domanda e si dà egli stesso la risposta: <Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo> (1Cor 9, 18).

Così pure, in questo senso di libertà interiore, possiamo finalmente camminare gli uni accanto agli altri senza sentirci in dovere di <guidare> (Lc 6, 39) o di correggere, ma semplicemente di condividere un pezzo di strada accogliendoci reciprocamente e senza alcuna pretesa di giudicare, valutare e definire il cammino e le scelte degli altri. Nel nostro percorso personale da ricominciare ogni giorno in obbedienza alla Parola di Dio, possiamo custodire nel cuore la domanda del Signore non per sentircene rimproverati e disapprovati, ma per sentircene liberati e sollevati: <Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello…?> (6, 41). Questa parola del Signore dovrebbe essere per noi prima di tutto un sollievo perché ci sgrava del peso – talora insopportabile – di dover incasellare e classificare gli altri fino a temere che gli altri facciano altrettanto nei nostri confronti. 

Il Signore ci chiede pure di togliere dal nostro occhio la trave che rende il nostro sguardo e la nostra visione delle cose – in particolare delle persone – così sfasate. Pertanto, come tutte le operazioni all’occhio, la cosa è assai delicata e se dobbiamo farlo da noi stessi la cosa si complica di più e, soprattutto, richiede un’attenzione e una delicatezza assolute per non rischiare di perdere l’occhio. Alla fine, si tratta di convertirsi profondamente accettando di lasciarsi guardare da Dio piuttosto che di occupare tempo ed energie a esaminarsi e ad esaminare. Molte volte ci sfreghiamo gli occhi fino ad arrossarli e a sentire male per togliere un granello di polvere che ci infastidisce fino ad innervosire… eppure, normalmente, basta avere la pazienza di aspettare un poco e tutto va a posto da solo. Cerchiamo di aiutarci a non cadere nel <fosso> (6, 39) del giudizio e della disapprovazione reciproca, ma diamoci tempo e serenità: <e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello> (6, 42). Ma chi può dire, in verità, di vederci così bene?!

Se!

XXIII settimana T.O.

Per una volta, si fa per dire, il Signore Gesù usa il <se> ipotetico che, normalmente, è il modo usato dal tentatore per farci entrare in una logica di illusione: <Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta?> (Lc 6, 32). Questa parola ci viene rivolta dal Signore non per tentarci, ma per farci uscire allo scoperto su quella che è o meno la nostra disponibilità a vivere “di” vangelo. Mentre il diavolo ci tenta continuamente con i <se> che gonfiano ulteriormente il nostro ego e ci ammalano di egoismo, la parola del Signore Gesù si muove in modo totalmente diverso e si fa esortazione chiara e decisa: <A voi che ascoltate, io dico: amate invece i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, pregate per coloro che vi trattano male> (6, 27-28). Il Maestro non ci invita a diventare degli eroi né, tantomeno, a lanciarci in un percorso da “superman” spirituali. Al contrario queste parole sono un modo efficace per aiutarci a passare dall’illusione che ci fa fantasticare continuamente su noi stessi e sugli altri, alla capacità di dare il nome concreto alle situazioni che viviamo, fino a saperle assumere serenamente.

L’apostolo Paolo offre una chiave ulteriore per entrare nella logica evangelica che ci viene annunciata dal Signore: <la conoscenza riempie di orgoglio, mentre l’amore edifica> (1Cor 8, 1). Anche questa frase non va accolta come un aforisma tanto bello quanto teorico, ma come un crogiolo, una sorta di imbuto o di passino attraverso cui dobbiamo continuamente fare la tara delle nostre fantasie e immaginazioni – persino quelle così devote e sante – per scendere al livello della realtà cui continuamente la relazione con i nostri fratelli e sorelle in umanità ci costringe, talora mortificandoci radicalmente. Laddove noi siamo tentati di calcolare e misurare quello che diamo e quello che riceviamo nella nostra condivisione di vita col nostro prossimo, il Signore Gesù ci chiede di elevare lo sguardo per assumere un punto di vista non solo completamente diverso, ma anche magnificamente liberante: <prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi> (Lc 6, 35).

Senza mai dimenticare che la compassione verso il fratello è sempre un atto di compassione verso se stessi, perché ci permette di rivelare a noi stessi chi stiamo diventando talora con quelle fatiche e quegli incidenti che possiamo ben più facilmente rilevare e talora denunciare, nel cammino dei nostri fratelli. La parola del Signore Gesù ci è data come uno specchio: <E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro> (6, 31). Se ogni mattino ricominciassimo a muoverci nel dedalo delle nostre occupazioni e, in particolare, delle nostre relazioni, con questo specchio che ci faccia da orientamento e da guida, forse, a sera, saremmo meno stanchi e, di certo, meno arrabbiati. Ciò che il Signore ci richiede non è di diventare ingenui, ma di assumere un atteggiamento realmente attento sulle situazioni e le persone, ma sempre rammemorando ciò che noi stessi ci aspettiamo dalla vita e speriamo nella vita. La misericordia assoluta non è un atteggiamento debole di resa per evitare il confronto e sottrarsi al conflitto. È, invece, un atto di speranza in quel frammento di divinità che abita ogni cuore… persino il nostro!

Fiducia

XXIII settimana T.O.

L’apostolo Paolo chiede per se stesso da parte della comunità cui si rivolge una sorta di attestato di <fiducia> (1Cor 7, 25). Se questa fiducia possiamo accordarla a Paolo, ancora di più possiamo dare fiducia al Signore Gesù che ci mette di fronte alle esigenze della fedeltà al Vangelo attraverso le parole delle beatitudini che sono necessariamente legate anche alle “guaititudini”. Per quattro volte il Signore Gesù ripete <Beati>, ma per quattro volte ripete pure <Guai>. In tal modo l’evangelista Luca ci fa cogliere come la sfida del Vangelo è una sfida non a senso unico, ma a senso alternato o a senso complesso. Così dicendo il Maestro ci ricorda e, in certo modo, rafforza la nostra responsabilità su quelli che sono gli scenari della nostra vita. Il primo passo sembra proprio essere quello dell’attenzione e della vigilanza per non perdere il contatto con ciò che in noi e attorno a noi è povero e piccolo… per ritornare a Paolo, potremmo dire con ciò che è <vergine>!

L’evocazione della verginità fa tutt’uno nelle parole di Paolo con l’evocazione della necessità e delle costrizioni proprie della vita, che vanno assunte e trasformate ogni giorno in un’occasione possibile di crescita nella verità e nella libertà. Lo sguardo e la parola di Gesù che si volge <verso i suoi discepoli> (Lc 6, 20) è uno sguardo che beatifica, felicita, congratula. Ogni giorno siamo chiamati a lasciarci toccare fino ad essere trasformati da questo sguardo che, oltre a beatificarci, pure smaschera tutto ciò che in noi si oppone alla logica del Vangelo. Mettendo insieme le raccomandazioni paoline <riguardo alle vergini> (1Cor 7, 25) e le parole roventi del Signore Gesù, possiamo dire che al discepolo che siamo e stiamo diventando è offerta la strada di una rinascita interiore capace di riportarci all’essenziale.

Come la verginità così pure lo stile delle beatitudini non sono affatto un impoverimento o una mortificazione delle nostre possibilità di crescita e di sviluppo. Al contrario siamo messi di fronte all’esigenza e alla possibilità di riprendere ogni giorno un atteggiamento di assoluta disponibilità verso ciò che la vita ci richiede e ci offre come possibilità per l’esercizio pieno e generoso della nostra volontà. Come vergini e come poveri siamo posti dalla parola del Signore davanti al mistero di una possibilità di rimettere ogni giorno ordine tra i nostri desideri, per maturare una libertà da noi stessi che ci renda curiosi e generosi verso la vita. Il Signore ce lo ricorda con cura: <Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti> (Lc 6, 26). Da parte sua l’apostolo Paolo ci svela una sorta di trucco per non cadere nella trappola di noi stessi: <d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano come se non possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente> (1Cor 7, 29-31). Non si tratta di una inutile mortificazione, ma di un atteggiamento terapeutico di libertà interiore che ci può rendere veramente e solidamente <Beati>.

NUOVO ABATE PRESIDENTE