Giudicare

XX settimana T.O.

Non è di immediata comprensione la parola con cui il Signore Gesù cerca di rassicurare i suoi discepoli dinanzi alla presa di coscienza di quanto sia esigente il cammino della sequela. La risposta sembra non essere direttamente legata alla domanda con cui Pietro cerca di raccogliere la propria e l’altrui preoccupazione: <In verità io vi dico: voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele> (Mt 19, 28). Una parola di non facile comprensione che sembra rimandare, quasi per non affrontare, il problema di come essere salvati e, soprattutto, di come trovare beneficio e, per certi aspetti, vantaggio nella sequela di Cristo Signore.

La promessa è quella di partecipare a quel giudizio che avverrà alla fine dei tempi e di cui si parlerà nell’ultima parabola del Vangelo secondo Matteo, in cui sarà <il più piccolo> (25, 41) ad essere il metro della verità del rapporto con Dio. Del resto, questa conclusione viene già, in certo modo, anticipata: <Molti dei primi saranno ultimi e molti degli ultimi saranno primi> (19, 30). La prima lettura è un bell’aiuto per concretizzare ulteriormente la forza di questa parola del Signore che, attraverso il suo profeta, giudica e disapprova il principe di Tiro per un motivo chiaro: <Poiché il tuo cuore si è insuperbito> (Ez 28, 2) e ancora <si è inorgoglito il tuo cuore> (28, 5). Questa parola ci fa capire meglio a che cosa faccia riferimento il Signore Gesù quando afferma crudamente: <difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli> (Mt 19, 23).

Questa parola cu fa capire meglio che cosa rischia sempre di mancare, come per i discepoli, alla nostra sequela. Si tratta di maturare nella disponibilità a non pensare mai e in nessun modo che seguire il Signore Gesù possa essere fonte di qualche vantaggio, neppure nella forma del risarcimento: <Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?> (19, 27). La risposta sembra essere che avremo semplicemente la possibilità di raggiungere gli <ultimi> smettendo finalmente di ammassare <oro e argento nei tuoi scrigni> (Ez 28, 4). Ogni giorno anche noi ci troviamo nella condizione del re deplorata dal profeta, tanto che siamo invitati ad imparare ad essere <un uomo e non un dio> (28, 2). Solo se passeremo attraverso la dura scuola della nostra umanizzazione che passa attraverso l’imbuto di una reale semplificazione potremo infine partecipare alla stessa vita di Dio non come fonte di privilegi, ma come sorgente di un amore sempre più grande.

La reazione dei discepoli – che pure erano perlopiù semplici pescatori – davanti alla parola di Gesù circa le ricchezze ci sorprende per onestà e chiarezza: <Allora, chi può essere salvato?> (Mt 19, 25). Mentre noi ci reputiamo sempre non così tanto ricchi da essere toccati dalle invettive sulla ricchezza, gli apostoli si ritengono tra quei ricchi che sono colpiti dalla parola del Signore. Siamo tutti abbastanza ricchi e non sufficientemente poveri per dover vendere un po’ di noi stessi per farci attenti agli altri.

Vuoi spiegarci?

XX settimana T.O.

La domanda che viene sollecitata dal modo in cui Ezechiele vive il lutto per sua moglie sarebbe forse da rivolgere al Signore Gesù per farci comprendere meglio le parole rivolte a quel <giovane> (Mt 19, 20) che pure è animato da ammirabile generosità: <Non vuoi spiegarci che cosa significa quello che tu fai?> (Ez 24, 19). In realtà, la parola che il Signore offre a quel giovane in risposta alla sua insistenza è ben più di una parola, ma è l’invito a passare dall’osservanza dei comandamenti – lodevolissima! – all’imitazione della sua spogliazione che diventa un luogo di rivelazione: <Se vuoi essere perfetto, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!> (Mt 19, 21). È questa una parola del Maestro non solo citata, ma pure talora bistrattata.

Su questa parola cominciò il suo cammino il giovane Antonio prima di inoltrarsi nel deserto e diventare punto di riferimento di quanti anelavano alla libertà di seguire il Vangelo senza lasciarsi prendere dalle nuove possibilità che, dopo l’era dei martiri, proprio l’essere cristiani prometteva e permetteva. Da questa medesima parola furono mossi i primi passi della conversione e della fraternità di Francesco d’Assisi come protesta contro un mondo che si cominciava ad organizzare sempre più attorno al soldo perdendo di vista il Sole della giustizia, della condivisione, della fraternità allargata fino ai confini dell’universo. Eppure, la conclusione del Vangelo sembra fare a pugni con il grande slancio con cui quel tale si avvicina al Signore Gesù: <Udita questa parola, il giovane se ne andò, triste; possedeva infatti molte ricchezze> (19, 22).

La prima lettura ci aiuta a cercare di cogliere che cosa i beni materiali e le possibilità esistenziali rappresentano realmente per noi. È necessario continuamente non identificare le nostre possibilità con la <delizia> (Ez 24, 16) della nostra vita. A quest’uomo manca qualcosa perché la sua vita è talmente ingombra da non avere spazio sufficiente per l’essenziale che è la relazione con qualcuno espressa mirabilmente in quell’invito solenne e destabilizzante al contempo: <Seguimi!>. Che senso mai avrebbe mettersi alla sequela di qualcuno se non si sente, in realtà, nessun desiderio e nessun bisogno di andare oltre ciò che si è sperimentato della vita attraverso la figura tragica dell’attaccamento. Il primo passo della sequela esige la disponibilità a mascherare la folle paura di scoprire qualcosa di più e di diverso da ciò che si conosce di se stessi e cui ci si è abituati. 

Per essere felici non basta osservare, ma è necessario trovare il fondamento di ogni atto e di ogni decisione per fare della morale un’espressione alta della libertà e non un sottoprodotto della costrizione della paura o dell’esaltazione da ansia di prestazione… che sono, in realtà, la stessa cosa. 

Mangiare

XX Domenica T.O.

Mangiare la carne del Figlio significa riconoscere profondamente ed essenzialmente che la vita non è in noi stessi. Essa non proviene <né da carne né da sangue> (Gv 1, 13), ma abbiamo bisogno di attingerla da colui che dà la vita al mondo, da colui che è la vita del mondo e che per il mondo si è fatto datore di vita accettando fino in fondo <di dare la vita> (15, 13). Mangiare significa così riconoscere di avere bisogno di attingere la vita, come pure mangiare significa manifestare – senza alcuna vergogna o paura – il desiderio profondo di entrare in relazione con l’altro in un legame d’amore che vivifica profondamente: “Ti mangerei” è ciò che dice la mamma al proprio figlio e l’amante all’amata e con questo si vuole dire la propria indigenza che sa di avere bisogno non solo di altro ma, soprattutto, dell’altro per vivere. Come spiega P. Bockel <L’amore si mangia. Dio è talmente Amore da chiedere di essere mangiato come pure mangiare Dio è il segreto desiderio dell’uomo avido di assoluto e di pienezza>. Perché questo mangiare sia vivificante dev’essere con-viviale, deve essere la risposta ad un invito ad entrare in comunione: <Venite> dice la Sapienza <mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato> (Pr 9, 5). Questa è l’immagine inversa di ciò che accadde nel Giardino dell’Eden ove la donna stese la mano e prese e l’uomo accettò di mangiare nella stessa modalità, con il medesimo modo auto-referenziato e dimentico di quel limite posto da Dio non per invidia o prepotenza. Al contrario per desiderio di relazione e di com-presenza nel cammino delle sue creature a cui aveva fatto il più grande dei doni: la libertà di essere come lui liberi. Ciascuno di noi è, secondo quanto dice il libro dei Proverbi, un <inesperto> (Pr 9, 4) che ha bisogno di imparare a mangiare come dei bambini che devono passare dal latte al pane: dal cibo per me al cibo per noi. Imparare la Sapienza significa abbandonare ogni pretesa ed essere docili ad ogni invito che ci viene dal profondo del cuore ad <andare diritti per la via dell’intelligenza> (9, 6). È lo stesso pressante invito che ci fa l’apostolo: <fate molta attenzione al vostro modo di vivere, comportandovi non da stolti ma da saggi> (Ef 5, 15) e aggiunge <non ubriacatevi di vino, che fa perdere il controllo di sé, siate invece ricolmi dello Spirito> (5, 18). Uno dei miti più “resistenti” della tradizione cristiana e che continua a conoscere infinite metamorfosi è proprio quello del Santo Graal. Da sempre si è identificato in un qualche calice – conservato con infinita cura – quello in cui il Signore Gesù avrebbe celebrato la sua Cena Pasquale o in cui sarebbe stato raccolto il suo preziosissimo sangue sotto la croce. Il Santo Graal è la nostra vita interiore nella cui coppa siamo chiamati ad accogliere la grazia per poterla condividere con tutti.

Manger

XX Dimanche du T.O. 

Manger la chair du Fils signifie reconnaître profondément et essentiellement que la vie n’est pas en nous-mêmes. Elle ne provient ” ni de la chair, ni du sang ” ( Jn 1, 13 ), mais nous avons besoin de la puiser en celui qui donne la vie au monde,  en celui qui est la vie du monde et qui s’est fait donneur de vie en acceptant totalement ” de donner la vie ” ( 15, 13 ). Ainsi, manger signifie reconnaître avoir besoin de puiser la vie, tout comme manger signifie aussi manifester – sans aucune honte ou peur – le désir profond d’entrer en relation avec l’autre dans  lien d’amour qui vivifie profondément : ” Je te mangerais” voici ce que dit la maman à son propre fils et l’amant à la bien-aimée, signifiant par là sa carence d’avoir besoin non seulement d’autre chose, mais surtout de l’autre pour vivre. Comme l’explique P. Bockel : ” L’amour se mange. Dieu est tellement Amour qu’Il demande d’être mangé, ainsi, manger Dieu est le secret désir de l’homme avide d’absolu et de plénitude “. Pour que cet acte de manger soit vivifiant il doit être con-vivial, et devenir la réponse à une invitation à entrer en communion : ” Venez ” dit la Sagesse ” mangez mon pain, buvez le vin que j’ai préparé ” ( Pr 9, 5 ). Ceci est l’image inverse de ce qui arrive dans le Jardin de l’Eden où la femme tendit la main et prit et l’homme accepta de manger de la même manière, de la même façon auto-référentielle en oubliant cette limite posée par Dieu, sans lien avec l’envie ou la toute-puissance. Mais, au contraire, par désir de relation et de co-présence sur le chemin de ses créatures à qui il avait fait le plus grand des dons : la liberté d’être libres comme Lui. Chacun de nous est, selon ce que dit le livre des Proverbes, un ” inexpérimenté ” ( Pr 9, 4 ) qui a besoin d’apprendre à manger comme des enfants qui doivent passer du lait au pain : du repas pour moi au repas pour nous. Apprendre la Sagesse signifie abandonner chaque prétention et être dociles à chaque invitation qui nous vient de la profondeur du coeur pour ” aller tout droit sur la voie de l’intelligence ( 9, 6 ). C’est la même invitation pressante que nous fait l’apôtre : ” Faites très attention à votre façon de vivre, comportez-vous non comme des fous, mais comme des sages “. ( Eph 5, 15 ) et, il ajoute : ” ne vous saoulez pas de vin qui fait perdre le contrôle de soi, soyez, au contraire, rassasiés de l’Esprit  ” ( 5, 18 ). L’un des mythes les plus ” résistants” de la tradition chrétienne et qui continue à connaître d’infinies métaphores, est vraiment celui du Saint Graal. Depuis toujours il est identifié à un certain calice – conservé avec beaucoup de soin – le calice dans lequel le Seigneur Jésus aurait célébré sa Cène Pascale ou dans lequel aurait été recueilli son très précieux sang sous la croix. Le Saint Graal est notre vie intérieure, coupe dans laquelle nous sommes appelés à accueillir la grâce pour pouvoir la partager avec tous. 

Cuore nuovo

XIX settimana T.O.

Il profeta Ezechiele non solo cerca di dare voce al cuore di Dio, ma lo fa in modo così toccante da rivelarcene un volto assolutamente appassionato della nostra umanità. Nel nostro modo di intendere e di vivere la responsabilità personale, ci sembrerà scontato che ciascuno paghi per le proprie colpe e non per quelle degli altri, foss’anche per quelle dei propri figli o dei propri padri. Ma in antico – e forse anche nelle zone più antiche della nostra anima – le cose non erano percepite in questo modo e il senso di solidarietà parentale era tale per cui il detto non solo veniva tramandato, ma talora veniva tremendamente applicato: <I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati> (Ez 18, 2). Davanti a questa sorta di maledizione che sembrerebbe propagarsi inesorabilmente il Signore, attraverso la bocca e il cuore del suo profeta, reagisce energicamente: <Ecco, tutte le vite sono mie: la vita del padre e quella del figlio è mia; chi pecca morirà> (18, 4).

Per il Signore Dio la libertà di ciascuno dei suoi figli non solo è un bene inalienabile, ma rappresenta pure un tesoro di cui prendersi cura: <Perciò io giudicherò ognuno di voi secondo la sua condotta> (18, 30). Questo testo rappresenta realmente uno stadio evolutivo della percezione della nostra umanità fondata nel modo in cui essa è percepita dal Creatore. Così l’ascolto e la docilità alla Parola di Dio contenuta nelle Scritture diventa realmente un’occasione preziosa di incremento di sensibilità e non una mortificazione della propria libertà di porsi nella vita nel modo non solo oggettivamente migliore, ma pure nel modo più corrispondente a se stessi. Se Ezechiele ci ricorda quanto siamo liberi di orientare la nostra vita, il Signore Gesù nel Vangelo ci ricorda il dovere di accompagnare ogni crescita e di farci carico di ogni indizio che prometta vita.

Ai discepoli preoccupati di assicurare al loro Maestro la quiete e l’onorabilità, il Signore Gesù oppone la sua preferenza per la vita vera e vissuta. Il Signore non si sente disturbato dalla vita, ma se ne fa profondamente carico per cui sente un appello e non un fastidio la richiesta di imporre <loro le mani> (Mt 19, 13) e di pregare per i piccoli. Con questo gesto di imposizione delle <mani> (19, 15), il Signore riconosce in questi piccoli una promessa di vita che ha bisogno di essere accompagnata con la benevolenza e l’ammirazione che fanno crescere. Non solo, la parola del Signore allarga ulteriormente la prospettiva invertendo il modo di guardare e valutare la realtà: <Lasciateli, non impedite che i bambini vengano a me; a chi è come loro, infatti, appartiene il regno dei cieli> (19, 14). Entrare nel regno significa lasciarsi accompagnare da un gesto di accoglienza e di benedizione nella coscienza di non poter contare se non sulle proprie potenzialità di vita che hanno comunque bisogno di essere messe a frutto. Nel <bambino> il Signore Gesù scorge quel mondo di possibilità che è sempre connesso ad un mondo di fragilità che esige attenzione, ma che pure apre il cuore alla speranza di un futuro. Il regno dei cieli è davanti a noi e non alle nostre spalle! Chissà come mai la religione ha sempre un così forte tanfo di passato e così raramente profumo di avvenire?! Per ritornare ad Ezechiele, è tutta questione di <cuore>, di <cuore nuovo> (Ez 18, 31).

Situazione

XIX settimana T.O.

Quando si parla di “certe cose” tutti sembrano raddrizzare le orecchie! Sembra che anche gli apostoli normalmente spettatori abbastanza remissivi delle diatribe accademiche tra Gesù e i farisei, questa volta sembrano seguire lo snodarsi della discussione con particolare interesse. E mentre i farisei almeno cercano di dare l’impressione di chiedere, i discepoli, invece, giungono rapidamente alla conclusione forse nella speranza che il Maestro dica in modo chiaro e semplice quale sia il suo pensiero attorno all’argomento in questione. I farisei chiedono: <è lecito…?> e i discepoli concludono: <Se questa è la situazione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi> (Mt 19, 10). Il Signore Gesù sembra confermare la conclusione dei discepoli e sembra dire: no, non conviene!

Al contempo il modo di procedere del Signore è esattamente agli antipodi di quello dei farisei che è spesso il nostro stesso modo di pensare e di argomentare poiché sposta l’attenzione dal livello del lecito e da quello della convenienza verso il livello del giusto e del buono che si fonda sulla creazione di Dio che <li fece maschio e femmina> e aggiunge che <Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie> (19, 5). La combinazione dei due racconti della creazione permette al Signore Gesù di riconoscere la pari dignità dell’uomo e della donna così come è sancita nel testo sacerdotale, e sottolinea il dovere proprio dell’uomo di fare un passo verso la donna accettando di tagliare i legami parentali per aprirsi ad un’alleanza di vita che lo espone alla vita. In caso di dubbio l’uomo se è responsabile della scelta di una donna, non può certo esporla all’adulterio. 

I discepoli sorpresi dicono <se questa è la situazione dell’uomo rispetto alla donna…> allora non conviene, mentre il Signore ricorda che ciò che è da superare è proprio l’orizzonte della convenienza ma questo <non tutti> lo <capiscono> perché è troppo esigente. La prima lettura ci aiuta a comprendere quale sia la situazione della nostra umanità – sia uomini che donne – al cospetto del Creatore: <… giungesti fino ad essere regina> (Ez 36, 13). La cura di Dio per noi dovrebbe renderci capaci di altrettanta cura nei confronti degli altri specialmente quando sono più deboli e più poveri.

Se scegliere suppone saper rinunciare… essere fedeli esige la scelta assoluta della cura del più debole. 

Salire

Assunzione di Maria

La prima lettura prevista per la Messa della Vigilia di questa solennità ci porta lontano. Si evoca, infatti, il momento del trasporto dell’arca dell’alleanza: <per far salire l’arca del Signore nel posto che le aveva preparato> (1Cro 15, 3). Sembra che tutta la vita di Davide sia come sospesa e portata a pienezza da questo gesto che, se da una parte segna l’apogeo della sua regalità, ne è pure come la presa di coscienza del dover continuamente fare un passo indietro per mettere la propria vita a servizio di una presenza che trascende tutte le presenze… quella dell’Altissimo. La solennità dell’Assunzione di Maria al cielo è celebrata dai nostri fratelli orientali col titolo di <Dormizione della Madre di Dio>. Se paragoniamo una tela come quella di Guido Reni con le icone orientali possiamo constatare come si dica la stessa cosa ma con una differenza fondamentale: nell’icona bizantina è sottolineato l’abbandono assoluto di Maria nel sonno della morte senza più conoscere la paura di morire, tanto che la sua vita è custodita e abbracciata dal Signore Risorto che è il vero centro non solo dell’icona, ma della storia intera.

La scelta di leggere il Vangelo della Visitazione per questa festa è un modo per aiutare noi che siamo ancora pellegrini nella vita e nella fede a comprendere meglio cosa significhi salire e trovare il proprio posto nella vita: <Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa…> (Lc 1, 39). Maria sale per servire, accompagnare, sostenere la sua parente Elisabetta e proprio per questo viene riconosciuta e rivelata come <la madre del mio Signore> (1, 43). Sembra che l’annuncio di Gabriele abbia bisogno di essere confermato dal saluto di Elisabetta. Così pure nella nostra vita le intuizioni più profonde hanno bisogno di essere confermate da scelte concrete di servizio e di amore gratuito. Quando una donna presa da entusiasmo esclama: <Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!> (Lc 11, 27), la reazione del Signore Gesù non si fa attendere: <Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!> (11, 28).

In questo modo è lo stesso Signore Gesù a farsi interprete ed esegeta del cammino di sua madre. Maria che ha portato nel suo grembo l’autore della vita come vera arca che contiene i segni della promessa trova infine il suo <posto> (1Cro 15, 3) perché, attraverso tutta la sua vita, ha saputo fare posto alla presenza di Dio fino a darle la sua carne e il suo amore. Ora tocca a noi di saper ogni giorno scegliere il posto che ci indica il Vangelo – quello degli <umili> (Lc 1, 52) – per far posto al Signore nella nostra vita e trovare in Lui il compimento e la pienezza di ogni desiderio e di ogni anelito. L’apostolo ci ricorda che <è necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi> (1Cor 15, 25). Il <drago> (Ap 12, 4) contro cui anche noi dobbiamo lottare perché non divori le primizie del nostro desiderio e del nostro amore è il tarlo dell’egoismo che rischia di renderci sterili di vita. Se accettiamo di fare posto alla logica del Vangelo di dedizione e di libertà da noi stessi, sarà lo stesso Signore a preparare per noi un <rifugio> (12, 6). Maria è il modello della nostra umanità in cammino che non si ferma mai, nemmeno quando la strada è in salita non solo verso la casa di Elisabetta ma persino quando sale l’erta dolorosa del Calvario. La grandezza di Maria è stata quella di essere discepola del Signore… giorno dopo giorno… passo dopo passo… sino alla fine tanto che la sua persona nella totalità del suo essere donna – in tutte le sue dimensioni – è stata avvolta da una luce ineguagliabile perché ha saputo assumere la tenebra più profonda dell’obbedienza e dell’amore.

In mezzo

XIX settimana T.O.

È come se le due letture andassero in senso inverso eppure alla fine, misteriosamente, riuscissero a confluire. Nel testo di Ezechiele siamo posti di fronte ad un dilagare dello sterminio che sembra un diluvio di sangue che si propaga a partire dai sacri recinti del tempio senza nessun timore di profanarlo. Nel Vangelo siamo messi di fronte ad un dilagare del perdono che, seppur riconosce al fratello la libertà di non ascoltare e di non convertirsi, sembra comunque non arrendersi. Si potrebbe così dire che lo <strumento di sterminio> (Ez 9, 1) diventa lo strumento del perdono previo che libera, attraverso la parola rivolta al fratello, la possibilità di cambiare e di convertirsi. Se il Signore Gesù ci dà una procedura da osservare e da seguire nella correzione fraterna ci offre anche, subito dopo e con maggiore solennità, un criterio di valutazione globale: <In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato anche in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo> (Mt 18, 18). Questa parola così forte dovrebbe rallentare fino ad eliminare i nostri processi di giudizio soprattutto quando rischiano di essere sommari e superficiali. Il Signore sembra sussurrare al nostro cuore: “Fate attenzione, fate molta attenzione quello che voi deciderete sulla terra per il vostro fratello, sarà ratificato in cielo!”.

Nella storia della Chiesa questo versetto del Vangelo è stato, spesso e volentieri, interpretato e usato come una sorta di lasciapassare per l’esercizio di un potere assoluto e non raramente dispotico tanto da essere, in alcuni casi, sanguinario e in chiaro contrasto con il Vangelo. Ciò che ha permesso questa triste deriva è l’accoglienza di questa parola del Signore come investitura per l’esercizio di un potere. A ben guardare questa parla è un invito alla discrezione e all’attenzione verso il fratello nella continua ricerca di un punto di contatto con il suo cammino che permetta di ritrovare le vie di una riconciliazione e intesa. Queste vie sono sempre possibili nella misura di un desiderio buono: <In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro> (Mt 18, 19-20).

Quando viviamo un conflitto e soprattutto quando decidiamo di seguire la “linea dura” in quelle che sono le nostre relazioni fraterne, siamo invitati a fare mente locale su quanto diamo spazio <in mezzo> – tra noi e il fratello con cui siamo in conflitto – alla presenza del Signore, la quale dovrebbe essere capace di mutare profondamente il nostro modo di sentire e di portare le difficoltà nella relazione passando dalla logica dello <sterminio> a quella del perdono unilaterale e assoluto. Il profeta Ezechiele ci aiuta a comprendere il ruolo della presenza di Cristo al cuore delle nostre relazioni soprattutto quando sono difficili e duramente esigenti: <In mezzo a loro c’era un altro uomo, vestito di lino, con una borsa di scriba al fianco> (Ez 9, 2). A questo settimo uomo, che sta in mezzo agli altri <sei uomini> muniti dello <strumento di sterminio>, viene affidato un compito preciso: <segna un tau sulla fronte degli uomini che sospirano e piangono per tutti gli abomini che vi si compiono>. Se seguiamo il Signore Gesù non potremo che risparmiare chiunque dallo sterminio del giudizio sperando che sia fatto altrettanto nei nostri confronti. Se proprio non riusciamo a risparmiare, la presenza del Signore <in mezzo> alle nostre relazioni fraterne dovrebbe almeno rallentare le nostre operazioni di giustizia sommaria.

Volontà

XIX settimana T.O.

Il profeta Ezechiele è invitato a volgersi e a farsi saziare da questa <mano tesa> (Ez 2, 9) che lo nutre come si fa con i piccoli perché possano crescere fino a diventare autonomi e capaci di offrire un servizio e una testimonianza. Il Signore Gesù non ci lascia alcun dubbio: <Così è la volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda> (Mt 18, 14). Se il contesto in cui il Signore Gesù racconta la parabola del pastore che se ne va in cerca della pecora perduta è per Luca quello della diatriba con i <farisei> (Lc 15, 1) e della loro resistenza davanti alla misericordia e alla benevolenza dimostrata verso i peccatori, l’evangelista Matteo contestualizza il racconto di questa parabola all’interno del discorso sulla vita della Chiesa e dei processi necessari perché la comunità di fede sia un luogo di salvezza, di pace, di gioia… e lo sia non solo per alcuni ma, veramente, per tutti.

La parabola risponde ad un’interrogazione che non viene dall’esterno, ma dall’interno del gruppo dei discepoli: <Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?> (Mt 18, 1). Clemente d’Alessandria spiega così: <La Scrittura ci chiama tutti “bambini”; quando ci mettiamo a seguire Cristo, riceviamo il nome di “piccoli” (Mt 18,3; 19,13; Gv 21,5). Chi è dunque il nostro educatore, pedagogo, per noi, i piccoli? Si chiama Gesù. Si dà lui stesso il nome di pastore; si definisce “il buon pastore” (Gv 10,11). Stabilisce un paragone tra i pastori che guidano le pecore e lui stesso, il maestro che dirige i bambini, il pastore pieno di sollecitudine per i piccoli che, nella loro semplicità, sono paragonati a delle pecore>1.

Allevare un piccolo significa permettergli un accesso dignitoso alla vita per dargli la possibilità di stare in piedi davanti a Dio e davanti ai suoi fratelli, di camminare a testa alta per le strade della vita portando a pienezza i doni ricevuti, e tutto ciò non smette di essere valido e vero persino o addirittura ancora di più quando <si smarrisce> (Mt 18, 12). Se da una parte il Signore esorta ciascuno di noi a <non essere ribelle> (Ez 2, 8), nondimeno non smette mai di nutrire la nostra libertà attraverso il pane <dolce> (3, 4) della sua <volontà> (Mt 18, 14) di Padre. Come padre si compiace della crescita e persino delle trasgressioni dei suoi figli lanciati alla scoperta della vita; come pastore guarda stupito e soddisfatto il suo gregge che cresce non senza una certa intima predilezione per le pecore più audaci e coraggiose nel cercare nuovi pascoli e possibilità più ampie di vita. In una parola siamo incoraggiati a non temere di essere piccoli, persino siamo sostenuti a non avere paura dei nostri smarrimenti perché il Signore ci cerca, ci trova, ci consola… ci rilancia continuamente nella vita come le pecore davanti alle quali al mattino si apre la porta del recinto per spalancare l’orizzonte del pascolo. 


1. CLEMENTE D’ALESSANDRIA, Il Pedagogo, I, 53.

Prevenuti

XIX settimana T.O.

L’evangelista Matteo ci mette di fronte ad una delicatezza da parte del Signore il quale <prevenne> (Mt 17, 25) il povero Pietro che doveva sentirsi abbastanza imbarazzato per la richiesta di pagare la tassa per il tempio. Questo racconto assai particolare, con un modo di pagare le tasse a cui certo non ci dispiacerebbe poter ricorrere, è, in realtà, un’ulteriore esplicitazione del senso profondo di quella parola sulla Pasqua che il Signore Gesù ha appena annunciato ai suoi discepoli gettandoli nello sconforto: <Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato…> (17, 22). La domanda circa la differenza tra i <figli> e gli <estranei> la cui risposta viene a Pietro – immediata ed esatta – sembra essere capovolta dalla scelta del Figlio di assoggettarsi alla regola degli estranei rinunciando così ad ogni privilegio. L’ombra luminosa della croce già si staglia all’orizzonte non solo del cammino del Signore Gesù, ma anche per ciascuno dei suoi discepoli.

La <visione> (Ez 1, 28) del profeta Ezechiele si trasforma così come lo sfondo necessario su cui bisogna continuamente rileggere il mistero di una vita che si consegna rinunciando ad ogni forma di privilegio e di esenzione. Se <i figli sono liberi> (Mt 17, 26) lo sono proprio nella misura in cui accettano di essere i primi a mettere in gioco la propria vita. La parola che il Maestro sembra quasi sussurrare al suo discepolo <Prendila e consegnala loro per me e per te> (17, 27), diventa una regola di vita segnata dalla logica pasquale della consegna di sé piuttosto che della salvaguardia di se stessi attraverso la difesa e la creazione di un sistema di privilegi che, in realtà, rischia di separare dal flusso della vita fino a renderci estranei alle dinamiche ordinarie e vitali dell’esistenza. La rivelazione che sembra raggiungerci fino a scuoterci è quella di un Dio cui non dobbiamo pagare nessuna tassa, ma con cui siamo chiamati a giocare la nostra vita in un dinamismo di reciproco dono di cui fa parte una sottile complicità, come quella vissuta tra Pietro e il Signore Gesù.

La preghiera che la Chiesa ci fa rivolgere al Padre assume tutto il suo senso di gratuità alla luce del Vangelo: <Dio onnipotente ed eterno, che ci dai il privilegio di chiamarti Padre, fa’ crescere in noi lo spirito di figli adottivi, perché possiamo entrare nell’eredità che ci hai promesso>. Non solo tutta la nostra vita, ma persino tutto il nostro combattimento spirituale ha come fine questo processo di auto-riconoscimento che passa attraverso la consapevolezza di essere figli dell’Altissimo. Il Signore Gesù si dona a noi come la porta stretta attraverso cui possiamo entrare in questo mistero di intimità con Dio. La porta non è stretta perché angusta, ma è stretta per sottrarre ad occhi indiscreti le gioie che si vivono nella casa del Padre, le quali non possono essere donate se non a chi desidera aprirsi realmente al dono di una relazione che trasforma il cuore, la mente, le logiche.