E’ Lui!

XVII settimana T.O.

La parola che il Signore rivolge al profeta Geremia in un momento che si potrebbe a ragione qualificare come depressivo ci aiuta ad entrare nella sfida che ci offre il Vangelo: <se saprai distinguere ciò che è prezioso da ciò che è vile, sarai come la mia bocca> (Gr 15, 19). Il Vangelo ci parla non più di seme, più o meno accolto dal terreno, e neppure di quel seme pericoloso che è la <zizzania>. Ireneo di Lione commenta così: <Infatti è lui “il tesoro nascosto nel campo” cioè nel mondo (Mt 13, 38). Tesoro nascosto nelle Scritture, perché veniva manifestato attraverso figure e parabole che, umanamente parlando, non potevano essere intese prima che le profezie fossero compiute, cioè prima della venuta del Signore. Perciò è stato detto al profeta Daniele: “Chiudi queste parole e sigilla questo libro, fino al tempo della fine” (Dn 12, 4). Anche Geremia dice: “Alla fine dei giorni comprenderete tutto!” (Ger 22, 20). Letta dai cristiani, la legge è un tesoro, un tempo nascosto in un campo, ma rivelato e spiegato dalla croce di Cristo; essa manifesta la sapienza di Dio, rivela i suoi disegni di salvezza per l’uomo, prefigura il Regno di Cristo, preannuncia la Buona Novella dell’eredità della Gerusalemme santa>1.

Nel caso del tesoro è facile passarci sopra senza accorgersene fino a che si mette a fuoco che c’è già una possibilità che rischia di sfuggire alla nostra attenzione. Nel caso della perla vi è l’occhio clinico del collezionista che sa riconoscere, comparare e che pure porta nel cuore un desiderio che sembra aguzzare la vista. In ambedue i casi – fortuito o studiato – la cosa necessaria è di mettersi in movimento per acquisire il tesoro o la perla perché faccia parte integrante della nostra vita. L’imperativo è il medesimo in ambedue i casi: <poi va> (Mt 13, 44) e ancora <va, vende> (13, 45). L’evangelista Matteo non chiarisce se queste due parabole sono offerte solo ai discepoli oppure a tutta la folla, ma tutto fa pensare che si sia ancora <in casa>. Se fosse così, allora queste parabole riguarderebbero in modo più specifico il discepolo chiamato a rendersi conto della preziosità del regno dei cieli e del fatto che il suo ingresso nella storia e nella vita, se è una sorpresa, nondimeno richiede che si sappia stimarne il valore e saper investire totalmente su di esso concentrando nella sua ricerca tutte le proprie migliori energie. 

La caccia al <tesoro> ricomincia ogni mattina e, per riprendere le parole e l’esortazione del profeta Geremia, il grande compito è quello di saper distinguere ciò che è <prezioso> da ciò che, invece, è <vile>. Tutto ciò è come una perla di grande valore la cui preziosità è già sotto i nostri occhi e aspetta di essere riconosciuta, aspetta di essere desiderata, di essere cercata, di essere amata… ed è Lui, il Signore dentro di noi!


1. IRENEO DI LIONE, Contro le eresie, IV, 26.

Lacrime

XVII settimana T.O.

L’inizio della prima lettura è particolarmente intenso: <I miei occhi grondano lacrime notte e giorno, senza cessare, perché da grande calamità è stata colpita la vergine, figlia del mio popolo, da una ferita mortale> (Gr 14, 17). Le lacrime del profeta sembrano fare tutt’uno con le parole esplicative del Signore Gesù che cerca di illustrare il significato “esoterico” della parabola della zizzania appena raccontata alla folla quando <entrò in casa> (Mt 13, 36) e si soffermò con i soli discepoli a comprenderne meglio il significato. La parabola nel modo in cui viene raccontata alla folla, in realtà è fonte di speranza e di fiducia: il padrone non sembra poi così allarmato dal fatto che nel campo cresca con il buon grano anche la zizzania. Si potrebbe persino dire che, al cospetto della folla, il Signore Gesù tenda a minimizzare i rischi e i pericoli collegati all’opera del <Maligno> (13, 38).

Non così con i suoi discepoli! La spiegazione offerta all’interno della casa sembra ben più grave: <la zizzania soni i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo> (13, 38-39). La fine riservata a costoro non è certo indolore: <li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti> (13, 42). Il Signore Gesù non tace la gravità della situazione di quanti sono all’origine di <scandali> e <commettono iniquità> (13, 41). Eppure, parla di questo solo con i suoi apostoli e all’interno della casa lontano dalle orecchie della folla. In tal modo prima ancora del contenuto del messaggio che è assai realista e per nulla qualunquista, c’è da parte del Signore Gesù la comunicazione di un metodo pastorale su cui siamo chiamati a meditare e a cui bisogna conformarsi radicalmente.

Quella del Maestro non è una catechesi terroristica con cui semina nel cuore dei suoi ascoltatori il panico e quel terrore di Dio che per quanto ci faccia star buoni non necessariamente e non certo automaticamente ci fa essere più buoni. Alla folla, il Signore Gesù trasmette un messaggio tutto sommato sereno e non allarmista. Agli apostoli rivela anche quali possano essere gli effetti collaterali dell’opera del Maligno e li investe della responsabilità di conoscere in modo più circostanziato il meccanismo del male in modo da essere in grado di arginarlo senza terrorizzare. L’ultima parola comunque è di grande speranza e assolutamente luminosa: <Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro> (13, 43). L’ultimissima parola è un’esortazione all’intelligenza del cuore: <Chi ha orecchi, ascolti!>.

Le <lacrime> del Signore spegneranno il <fuoco> in cui la nostra parte di zizzania necessariamente deve ardere!

Vita

S. Marta

Marta si fa portavoce di ciascuno di noi nel momento in cui la vita ci obbliga a misurarci con il mistero della morte… con le tante morti che segnano il nostro cammino: <Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!> (Gv 11, 21). Con queste parole Marta da una parte si lamenta con il Signore e dall’altra gli riconosce la grande potenza di essere in grado di arrestare la morte. Eppure, sembra che al Signore Gesù non piaccia questo modo di parlare all’ipotetico che stranamente è ben imparentato con il tono della tentazione. La risposta è netta: <Tuo fratello risorgerà> (11, 23)! Questa risposta paradossale diventa ancora più chiara davanti alla reazione un po’ imbarazzata di Marta e arriva a dire: <Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me, anche se muore, vivrà> (11, 25). Marta parla al futuro, ma il futuro non è a portata di mano. Gesù, invece, parla al presente. La risurrezione è un’esperienza che interessa prima di tutto il nostro presente e non solo il nostro futuro. A risorgere sono chiamati i vivi, noi, prima che i morti. Marta si dà un gran da fare attorno alla morte di Lazzaro, e il Signore le chiede di prendere coscienza della sua morte alla speranza che sarebbe ben peggiore della dipartita di Lazzaro.

Nel racconto lucano dell’ospitalità di Marta nella sua casa e della sua lamentela riguardo a Maria, sua sorella, il Signore Gesù non dice chiaramente in cosa consista la <parte migliore> (Lc 10, 42). Possiamo ben immaginare che il Signore non rimproveri a Marta la sua dedizione alle faccende di casa, ma le ricorda che la cosa più importante non è l’ospitalità che lei può offrire al Maestro, ma l’accoglienza di cui lei stessa ha bisogno presso il Signore Gesù. Maria ha intuito che la cosa più importante è accogliere lasciandosi accogliere. Le parole dell’apostolo Giovanni è come si ci offrissero lo scenario essenziale perché ogni nostro gesto e ogni nostra preghiera possano raggiungere il loro fine supremo: <Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui> (1Gv 4, 16). Soprattutto nella prima lettura viene chiarito quello che potremmo definire come l’ordine della grazia: <non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi> (4, 10).

Accogliendo le parole dell’apostolo possiamo dire che, per quanto grande sia il nostro desiderio di fare spazio a Dio nella nostra vita, è Lui che ci accoglie per primo. Questo sembra averlo intuito la sorella Maria la quale <sedutasi ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola> (Lc 10, 39). Ma forse lo ha compreso ancora di più e meglio il fratello Lazzaro che muore senza dire una parola né di richiesta né di rimprovero per il suo amico e Signore, ma che pure rimane così attento alla sua voce da poterla udire persino oltre la pietra del sepolcro fino a risorgere dai morti. L’esperienza spirituale di Marta e della sua “strana” famiglia di persone, in realtà, senza famiglia, ci apre alla speranza che nella nostra relazione con Cristo Signore possiamo e dobbiamo trovare il senso di un’appartenenza e di una intimità in cui ciascuno può essere, fino in fondo, se stesso senza inutili maschere e infingimenti fastidiosi. Così ciascuno risorge al senso forte di sentirsi chiamato a rispettare il cammino degli altri senza cedere né al paragone né alla recriminazione che è il primo passo del livellamento e dell’appiattimento delle relazioni… della morte.

Gusto

XVII Domenica T.O.

Nel Vangelo di questa domenica, in modo assai indicativo, solo alla fine l’evangelista sente di poter concludere dando voce ai sentimenti della folla: <Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto…> (6, 14). Il miracolo della moltiplicazione <dei cinque pani d’orzo e due pesci> (6, 9) diventa <segno> solo quando tutti sono <saziati> nonostante tutto lo scetticismo dell’apostolo Andrea: <ma che cos’è questo per tanta gente?>. Ma c’è ancora pane e tanto… che i discepoli raccolgono con cura e che la folla lascia raccogliere senza che nessuno se ne faccia una scorta personale. In un film come Il pranzo di Babette possiamo cogliere in modo assai profondo e suggestivo che cosa è avvenuto nel frattempo, tra la domanda del Signore a Filippo: <Dove potremo compare il pane perché costoro abbiano da mangiare?> (6, 7) e quel ritrovarsi di Gesù <da solo> (6, 15). La protagonista del film – vedova e straniera – preparando un pranzo che è un vero e proprio banchetto permette alla piccola comunità di ritrovare il gusto della vita. Questo miracolo avviene ritrovando il gusto semplice del vivere insieme attraverso la degustazione delle portate e dei vini che, risuscitando il loro palato, fa loro recuperare ciò che i Padri chiamano il palatum cordis: il palato del cuore! Sempre nel film, il ritrovarsi attorno alla tavola, prendendo finalmente le distanze da un’impostazione falsamente austera della vita perché disumanizzante, permette ai convitati di ritrovarsi come persone capaci di riconoscere di avere molto in comune. Questo porta, infine, ad uscire all’aperto per formare un cerchio che riflette in terra l’armonia che regna in cielo. Ma i convitati scopriranno solo alla fine il prezzo pagato dalla vedova per questa loro riconciliazione: come quella indicata e ammirata da Gesù nel Vangelo, in quel banchetto offerto ha messo <tutto> (Mc 12, 44) quello che avrebbe potuto permettergli di vivere in modo diverso e agiato. Parimenti solo dopo, la folla potrà scoprire il segreto che anima il cuore di Cristo Signore: la disponibilità incondizionata di dare la sua vita per noi. Il Signore Gesù permette a ciascuno di mettere in comune almeno un po’ del proprio tempo accettando di sedersi sulla <molta erba> (6, 10) che rende quel luogo un ambito in cui ritrovare il senso della propria vita e la gioia di condividerla <con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità> (Ef 4, 2). Così potremo formare <un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati> (4, 4). È esattamente quello che ha saputo fare quel <ragazzo> (Gv 6, 9) il quale non dice neppure una parola davanti al fatto che gli prendano quello che è suo per metterlo a disposizione degli altri rinnovando il prodigio compiuto dal profeta. Impossibile che l’amore non comporti un’eccedenza d’amore!

Goût

XVII Dimanche du T.O. 

Dans l’Evangile de ce dimanche, de façon assez significative, seulement à la fin, l’évangéliste sent pouvoir conclure en donnant la parole aux sentiments de la foule : ” Alors, la foule, en voyant le signe qu’il avait accompli…” ( 6, 14 ). Le miracle de la multiplication ” cinq pains d’orge et deux poissons ” ( 6, 9 ) devient ” signe ” seulement lorsque tous sont ” rassasiés” malgré tout le scepticisme de l’apôtre André : ” mais qu’est-ce que cela pour tant de gens ? “. Mais, il y a encore du pain et beaucoup…que les disciples recueillent avec soin et que la foule laisse recueillir sans que personne n’en fasse une réserve personnelle. Dans un film comme Le repas de Babette, nous pouvons découvrir de façon assez profonde et suggestive ce qui est arrivé entre temps entre la question du Seigneur  à Philippe : ” Où pourrons-nous acheter le pain pour qu’ils aient à manger ? ” ( 6, 7 ) et la façon de Jésus de se retrouver ” seul” ( 6, 15 ). La protagoniste du film – veuve et étrangère – en préparant un repas qui est vraiment un véritable banquet, permet à la petite communauté de retrouver le goût à la vie. Ce miracle arrive en retrouvant le goût simple de vivre ensemble par la dégustation  des mets et des vins qui, en ressuscitant leur palais, leur fait récupérer ce que les Pères appellent  le paladium cordis : le palais du coeur ! Toujours dans le film, se retrouver autour de la table, en prenant finalement des distances avec une approche faussement austère de la vie, car deshumanisante, permet aux convives de se retrouver en tant que personnes capables de reconnaître avoir beaucoup en commun. Ceci nous amène, en fait, à sortir à l’extérieur pour former un cercle qui reflète sur terre l’harmonie qui règne au ciel. Mais les convives découvriront, seulement à la fin, le prix payé par la veuve pour leur réconciliation : comme celle indiquée et admirée par Jésus dans l’Evangile, dans ce banquet offert, elle a mis ” tout ” ( Mc 12, 44 ) ce qui lui aurait permis de vivre de manière différente et agréable. C’est également seulement après, que la foule pourra découvrir le secret qui anime le coeur du Christ Seigneur : la disponibilité inconditionnelle de donner sa vie pour nous. Le Seigneur Jésus permet à chacun de mettre en commun au moins un peu de notre temps en acceptant de s’asseoir sur ” l’herbe dense ” ( 6, 10 ) qui donne à ce lieu une ambiance où retrouver le sens de sa vie et la joie de la partager ” en toute humilité, douceur et magnanimité ” ( Eph 4, 2 ). Ainsi nous pourrons former ” un seul corps et un seul esprit, comme est unique l’espérance à laquelle vous avez été appelés ” ( 4, 4 ). C’est exactement cela qu’à su faire ce ” garçon” ( Jn 6, 9 ) qui ne dit même pas une parole lorsqu’on lui prend ce qui est à lui pour le mettre à disposition des autres, renouvelant le prodige accompli par le prophète. Il est impossible que l’amour ne comporte pas un excédent d’amour !

Dormire

XVI settimana T.O.

Normalmente la Parola di Dio invita continuamente ad essere vigilanti e a non lasciarsi andare al sonno per non essere sorpresi ed essere pronti a rispondere agli appelli della vita. Eppure oggi vediamo come un uomo dopo aver seminato <del buon seme nel suo campo> (Mt 13, 24) non resta sveglio, ma si lascia andare al sonno con tutta la sua casa. Nella parabola, come nelle fiabe, si dice che a un certo punto <tutti dormivano> (13, 25). E non solo, si aggiunge che esattamente approfittando di questo <venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò> (13, 25). Sembra che nessuno si sia accorto di quello che è avvenuto nella notte, anche se non ne siamo assolutamente certi… chissà forse l’uomo che ha seminato dormiva con un occhio ben aperto e si è ben accorto di quello che stava succedendo.

Infatti, al momento della crescita dove la diversità delle piante salta all’occhio, mentre i servi si lasciano prendere dal panico, il padrone rimane tranquillo e fiducioso senza cedere neanche un momento all’ansia. La sua reazione è duplice! Indica chiaramente l’autore di questo misfatto in modo chiaro: <Un nemico ha fatto questo!> (13, 28). D’altro canto, sembra che non ci sia nulla da preoccuparsi perché, se fosse così, il nemico avrebbe vinto: <Lasciate che l’una e l’altra crescano insieme fino alla mietitura…> (13, 30). Il nemico ha seminato della zizzania nel campo, ma non è riuscito a seminare la preoccupazione e la sfiducia nel cuore del padrone del campo il quale sa di aver seminato del buon seme e confida che questi abbia, nonostante tutto, la forza di germinare, di crescere, di maturare e di arrivare serenamente alla mietitura.

Ciò che distingue l’atteggiamento del padrone da quello dei suoi servi è la fiducia nel seme che ha fatto cadere nella terra: ce la farà comunque! Questo rende inutile ogni ansia e pericolosa ogni precipitazione. Inoltre il padrone nella sua saggezza non incolpa nessuno – né se stesso né i suoi servi – di aver dormito saporosamente mentre il nemico seminava la zizzania: fa parte del gioco e dell’equilibrio della vita. A quest’uomo così retto e così sereno si possono ben applicare le parole del profeta Geremia, quelle positive e serene: <Se davvero renderete buona la vostra condotta e le vostre azioni, se praticherete la giustizia gli uni verso gli altri, se non opprimerete lo straniero, l’orfano e la vedova, se non spargerete sangue innocente in questo luogo e se non seguirete per vostra disgrazia dèi stranieri, io vi farò abitare in questo luogo, nella terra che diedi ai vostri padri da sempre e per sempre> (Gr 7, 5-7). 

Il profeta Geremia ci aiuta ad uscire dalla parabola e ci permette di comprendere in cosa consista la differenza tra il <buon seme> e la <zizzania> potendo e dovendo prenderci il lusso di dormire in pace senza mai diventare pigri nell’attenzione verso ciò che esige cura e compassione.

Fecondi

XVI settimana T.O.

Il profeta Geremia non lesina sulla speranza e anzi la nutre con delle visioni sempre più ampie: <Quando poi vi sarete moltiplicati e sarete stati fecondi nel paese, in quei giorni – oracolo del Signore – non si parlerà più dell’arca dell’alleanza del Signore: non verrà più in mente a nessuno e nessuno se ne ricorderà, non sarà rimpianta né rifatta> (Gr 3, 16). In un solo versetto il profeta delle contraddizioni più cocenti rivela a auspica una nuova possibile fecondità per il popolo che si radica in una relazione con il Signore sempre più intima che ha sempre meno bisogno di quelle realtà esteriori, persino quelle liturgiche, a vantaggio di una relazione con Dio intima e segnata dal primato dell’interiorità. Le ultime parole della prima lettura chiariscono come questo processo interiore di fecondità sia possibile e quale ne sia la condizione imprescindibile: <non seguiranno più caparbiamente il loro cuore malvagio> (3, 17).

Dal canto suo il Signore Gesù cui la predicazione di Geremia non solo è molto cara, ma sulla cui predicazione spesso si fonda la sua stessa predicazione della conversione insiste sul mistero di una fecondità interiore legata sempre di più alla disposizione del cuore ad accogliere la Parola non superficialmente, ma radicalmente. L’occasione per ribadire tutto ciò è data dalla spiegazione della parabola del seminatore che potrebbe pure essere intesa come la parabola dei possibili destini dei semi caduti sulla terra del cuore. In realtà, se leggiamo attentamente la spiegazione della parabola ci rendiamo conto che il soggetto è esattamente <colui che ascolta la Parola>! Ascoltare è già molto, ma sembra non essere sufficiente per essere veramente fecondi. 

La Parola, secondo la spiegazione di Gesù, esige un’accoglienza che si fa gelosa custodia contro <il Maligno> che <ruba> (Mt 13, 19); esige costanza per evitare che la <persecuzione a causa della Parola> (13, 21) segni la fine della corsa della Parola nelle profondità del cuore trasformandosi così in una sorta di aborto spirituale; esige una provata libertà per evitare che la Parola venga soffocata dalla <preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza> (13, 22). Il <frutto> (13, 23) è legato alla fatica gioiosa di una comprensione non solamente teorica o intellettuale, ma che si fa accoglienza esistenziale. Poco importa la quantità che può essere <il cento, il sessanta, il trenta per uno>, ciò che importa è che la Parola non venga sprecata come un seme destinato a perire non in vista di un frutto, ma per la nullificazione delle sue possibilità. 

La Parola ricorda da una parte quanto la Parola abbia un’energia tutta sua che è capace di fecondare e di moltiplicare le forze e le energie, dall’altra ci rammenta che essa è affidata alle nostre mani, al nostro cuore, alla nostra cura. Se è dunque vero che noi non possiamo fare nulla senza la forza della Parola seminata nei nostri cuori, rimane altresì vero che la Parola ha bisogno della nostra accoglienza per essere feconda e basta un piccolo – persino piccolissimo – angolo di terra buona per fare questo miracolo.

Primo

S. Giacomo apostolo

La Colletta di questa festa evoca un altro “primato” che suona in questi termini: <tu hai voluto che san Giacomo, primo fra gli apostoli, sacrificasse la vita per il Vangelo>. Nel gruppo degli apostoli sembra ci siano vari primati: si parla del fondamentale “primato” di Simon Pietro senza dimenticare che, a differenza di quanto ci viene raccontato dai sinottici, l’evangelista Giovanni ci tramanda che sia Andrea il primo chiamato dal rabbi di Nazaret e che sia stato lui a condurre a Gesù suo fratello Simone (Gv 1). È noto a tutti come la Tradizione abbia identificato nell’apostolo ed evangelista Giovanni il misterioso e innominato <discepolo amato> di cui ci parla insistentemente il quarto Vangelo che avrebbe, in questo caso, un primato del tutto particolare nel cuore di Cristo Signore. E oggi, festeggiando l’apostolo Giacomo, siamo messi di fronte al primato del dono della vita la cui generosità di libertà nel dono radica in una profonda rassicurazione: <convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi> (2Cor 4, 14).

Questo modo di concepire e di vivere il primato contrasta e in certo modo purifica e converte quel segreto bisogno che tutti noi portiamo nel cuore di essere “primi” e possibilmente unici. La domanda dei figli di Zebedeo di cui si fa mediazione l’appassionata richiesta della loro madre, in realtà ci appartiene molto più di quanto riusciamo ad immaginare: <Dì che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno> (Mt 20, 21). La risposta a questa richiesta il Signore non la dà alla madre di Giacomo e Giovanni che ha diritto ad essere accolta in questo suo desiderio così materno, ma a tutti i discepoli di cui facciamo parte anche noi: <Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo> (20, 26-27). Il Cristo ci rivela così che, ben aldilà di tutti i primati che possiamo desiderare o che la vita può gratuitamente darci, vi è un primato che siamo chiamati a cercare ogni giorno: quello di metterci al servizio <Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti> (20, 28).

Proprio nella misura in cui ci lasciamo interpellare quotidianamente dalle esigenze del Vangelo ci rendiamo conto che anche nella nostra vita il tesoro della presenza e degli appelli di Dio sono custoditi <in vasi di creta> (2Cor 4, 7). Questa esperienza di fragilità lungi dall’essere uno svantaggio per la testimonianza rischia di esserne la condizione imprescindibile: <affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi>! Tesoro di grazia e fragilità sono i due poli in cui siamo chiamati a vivere la discepolanza e la missione. La grazia della disponibilità a servire ci permette di custodire il tesoro del nostro desiderio accettando che questo non si identifichi con i nostri desideri e ambizioni, ma ci porti oltre la terra di noi stessi verso il cielo di ciò che siamo realmente. San Giacomo è stato il primo a sperimentare la gioia di vedere il vaso della propria vita rompersi nella morte per manifestare il magnifico tesoro ivi contenuto: <perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale> (4, 11).

Insistere

XVI settimana T.O.

Si comincia oggi la lettura liturgica del profeta Geremia in parallelo con le parabole del Signore Gesù poste – quasi incastonate – nel cuore stesso del vangelo secondo Matteo. La prima delle parabole che il Signore racconta alla folla, che <stava sulla spiaggia> (Mt 13, 2) tutta intenta ad ascoltare la sua parola, comincia proprio così: <Ecco, il seminatore uscì a seminare> (13, 3). Questo inizio ci mette di fronte all’opera stessa di Dio nella vita dell’umanità: siamo davanti a lui e per lui una terra destinata – per sua stessa natura – ad accogliere il dono che – per sua natura – è Dio stesso. Questa immagine che mette in relazione il <seminatore> con i vari tipi di terreno che accolgono come possono il seme sparso con abbondanza e prodigalità, sebbene ci faccia subito interrogare sul tipo di terreno che siamo, mai deve farci dimenticare di stupirci ed ammirare il largo gesto di questo seminatore che <semina con larghezza> (2Cor 9, 6) e che – misteriosamente e nonostante tutto – <con larghezza raccoglierà>! Cominciando la lettura di uno dei profeti più amati dal Signore Gesù e nel quale maggiormente si è identificato, possiamo dire che egli è icona di una <terra buona> (Mt 13, 8) che sa accogliere il seme e sa far raccogliere il frutto.

Ma non ci sfugga il fatto che dire <terra buona> non significa dire “terra già pronta”. In certo modo lo stesso profeta ha bisogno di essere arato prima di essere realmente in-seminato con <la parola del Signore> (Ger 1, 4). Infatti, davanti alla vocazione a profetare ossia a fare della propria vita in tutta la sua interezza – Geremia dovrà rimanere “solo” per essere segno davanti al popolo – il <giovane> (1, 6) non ha ritegno a recalcitrare e a stornare da sé l’appello. Il frutto della vita e della parola del profeta di <Anatot> (1, 1) non lasciano dubbi sulla <terra buona> del suo cuore, ma essere terra buona non significa non fare fatica ma, gradualmente, accettare che qualcosa di nuovo e di più grande di noi sia ospite della nostra esistenza nutrendosi di tutte le nostre energie per germogliare, crescere e fruttificare. Ciò che, a ragione, sempre ci spaventa davanti all’intervento di Dio nella nostra vita è che il suo entrare in relazione con il nostro vissuto esige il dono della nostra vita: come per la terra così per noi, prima del frutto si tratta di lasciare assorbire energia e forza perché il seme segua il suo destino e possa compierlo fino in fondo… proprio come avviene nel seno di una madre che accoglie il viaggio verso la vita di una nuova creatura.

Questa parabola del Signore non è solo la prima, ma è anche emblematica: si tratta come per Geremia di acconsentire a che qualcosa di diverso da noi entri in contatto profondo con noi stessi esigendo tutto noi stessi e portandoci oltre noi stessi. Davanti ad un simile processo segreto ma inarrestabile non possiamo non temere. Ma proprio al cuore del nostro sgomento sempre – anche nei più minimi appelli – ci raggiunge la parola del Signore: <Non avere paura di fronte a loro, perché io sono con te per proteggerti> (Gr 1, 8). Sì, il Signore è sempre con noi per proteggere il seme della sua presenza che <prima di formarti nel grembo materno> (1, 5) ha posto dentro di noi come dono per tutti.

Passione

S. Brigida

Due soli versetti tratti dall’epistolario paolino sono capaci di farci entrare nel mistero della vita di Brigida di Svezia: <e non vivo più io, ma Cristo vive in me> (Gal 2, 20). Sono tanti i commentatori che ritengono questo versetto come il sunto della stessa vita dell’apostolo Paolo. Di certo può essere la chiave per interpretare e lasciarsi toccare dall’itinerario spirituale di Brigida la cui nobiltà di origini diventa il nobile modo di consumare la propria vita nei doveri imposti dal suo stato e nella passione, ardente, per ciò che il suo cuore le fa percepire come importante e degno di essere vissuto come servizio a Dio e ai fratelli. Per questa donna che fu sposa amorosa e madre dolcissima di ben otto figli, ciò che fa la differenza nella vita è la capacità di accoglierla in modo totale senza mai chiedere alla vita di darci qualcosa, ma, al contrario, di approfittare di ogni occasione per dare la propria vita. Tutto ciò nei modi in cui si rende possibile nella concretezza del quotidiano, che è frutto delle circostanze esterne, ma pure delle nostre scelte profonde e dei nostri orientamenti più coinvolgenti.

Brigida vive un’esistenza di particolare pienezza – settant’anni – in cui la sposa diviene più volte madre per poi rimanere vedova e vivere tutta la sua libertà dovuta anche al suo alto lignaggio per farsi pellegrina di pace e di verità. La scelta di stabilirsi a Roma la rende una donna veramente cattolica nel senso che si sente a proprio agio e in casa propria in ogni luogo. Attorno alla sua figura di donna e di discepola di Cristo si respira un’aria di intimità e di autenticità. L’amore appassionato per le persone che la circondano e per quelle di cui sente l’ispirazione di doversi prendere cura – tra questi è da annoverare il Vescovo di Roma che vive lontano dalla sua Chiesa – trova il suo fondamento e il suo quotidiano alimento nella meditazione della Passione del Signore la cui contemplazione diviene il criterio di discernimento di ogni scelta e di ogni passo della sua vita. Come e con Paolo anche Brigida può e ama dire: <Sono stato crocifisso con Cristo…> (Gal 2, 19).

Nonostante sia debitrice delle modalità spirituali della sua epoca, Brigida è una vera maestra di vita spirituale perché riporta ogni discepolo a ritrovare il proprio radicamento nella relazione con il Signore Gesù memore delle sue parole: <Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla> (Gv 15, 5). L’importanza così forte della memoria della passione del Signore nell’esperienza di Brigida manifesta il suo attaccamento appassionato al mistero di Cristo che la rende partecipe della sua sete di salvezza per ogni uomo e donna. Le meditazioni e orazioni di santa Brigida hanno ancora oggi la capacità di aprire il cuore e la mente alla percezione di quale grande amore siamo ricolmati e a cui siamo chiamati a dare una risposa adeguata che ci impegni profondamente e fattivamente. Il desiderio espresso dal Signore Gesù alla vigilia della sua passione rimane per noi un appello a cui non avremo mai risposto abbastanza: <Rimanete in me e io in voi> (Gv 15, 4).