Oltrepassare

S. Maria Maddalena

Come ricorda un poeta contemporaneo in Maria di Magdala l’intimità non elimina la venerazione, e l’amore si esprime nel grado più sommo nell’adorazione: <Questa riverenza di Maria verso Cristo la troviamo già nel modo in cui cerca il corpo dell’amato: “Hanno portato via il mio Signore”>1. In queste parole disperate che Maria continua a ripetere prima agli apostoli asserragliati nel Cenacolo e poi al misterioso giardiniere che sembra essere la sua ultima speranza, tradiscono nel senso che manifestano il desiderio più grande di questa donna privata della persona più importante della sua vita: <Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo> (Gv 20, 15). Sembra che il Signore Risorto aspetti questa dichiarazione di intenti di Maria per rivelarsi a Lei come Vivente. Anche Maria di Magdala deve fare il suo cammino pasquale di conversione racchiuso in quel significativo <si voltò> (20, 16). Maria pensa che qualcuno abbia preso il Signore e lo abbia portato via e, in tal modo, rivela il suo più grande desiderio in quella corsa mattutina alla luce incerta dell’aurora: prendere in qualche modo il Signore e portarselo via!

Invece il cammino della risurrezione è ben altro del cammino della morte. Mentre la disperazione del lutto e della perdita tende a racchiudere e conservare le piccole e grandi memorie dell’amore, la vita esige non la privatizzazione ma la più ampia condivisione: <ma va’ dai miei fratelli…> (20, 17). Non è difficile immaginare quali potessero essere i sentimenti di Maria verso il gruppo degli apostoli che avevano abbandonato, tradito e rinnegato il Maestro. Eppure, il mattino di Pasqua è il momento di una rivelazione che vince tutte le morti nella relazione aprendo albe insperate, inattese… umanamente impossibili: <Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così> (2Cor 5, 16).

Maria di Magdala pensava di avere un appuntamento con la morte ed ecco che si ritrova davanti alla Vita. Maria di Magdala pensava di doversi misurare con una inconsolabile solitudine e si ritrova tra <fratelli>. Non le viene permesso di rintanarsi nel suo dolore, ma viene continuamente disorientata per essere radicalmente ri-orientata. Le parole del Cantico segnano il ritmo del cammino di discepolanza: <Da poco le avevo oltrepassate quando trovai l’amore dell’anima mia> (Ct 3, 4). Per risorgere bisogna andare oltre, ben oltre fino ad oltrepassare se stessi per fare veramente Pasqua in cui tutto sembra uguale ma tutto è radicalmente diverso: <Rabbuni!> (Gv 20, 16). Al cuore del nostro tempo di vacanza o, comunque, di ritmo di vita più disteso possiamo spiritualmente fare un giro nel giardino nuovo per dare un pizzico di profumo e di passione alla nostra relazione con Cristo che è la nostra vita, la nostra gioia. Appena alzati potremmo ricominciare a parlare con un sonoro <Alleluia!>.


1. G. HALDAS, Marie di Magdala, Lausanne, 2008, p. 68.

Riposo

XV Domenica T.O.

Ci potremmo chiedere: che cos’è il riposo secondo il Signore Gesù. La liturgia della Parola di oggi dà un nome preciso al riposo a cui Gesù invita i discepoli e questo nome è <pace>. Paolo nella seconda lettura lo dice chiaramente: <Egli infatti è la nostra pace> (Ef 2, 14). La pace di cui parla Paolo non è di certo statica ma assolutamente dinamica e, perciò, costruttiva e inventiva. Più precisamente ciò che dà pace è la capacità di fare unità dentro di noi <eliminando in se stesso l’inimicizia> (2, 16). Ciò che commuove Gesù davanti alla folla è il fatto di vederla dispersa e ciò che preme a Gesù davanti agli apostoli, reduci dalla loro prima missione, è quello di far ritrovare loro l’unità. Geremia deplora nella prima lettura i falsi e indegni pastori perché <fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo> (Gr 23, 1). La promessa di Dio è proprio questa <radunerò io stesso il resto delle mie pecore> (23, 3). Anche noi spesso ci sentiamo stanchi e desideriamo trovare riposo, ma sarebbe vano cercarlo solo fuori di noi, appunto in un luogo appartato. Questo riposo dobbiamo costruirlo dentro di noi facendoci docili all’invito del Pastore Grande che ci invita a seguirlo anche <per una valle oscura> (Sal 22, 4) verso quei pascoli e quelle acque in cui <il Signore mi fa riposare> (22, 2). Il Pastore ci invita ad esserne capaci <a motivo del suo nome> (22, 3) proprio <facendo la pace> (Ef 2, 15) con i lontani e con i vicini, con ciò che ci sta dietro e con ciò che ci sta davanti, con ciò che portiamo dentro di noi e con ciò che dobbiamo affrontare fuori di noi. Anche noi come gli apostoli saremo forse tentati di raccontare al Signore Gesù tutto quello che siamo capaci di fare e di insegnare. Il Signore, da buon pastore, ci chiede di fare un altro pezzo di strada, più precisamente di <barca> (Mc 6, 32) per farci imparare a porre lo sguardo sugli altri fino a farci toccare profondamente dalla loro presenza e dai loro bisogni. Serafino di Sarov amava ripetere: <Trova la pace e a migliaia accanto a te troveranno salvezza>. Solo se costruiremo dentro di noi la pace, quale superamento di ogni attaccamento a noi stessi, potremo trovare riposo e saremo in grado di <presentarci gli uni e gli altri al Padre in un solo Spirito> (Ef 2, 18). Saremo sempre più e meglio capaci di presentarci gli uni agli altri per vivere con gli altri fino ad essere pronti a vivere per gli altri solo se ameremo di stare <da soli> (Mc 6, 31) con il Signore Gesù. In questa intimità continuamente ritrovata coltiveremo la sua presenza riposante nella profondità del nostro cuore dove impariamo l’arte della pace… il respiro della <compassione> (6, 34). La compassione si apprende alla severa scuola del dolore in cui nessuno può sostituire nessuno, ma ognuno agisce in prima persona.

Repos

XVI Dimanche du T.O. 

Nous pourrions nous demander : qu’est donc le repos selon le Seigneur Jésus. La liturgie de la Parole de ce jour donne un nom précis au repos auquel Jésus invite ses disciples et ce nom est : ” paix “. Paul, dans la deuxième lecture le dit clairement : ” C’est Lui, en effet, notre paix” ( Eph 2, 14 ). La paix dont parle Paul n’est certainement pas statique mais absolument dynamique et donc, constructive et inventive. Plus précisément, ce qui donne la paix est la capacité de faire l’unité en nous  en éliminant en soi l’inimitié ” ( 2, 16 ). Ce qui émeut Jésus face à la foule est le fait de la voir dispersée et ce qui prime pour Jésus face aux apôtres réduits à leur première mission, est de leur faire retrouver l’unité. Jérémie déplore, dans la première lecture, les faux et indignes bergers car ” ils font mourir et dispersent le troupeau de mon pâturage ” ( Jr 23, 1 ). La promesse de Dieu est vraiment celle-ci ” je réunirai moi-même le reste de mes brebis ” ( 23, 3 ). Souvent, nous aussi, nous nous sentons fatigués et désirons trouver le repos, mais il serait vain de le chercher à l’extérieur de nous, dans un endroit à part. Ce repos, nous devons le construire en nous, en devenant dociles à l’invitation du Grand Berger qui nous invite à le suivre même ” dans les vallées obscures ” ( 22, 2). Le Berger nous invite à en être capables ” à cause de son nom ” ( 22,3 ) justement ” en faisant la paix ” ( Eph 2, 15 ) avec les lointains et les proches, avec ce qui est derrière nous et ce qui nous attend, avec ce que nous portons en nous et ce que nous devons affronter en dehors de nous. Comme les Apôtres, nous serons aussi tentés de raconter au Seigneur Jésus tout ce que nous sommes capables de faire et d’enseigner. Le Seigneur, en Bon Berger, nous demande de faire un autre bout de chemin, plus précisément de ” barque ” ( Mc 6, 32 ) pour nous apprendre à porter le regard sur les autres jusqu’à nous laisser toucher profondément par leur présence et leurs besoins. Seraphin de Sarov aimait répéter : ” Trouve la paix et des milliers autour de toi trouveront le salut “. C’est seulement si nous construirons en nous la paix, qui dépasse tout attachement à soi, que nous pourrons trouver le repos et seront en état de ” nous présenter les uns et les autres au Père en un seul Esprit “. ( Eph 2, 18 ). Nous serons toujours plus et mieux capables de nous présenter les uns aux autres pour vivre avec les autres jusqu’à être prêts à vivre pour les autres seulement si nous aimerons rester ” seuls ” ( Mc 6, 31 ) avec le Seigneur Jésus. Dans cette intimité, continuellement retrouvée, nous cultiverons sa présence reposante dans la profondeur de notre coeur où nous apprenons l’art de la paix…la respiration de la ” compassion ” ( 6, 34 ). La compassion s’apprend à la sévère école de la douleur où personne ne peut remplacer personne, mais où chacun agit à la première personne.

Meditano

XV settimana T.O.

Certo ci sono coloro che <meditano l’iniquità e tramano il male sui loro giacigli>. Se lo fanno è perché sentono, più o meno giustamente, di avere tra le loro mani <il potere> (Mi 2, 1). Questa tremenda percezione di <potere> a cui nessuno è insensibile diventa la base interiore per dare sfogo alla propria avidità insaziabile che acceca il cuore tanto da ritenere quasi giustificato il fatto di poter opprimere l’altro, soprattutto se viene avvertito come una minaccia che limita la nostra brama di illimitatezza che ingenera l’abuso. Ma non sono solo gli iniqui a meditare! Il Signore fa pure la sua parte: <Ecco, io medito contro questa genìa una sciagura da cui non potranno sottrarre il collo e non andranno più a testa alta> (2, 3).

Questa divina meditazione che cerca di arginare lo strapotere degli ingiusti che opprimono i più deboli diventa oggetto di profonda considerazione da parte del Signore Gesù. Infatti, mentre i farisei <tennero consiglio contro Gesù per farlo morire> (Mt 12, 14), il Signore fa due cose: <guarì tutti e impose loro di non divulgarlo> (12, 15-16). Sembra che non si voglia irritare ulteriormente la sensibilità già avvelenata dei farisei e per quanto non si possa rifiutare l’aiuto e la compassione a quanti ne hanno bisogno, nondimeno questo viene fatto da Gesù in modo discreto e tenendo il profilo più basso possibile.

Come in altri momenti importanti della vita e dell’insegnamento del Maestro, l’evangelista Matteo ci tiene ad annotare che ciò viene fatto <perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia…> (12, 17). Siamo così condotti dalla meditazione dell’evangelista al cuore stesso della meditazione di Cristo Signore che sembra essersi impregnato dei carmi del Servo del Signore, meditandoli fino ad incarnarli nella sua passione: <Non contesterà né griderà né si udrà nelle piazze la sua voce> (12, 19). Questo esercizio interiore di meditazione e di assimilazione della Parola fa di Gesù l’incarnazione stessa del Verbo eterno del Padre in uno stile di assoluta mitezza che lo stesso Signore deve aver dovuto imparare e limare giorno dopo giorno.

Da questa fermezza con se stesso nasce l’infinita dolcezza nei confronti degli altri: <Non spezzerà una canna già incrinata, non spegnerà una fiamma smorta> (Mt 12, 20). Entrare nella meditazione divina significa per noi imitarne tutta la dolcezza e quel senso di rispetto persino per quanti meditano di farci del male e di umiliarci. Impariamo da Cristo Signore non solo la sua mitezza e la sua umiltà, ma pure il suo rispetto assoluto per la nostra fragilità, le nostre deviazioni, le nostre ricerche caotiche e spesso confuse, per fare altrettanto nei confronti dei nostri fratelli e sorelle in umanità. Entriamo nella sua stessa meditazione che non si lascia coinvolgere dal modo di pensare dei farisei, e impariamo ad affinare uno sguardo giusto e discreto che accoglie la differenza scorgendovi non immediatamente una minaccia, ma una possibilità di incremento nella varietà della vita. Se riconosceremo di essere poveri e di essere oggetto di attenzione e di compassione non potremo che aprirci del tutto naturalmente ad una solidarietà autentica e creativa… quasi gaia.

Senza colpa

XV settimana T.O.

Per due volte il Signore Gesù cerca di attirare l’attenzione dei farisei su una possibilità che forse sfugge alla loro comprensione interiore ormai abituata ad una meccanica di colpevolizzazione che rischia di uccidere la speranza e la fede. Dapprima una domanda: <O non avete letto nella Legge che nei giorni di sabato i sacerdoti nel tempio vìolano il sabato e tuttavia sono senza colpa?> (Mt 12, 5). In seguito, un’affermazione così chiara da essere in realtà la vera interrogazione: <Se aveste compreso che cosa significhi: “Misericordia io voglio e non sacrifici”, non avreste condannato persone senza colpa> (12, 7). In questa diatriba siamo condotti nel merito di uno dei temi più forti e ricorrenti dell’annuncio di Gesù, forse il fondamentale: aldilà e ben prima delle scelte e delle questioni pratiche vi è un modo di concepire la vita che non può che fondarsi su un modo di pensare a Dio e a se stessi. Se la <colpa> diventa il motore della relazione con Dio e non la <misericordia> allora è chiaro che tutto si svolgerà e, prima ancora, si sentirà in un certo modo e sarà avvertito in una certa direzione che è quella della colpevolizzazione.

Nella prima lettura leggiamo come da parte del Signore, invece, ci sia una capacità persino di tornare <indietro> (Is 38, 8) sulle proprie decisioni rendendo possibile l’impossibile, come se <il sole> retrocedesse <di dieci gradi sulla scala che aveva disceso>. Eppure, quello che a noi sembra non solo impossibile e forse persino non augurabile diventa reale a partire dalla capacità di non leggere ogni cosa a partire dalla <colpa>, ma ripartendo continuamente dalla <misericordia>. Il primo passo è quello di verificare il nostro modo di leggere e di interpretare le Scritture e la tradizione perché esse non si trasformino in un giogo opprimente e insopportabile, ma in un’esperienza di grazia: <Non avete letto quello che fece Davide…?> (Mt 12, 3).

Rispettando la Legge senza leggerla in profondità di certo ci si assicura la tranquillità della coscienza. Decidendosi per la conversione nulla è più così chiaro e scontato, ma ci si apre all’accoglienza di Dio e dell’altro che tutto ricrea. Come Ezechia anche noi senza vergogna e con una punta di santo orgoglio possiamo rivolgerci a Dio dall’abisso del nostro dolore che non necessariamente e comunque non sempre è un abisso di colpa: <Signore ricordati che ho camminato davanti a te…> (Is 38, 3). A ben pensare forse siamo migliori di quanto noi stessi riusciamo a pensare di noi stessi. Il Signore Gesù non esita a creare un parallelo tra il comportamento dei discepoli e quello di Davide affamato con i suoi compagni e dei sacerdoti impegnati quotidianamente nel culto. Il Signore, con un ragionamento sottile, ci ricorda che lo scandalo non sta nel raccogliere le spighe in giorno di sabato, ma nel non sapere condividere con gli altri. In realtà è l’egoismo l’unica vera trasgressione imperdonabile.

Sentiero

XV settimana T.O.

Il profeta Isaia ci aiuta a cogliere il mistero e la forza di quell’opera interiore continuamente compiuta dal Signore Dio al cuore della nostra storia personale: <Signore, ci concederai la pace, perché tutte le nostre imprese tu compi per noi> (Is 26, 12). Ci sono molti modi per compiere l’impresa della vita, il profeta ce ne rammenta una – tra l’altro rievocata dallo stesso Signore Gesù alla vigilia della sua passione (Gv 16, 21) – che ha la caratteristica di una certa unicità: <Come una donna incinta che sta per partorire si contorce e grida nei dolori, così siamo stati noi di fronte a te, Signore> (Is 26, 17). La vita cammina e cresce dentro di noi, eppure né cresce né cammina senza di noi, ma ha bisogno della nostra accoglienza e di tutta la nostra cura e della nostra passione altrimenti si avvera quanto il profeta aggiunge: <era solo vento> (26, 18)!

La parola del Signore Gesù, particolarmente breve eppure così incisiva, ci svela il modo più adeguato per essere fecondi senza cercare il successo e l’apparenza. Si tratta di imparare da lui che si autocomprende e si offre come parametro di discernimento per comprendere come e quanto la nostra vita stia veramente crescendo e si stia veramente fortificando. Il nostro cammino interiore sembra dover essere radicalmente orientato a poter dire a nostra volta <sono mite e umile di cuore> (Mt 11, 29). Certamente bisogna concentrare la propria attenzione sull’essere mite e umile, ma forse ancora di più sul cuore. È al livello del cuore che il Signore ci chiede di riformare continuamente la nostra vita perché non sia solo <vento>, ma sia capace di una fecondità serena per quanto segreta e nascosta agli occhi di coloro che quantificano il senso e il valore della vita sull’apparenza e sul successo.

Per Isaia sembra non solo chiaro ma assolutamente bello: <Il sentiero del giusto è diritto, il cammino del giusto tu rendi piano> e aggiunge <Sì, sul sentiero dei tuoi giudizi, Signore, noi speriamo in te; al tuo nome e al tuo ricordo si volge tutto il nostro desiderio> (Is 26, 8). Abituati a sentire le esigenze della relazione con Dio come un <giogo> da portare più o meno volentieri, il Signore Gesù ricorda ancora a noi suoi discepoli come ai suoi contemporanei che il <peso> di questo giogo è <dolce> e <leggero> (Mt 11, 30), nella misura in cui è condiviso e portato insieme… anzi insieme desiderato. Eppure, come non si improvvisa il cammino su un <sentiero> che esige di essere percorso passo dopo passo, così pure il cammino della mitezza e dell’umiltà non è una teoria ma può essere solo un’esperienza che si può condividere ma che, per molti aspetti, rimane un mistero da vivere con amore ma senza troppo pensarci. Il profeta sembra ulteriormente incoraggiarci in questo cammino: <Sì, la tua rugiada è rugiada luminosa, la terra darà alla luce le ombre> (Is 26, 19).

Decisione

XV settimana T.O.

L’affermazione del Signore Gesù riguardo al Padre ha un’intensità del tutto particolare tanto da potersi considerare altamente rivelativa: <perché così hai deciso nella tua benevolenza> (Mt 11, 26). Siamo introdotti con queste parole al cuore stesso del mistero trinitario ove l’amore si fa decisione e ove la decisione si esprime in termini di predilezione che diventa una presa di posizione netta a favore dei <piccoli> (Mt 11, 25). In tal modo ci viene rivelato dal Figlio ciò che più di ogni altra cosa stia a cuore al Padre: la preminenza assoluta dell’attenzione verso ciò e, soprattutto, verso chi non può darsi attenzione da se stesso, ma attende che qualcuno si prenda cura compiendo quel primo passo essenziale che consiste nel rendersi conto dell’esistenza dell’altro e della sua importanza. Nel modo di rivelare questa verità fondamentale – tanto da essere essenziale nella stessa identità divina – il Signore Gesù non si sofferma soltanto sull’aspetto positivo che è la decisione del Padre di stare dalla parte dei più <piccoli>. Il Cristo non sottace il fatto che ogni decisione non ha solo un aspetto positivo ed elettivo, ma comporta pure una sorta di rinuncia che si fa presa di distanza capace di chiarire le posizioni senza cedere ad inutili concordismi: <perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti> (11, 25).

Il profeta Isaia ci aiuta concretamente a comprendere meglio che cosa ci può rendere più simili a questi sapienti e a questi dotti e che cosa invece avvicina noi stessi al numero di quei piccoli tra cui bisogna annoverare prima di tutto e soprattutto lo stesso Signore Gesù. Secondo il profeta da una parte c’è l’atteggiamento saccente e autoreferenziale dell’Assiria, che pur essendo uno strumento di giustizia nelle mani dell’Altissimo come un <bastone> (Is 10, 5) che serva a correggere il popolo divenuto infedele, nondimeno è troppo piena di se stessa. Il monologo interiore è un vero trattato di psicologia del profondo di quanti sono affetti da un cieco narcisismo: <Con la forza della mia mano… La mia mano…> (10, 13-14). Di tutt’altro tenore è l’atteggiamento di chi ha chiara coscienza della propria radicale dipendenza creaturale. Questo fa dire all’Altissimo: <Può forse vantarsi la scure… come se un bastone volesse brandire chi lo impugna…> (10, 15-16)?

Se la decisione divina è assolutamente chiara… giunge ben presto il tempo della nostra stessa decisione! Come ricorda un autore del Seicento francese ripreso in Italia da Alfonso Maria de Liguori: <Il più grande onore che Dio si attende da noi è che gli parliamo come parleremmo a qualcuno da cui ci sappiamo amati fino a rivelargli interamente i nostri sentimenti con tutta la libertà della tenerezza e della fiducia>1. La piccolezza non è legata né alla condizione sociale né al livello culturale, ma significa assumere serenamente e radicalmente la propria condizione di creature, levigandola a tal punto da farne lo specchio della stessa vita divina per far sì che la logica della benevolenza, dell’amore e dell’opzione preferenziale per i poveri conquisti la storia.


1. M. BOUTAULT, Méthode pour converser avec Dieu, Amat, Paris 1899, p. 12.

Tranquillo

XV settimana T.O.

Il profeta Isaia viene mandato dal Signore Dio incontro al re Acaz e ancora una volta si fa messaggero di un invito alla calma: <Fa’ attenzione e sta tranquillo, non temere e il tuo cuore non si abbatta> (Is 7, 4). L’invito alla serenità e alla fiducia è imprescindibilmente legato alla fede. Per questo il testo della prima lettura si conclude con un’esortazione che ha tutto il tono della sfida ad una relazione con Dio assolutamente coinvolgente e decisiva: <Ma se non crederete, non resterete saldi> (7, 9b). In questo modo il profeta crea una relazione fortissima tra la tranquillità e la fede! Come amava ripetere Bernardo di Chiaravalle ai suoi monaci: <Ubi tranquillitas ibi Tranquillus est> (dove c’è la tranquillità là si trova il Tranquillo>. Tutta la tradizione monastica si è espressa e riconosciuta in modo particolarissimo nella ricerca esicasta (esychìa significa la pace interiore). In tal modo i maestri hanno riconosciuto nella conquista della serenità dell’anima il vertice e il fine della ricerca spirituale che permette di vivere già qui e già ora la gioia che sarà perfetta e continua nella vita eterna.

Il Signore Gesù, con parole certamente dure ed esigenti, non fa che confermare la parola del profeta e l’anelito di tutti coloro che si sono impegnati in una seria ricerca di vita spirituale: <si mise a rimproverare le città nelle quali era avvenuta la maggior parte dei suoi prodigi, perché non si erano convertite> (Mt 11, 20). Quella di Gesù non è una presa di posizione moralistica e mortificante. Al contrario è l’espressione di un profondo dolore per l’incapacità di città come Corazin, Betsaida e Cafarnao a cui è stata data una possibilità di crescita che forse più che rifiutata non è stata neppure avvertita. Davanti a questa chiusura che sa tanto di ingratitudine, il Signore non può che esaltare città come Tiro e Sidone che sono il simbolo, nella tradizione biblica, dell’idolatria e dell’orgoglio (Cfr. Is 23; Ez 26-28).

La domanda che viene da porsi in modo del tutto naturale è chiedersi la ragione per cui le città che hanno avuto il privilegio di essere visitate dal Signore Gesù non si sono aperte alla sua parola. La domanda, naturalmente, si fa ancora più esigente nel momento in cui non si tratta più di queste città, bensì del nostro cuore! Nella logica di cui si fa testimone il profeta Isaia potremmo dire che forse è la difficoltà a intuire come la conversione e la fede possono regalarci una serenità e tranquillità che non sono semplicemente il frutto dell’assenza di tensioni esterne e di quella <guerra> (Is 7, 1) che continuamente rischia di squassarci l’anima. Tensioni esterne e battaglie interiori fanno parte della vita. Ciò che fa la differenza è, in realtà, la capacità di credere che dentro la fatica normale della vita vi sia una relazione privilegiata con il Signore che può assicurare una tranquillità di fondo che niente e nessuno potranno toglierci. Certo se questo non è che un dono, esige pure la nostra adesione e la nostra volontà di ripartire ogni mattina non da noi stessi, bensì dalla nostra relazione con il Tranquillo che può ritessere continuamente i fili della nostra tranquillità nella misura in cui lo lasciamo entrare nella nostra vita. Altrimenti <la terra di Sodoma sarà trattata meno duramente di te> (Mt 11, 24). E Sodoma fu condannata proprio per l’incapacità dei suoi abitanti ad accogliere e rispettare l’altro tanto da pensare di poter abusare di gente di passaggio.

Prendere posizione

XV settimana T.O.

La parola del profeta Isaia non lascia scampo: la fedeltà a Dio è sempre proporzionale all’attenzione profondamente coinvolta verso la condizione dell’<orfano> e della <vedova> (Is 1, 17). Le parole che il Signore Gesù rivolge ai suoi discepoli non sono certo da meno e se segnano il passaggio ad una nuova sezione del Vangelo che segue quelle del discorso della montagna e dei dieci segni di guarigione, non fanno altro che sottolineare come e quanto dopo le parole e i gesti del Signore Gesù è ora il turno dei discepoli, il nostro turno: <Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada> (Mt 10, 34). Prima di illustrare le reazioni di Giovanni Battista, dei galilei e dei farisei, Matteo sente l’urgenza di mettere in chiaro quello che il Signore Gesù si aspetta dai suoi discepoli costituiti apostoli per generare ancora dei discepoli. La regola della generazione nella fede, che crea quella che potremmo definire la genealogia ecclesiale, si concentra in poche parole: <Chi avrà tenuto per sé la propria vita la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà> (10, 39).

In tal modo viene messo in chiaro, senza nessuna ambiguità, che la fedeltà alla parola e allo stile di Gesù non può che sconvolgere tutti i parametri, persino e forse prima di tutto quelli affettivi. Così la <pace> diventa una <spada> perché la parola da annunciare e da testimoniare è prima di tutto una parola che chiede la propria conversione spinta fino all’attraversamento delle dogane interiori che ci tengono chiusi nei nostri recinti di egoismo e di autoreferenzialità. Il segno dell’accoglienza del Vangelo nella propria vita – prima di farsi annunciatori del Vangelo per la vita degli altri – comporta che il discepolo accetti di ritrovarsi personalmente nel numero di quei <piccoli> (10, 42) che sono il parametro della storia in senso inverso alla mondanità. Per troppo tempo abbiamo rischiato di identificare la “mondanità” con una certa capacità di godere e gioire della vita, dimenticando che, dal punto di vista del Vangelo, essa è legata all’incapacità di avere occhi e cuore per gli altri. 

Non è possibile che il Vangelo segni profondamente ed efficacemente la nostra vita senza una frattura instauratrice attraverso cui ogni aspetto dell’esistenza – prime fra tutte le relazioni – possa essere vissuto più profondamente passando dalla servitù a se stessi al servizio verso gli altri, cominciando da quanti – poveri e piccoli – non solo non potranno ricambiarci, ma forse non osano neppure chiedere attenzione e cura. Prendere posizione per Cristo e il suo Vangelo significa accettare di scendere fino a condividere la propria ricerca di felicità con coloro che rischiano di esserne esclusi. Ancora di più e ancora oltre… ogni discepolo è chiamato a ritrovarsi, infine, nel numero di quei piccoli che il Vangelo pone come il criterio di discernimento della storia non solo del mondo, ma anche e prima di tutto della Chiesa.

L’olio della grazia

XV Domenica T.O.

Prima del contenuto vi è una modalità di porgersi e di presentarsi da parte degli annunciatori del Vangelo che permette alla grazia di espandersi come una macchia d’olio e di penetrare fino a risanare e rinvigorire come un balsamo. Il Signore Gesù invia i suoi discepoli direttamente contro gli <spiriti impuri>, ma senza progetti e senza strategie: il segreto della missione è non avere segreti, né armi seduttrici se non la nudità della croce di Cristo. Nessuna tunica – se non la nudità del vangelo – niente sandali se non i piedi del <vangelo> (Ef 6, 15) e solo <un bastone> (Mc 6, 8): la croce di Cristo con cui si potrà liberare la strada da tutti quegli inutili impedimenti e fastidi che rischiano di rallentare la corsa. Per ogni annunciatore del Vangelo della grazia, perché la grazia del Vangelo possa essere serenamente e gioiosamente accolta vale, quanto ha sperimentato il profeta-pastore che si presenta come un profeta senza qualità, ma semplicemente chiamato ad essere tale malgrado se stesso. Per questo Amos può rispondere con franchezza al sacerdote Amasìa e senza nessun ritegno: <Non ero profeta né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomoro. Il Signore mi prese, mi chiamò, mentre seguivo il gregge> (Am 7, 14, 15). Amos sembra protestare la propria innocenza di essere profeta e – proprio dicendo questo – afferma la sua libertà nel fare il profeta proprio perché non lo è per discendenza – come nel caso dei sacerdoti di Israele – né per interesse personale – come nel caso di quanti sono sensibili alle cose dello spirito. Il segreto della profezia che dovrebbe essere il carattere originario di ogni apostolato sta nella semplice evidenza che <il Signore mi prese, mi chiamò>. Infatti, ogni “presa” da parte di Dio, ogni chiamata, si inserisce nel grande disegno d’amore della sua volontà> (Ef 1, 6) che i profeti di ogni tempo hanno cercato di presentare agli uomini. Questo disegno che è un progetto d’amore non lo si può che annunciare gratuitamente come lo si è ricevuto. Non c’è posto per il danaro <nella cintura> (Mc 6, 8), non c’è da comprare né da vendere nulla poiché egli <tutto opera efficacemente> (Ef 1, 11). Una sola strategia sembra essere compatibile con il mandato apostolico: rinunciare a se stessi e portare la croce del Signore come un bastone con cui si libera la strada per se stessi e per quanti vengono dopo di noi. Solo così potremo accogliere il <sigillo dello Spirito Santo> che non solo è <caparra della nostra eredità> (Ef 1, 13-14), ma è l’olio che ci permette di camminare e funzionare <a due a due>. Sempre e solo <in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria>. Perché il vangelo della grazia possa essere annunciato, non può che essere annunciato con grazia. Perché il vangelo possa penetrare la vita degli uomini, non può che essere cosparso sulle ferite che ognuno porta nel proprio cuore come un olio balsamico capace di lenire e di tonificare.