Cosa volete?

XI settimana T.O.

Spesso e volentieri noi non sappiamo quello che vogliamo e soprattutto non siamo disposti a pagare il prezzo di ciò che desideriamo e di ciò che speriamo per la nostra vita e la vita di quanti amiamo. Oggi la parola del Signore Gesù orienta e obbliga il nostro cuore a compiere delle scelte come pure l’esempio di Zaccaria – così vivo nella memoria del popolo da essere citato dallo stesso Signore contro i farisei – ci indica il modo con cui non solo esprimere, ma pure pagare ciò che ci sta veramente a cuore. In un momento non facile, in cui la cosa più semplice sarebbe stata quella di accodarsi al modo di sentire di tutti, troviamo che <lo spirito di Dio investì Zaccaria> (2Cro 24, 20) che rinverdì la memoria di tutti per non commettere in futuro gli stessi errori del passato. A tutti piace l’immagine bucolica che troviamo nel vangelo di quest’oggi: <Guardate gli uccelli del cielo… Osservate come crescono i gigli del campo…> (Mt 6, 26 e 28). È vero che gli uccelli <non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai>; è anche vero che i fiori <non faticano e non filano>, ma quanto, gli uni e gli altri, devono imparare l’arte di accontentarsi e di lasciarsi sfamare e rivestire dalla vita senza pretese e con una inenarrabile gratitudine piena di meraviglia?

Quest’oggi siamo chiamati a metterci alla scuola del profeta Zaccaria per imparare da quanto abbiamo già vissuto e, in modo del tutto particolare, da quanto abbiamo già sbagliato nella nostra vita. Siamo anche chiamati a metterci alla scuola della natura per imparare quel sereno abbandono che non corrisponde, almeno non sempre, ad una sicura facilitazione, che è indice di una fiducia di fondo nella vita che ci permette di vivere nel suo flusso con semplicità, che non significa ingenuità. Per questo il monito del Signore non solo ci riguarda profondamente, ma può diventare per noi una sorta di guida per le nostre scelte quotidiane: <Nessuno può servire a due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza> (Mt 6, 24).

Non si tratta di una concorrenza tra noi e Dio, tra ciò di cui abbiamo effettivamente bisogno per vivere e il Regno di Dio. Si tratta, invece, di una necessità di chiarificazione attraverso una messa in ordine che esige anche una messa in valore degli aspetti della nostra vita che permetta a noi stessi di capire chi siamo realmente attraverso una percezione sempre più chiara di ciò che veramente desideriamo per il nostro cammino. La parola del Signore Gesù ci ricorda che non è possibile vivere all’altezza della nostra vocazione di uomini e di credenti senza dover compiere delle scelte che indichino in modo chiaro non tanto le nostre preferenze emotive – perlopiù passeggere – ma quelle che sono le nostre scelte attraverso cui possiamo manifestare le nostre priorità. Tutto ciò non può che manifestarsi nel momento presente in cui siamo invitati a non lasciarci dominare dalle preoccupazioni, ma guidare interiormente dagli appelli della vita.

Nascosto

XI settimana T.O.

Nella prima lettura leggiamo un testo così drammatico da poter essere definito persino cruento. Alla fine, si dice che <la città rimase tranquilla> (2Re 11, 20), ma a quale prezzo?! Possiamo apprendere da questo passaggio così difficile e inquietante della storia di Israele quanto possa talora essere complesso il processo che conduce infine alla pace e alla tranquillità passando per momenti non solo drammatici, ma perfino tragici. Il primo passo è ciò che fa Ioseba che <nascose> (11, 2) Ioas figlio di Acazia. Il primo passo per sperare nella salvezza e in un possibile incremento di vita è quello di saper entrare in un tempo di sospensione che può e talora deve coincidere con una doverosa chiarificazione interiore ed esteriore. In questo medesimo processo ci conduce la parola del Signore Gesù. 

Egli ci fa prendere coscienza di quelli che possono essere gli ostacoli allo sviluppo corretto della nostra vita quando ci aiuta ad aprire gli occhi su alcune realtà – non sempre facilmente nominabili con chiarezza – che sono in grado di bloccarsi fino a renderci schiavi: <Non accumulate per voi tesori sulla terra… accumulate invece per voi tesori in cielo> (Mt 6, 19-20). La catechesi del Signore Gesù si sviluppa con una profonda coerenza: la capacità di vivere all’altezza del proprio cuore imparando sempre di più a coltivare il livello dell’interiorità è ciò che permette un sano e promettente discernimento. Il Signore ci ricorda con forza una verità che diventa un criterio di valutazione di tutti gli aspetti e le espressioni della nostra esistenza: <Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore> (6, 21).

Quando il Signore Gesù evoca la dimensione del cuore come quella centrale del nostro vivere e del nostro desiderare non ci invita affatto a rifugiarci in un intimismo astorico e dimissionario. Al contrario il Signore ci esorta a ricentrarci continuamente e offre gli strumenti necessari per essere all’altezza della storia: quella più personale e quella di relazione. Per questo aggiunge che: <La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso> e aggiunge per evitare ogni malinteso spiritualistico <ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso> (6, 22-23). Semplificare non ha niente a che fare con una modalità di comoda ingenuità, al contrario è il modo per rettificare continuamente i nostri cammini a partire dal centro del nostro essere da cui abbiamo il compito di ripartire in ogni momento per evitare la più terribile delle catastrofi: <Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tua tenebra!>.

Si tratta di imparare non solo a guardare, ma a vedere! I nostri occhi e quello che passa attraverso di loro – in entrata e in uscita – ci plasmano: noi diventiamo ciò che guardiamo, per questo dobbiamo diventare capaci di contemplare il reale per non cadere nella trappola dell’apparenza e seminare attorno a noi la morte invece che la vita, come avviene nel duro racconto evocato dalla prima lettura.

Come pane

XI settimana T.O.

La preghiera che il Signore insegna ai suoi discepoli è una perla incastonata tra due avvertenze: tra l’argento di una parola essenziale e l’oro di un cuore capace di perdonare perché consapevole del perdono che ha ricevuto. La preghiera del Signore non è semplicemente una formula di orazione, ma donandosi a noi come modello di preghiera, in realtà diventa il modello della nostra vita di discepoli. Papa Giovanni XXIII ebbe a dire: <Vogliamo insistere sul triplo privilegio di questo “pane quotidiano” che i figli della Chiesa devono chiedere al Padre celeste, ed aspettare, fiduciosi, dalla divina provvidenza. Deve essere prima di tutto “nostro pane”, cioè il pane chiesto a nome di tutti. “ Il Signore, ci dice San Giovanni Crisostomo, ci insegna nel Padre nostro a rivolgere a Dio una preghiera a nome di tutti i nostri fratelli. Vuole così che le preghiere che innalziamo a Dio riguardino gli interessi del prossimo quanto i nostri. In questo modo intende combattere le inimicizie e scacciare l’arroganza”. Deve essere, inoltre, un pane “sostanziale” (Mt 6,11 greco), indispensabile alla nostra sussistenza, al nostro cibo. Questo pane, è Dio stesso, verità e bontà da contemplare e amare; un pane sacramentale: il Corpo del Salvatore, testimonianza e viatico della vita eterna. La terza qualità richiesta a questo pane, e non meno importante delle precedenti, è che sia “uno”, simbolo e causa di unità (cf 1Cor 10,17)>1.

Il pane che chiediamo diventa nelle parole del Signore simbolo di tutto ciò che è necessario alla nostra vita e alla vita di tutti: per vivere e per vivere insieme abbiamo bisogno del pane, del perdono, e della forza per vincere il male. Proprio il riconoscimento di avere bisogno ci rende consapevoli del dovere e della sfida della fraternità come esercizio di una comune cura che permette così alla divina paternità di raggiungere e accompagnare ognuno nel suo cammino che è sempre fatto di desideri e di bisogni. La preghiera che Gesù ci insegna è “impegnativa” non per il suo aspetto esoterico, ma per il fatto che, mentre sale al cospetto di quel Dio che riconosciamo e invochiamo come “Padre nostro”, ci rende consapevoli e collaboratori di questo progetto di Dio. Un progetto che riguarda tutti perché ad ognuno va assicurata la vita del corpo, la libertà dell’anima e il perdono ricevuto e offerto senza i quali l’esistenza non può che intristire.

Di questa preghiera che il Signore Gesù ha insegnato ai suoi discepoli ed è stata trasmessa a noi sulle ginocchia delle nostre madri e dei nostri iniziatori alla fede si può veramente dire che <bruciava come fiaccola> (Sir 48, 1). Perché una fiaccola bruci è necessario che venga alimentata con cura e perseveranza. Anche quando le nostre giornate sono più fitte di una boscaglia che ci impedisce di vedere oltre la somma delle urgenze, non dimentichiamo di pregare con le parole che il Signore ci ha consegnato come fuoco della fede da custodire sotto la cenere delle tante occupazione e preoccupazioni di ogni giorno.


1. GIOVANNI XXIII, In Discorsi, messaggi, colloqui, t. 1, Vatican 1958, p. 433.

Come il Padre

XI settimana T.O.

Nell’azione segreta non solo si coltiva e si approfondisce la relazione con il Padre il cui volto ci è stato rivelato dal Signore Gesù, ma si impara ad agire alla maniera stessa di Dio che, in realtà, continuamente agisce in noi e attorno a noi <nel segreto> (Mt 6, 15). Quest’operazione di apprendistato interiore esige tutta la nostra attenzione e l’intera nostra concentrazione. Per questo è necessario non lasciarsi minimamente distrarre dallo sguardo che gli altri posano su di noi tanto da dover resistere alla tentazione di fare qualcosa per essere <ammirati> (6, 1). Il dialogo che intercorre tra Elia ed Eliseo è una bellissima immagine per significare non solo il nostro impegno nel discepolato, ma pure il discepolato come processo interiore di crescita e di trasformazione. Elia chiede generosamente: <Domanda che cosa io debba fare per te, prima che sia portato via da te>. Eliseo risponde in modo esigente: <Due terzi del tuo spirito siano in me> (2Re 2, 9).

Potremmo usare la stessa misura di Eliseo per chiedere al Signore Gesù <due terzi> del suo modo di vivere la relazione con il Padre che lo ha reso piena manifestazione del suo modo di agire al cuore della storia. Ci piace immaginare nel Signore Gesù la stessa generosità che troviamo nel profeta Elia. Pertanto, se possiamo sperare che il Cristo ci renda partecipi del suo stesso modo di vivere la relazione con il Padre, dobbiamo anche esaminare noi stessi per verificare in quale misura siamo disposti a vivere in modo adeguato agli atteggiamenti che ci vengono suggeriti dal Vangelo. Proviamo ad elencare quelli che possono essere i sintomi di una nostra reale corrispondenza con il cuore del messaggio che ci viene donato. Il primo segno di evangelicità sembra essere una preferenza per la discrezione piuttosto che una ricerca di ammirazione.

Da questa discrezione fondamentale un primo frutto è la compassione che mai umilia il povero e il debole perché invece di beneficarlo in modo plateale, guardandolo dall’alto in basso nella speranza che gli altri ci guardino con ammirazione, ci pone accanto alla vita del più povero nella coscienza di essere altrettanto fragili e deboli. La discrezione nella relazione con gli altri, si invera pure nel modo di pregare che rifugge da ogni “teatralità” per ricercare invece l’intimità di una verità davanti a Dio che ci rende veri con noi stessi e umili nei confronti degli altri. Il massimo di questo atteggiamento di evangelicità sembra lo si raggiunga quando l’ascesi, così necessaria alla crescita interiore, viene vissuta come un’esperienza così intima da non avere bisogno di dissimularsi per evitare sguardi indiscreti e invasivi.

Detto questo ci rendiamo conto che la proposta che ci viene fatta dal Signore per il nostro cammino di discepolanza è più ardua di quella proposta da Elia ad Eliseo: <Tu pretendi una cosa difficile! Sia per te così, se mi vedrai quando sarò portato via da te; altrimenti non avverrà> (2Re 2, 10). Cerchiamo allora di fissare lo sguardo del nostro cuore su Cristo Signore per lasciare che lo spirito del Vangelo compenetri intimamente la nostra vita.

Venduti

XI settimana T.O.

Per due volte il profeta Elia smaschera il re Acab e la sua istigatrice – la moglie Gezabele – e lo accusa di essersi <venduto per fare ciò che è male agli occhi del Signore> (1Re 21, 20. 25). La domanda che sorge da questa presa di posizione del profeta Elia è di capire a chi si è venduto? La risposta potrebbe essere quella che il Signore Gesù ci fa intuire nella continuazione del discorso della montagna in cui ci viene per due volte ricordato quale sia l’orizzonte della vocazione della nostra vita: <perché siate figli del Padre vostro che è nei cieli> (Mt 5, 45) e ancora <siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste> (5, 48). La perfezione non è una pretesa, è un cammino! Acab si rivela infine un debole che ha ceduto alle pressioni di sua moglie Gezabele e ha venduto la sua coscienza cedendo alle lusinghe di un potere esercitato in modo dispotico. Nondimeno si rivela capace di pentimento fino a toccare il cuore di quel Padre che, veramente, <fa sorgere il sole sui cattivi i sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti> (5, 45).

Per questo a Elia che era stata mandato per smascherare e punire Acab, il Signore stesso confida la sua compassione e soddisfazione per Acab: <Hai visto come Acab si è umiliato davanti a me? Perché si è umiliato davanti a me, non farò venire la sciagura durante la sua vita> (1Re 21, 28). A partire da questa esperienza possiamo dire che la perfezione cui il Signore ci chiama e ci richiama ogni giorno non è l’assenza di errore ma la capacità di ravvedersi. Talora anche noi ci vendiamo a noi stessi con le nostre paure e i nostri egoismi, persino alle nostre cecità, ma la sfida è quella di essere in grado di riacquistare noi stessi con la nostra coscienza e la nostra dignità di figli che si lasciano ispirare fino ad imitare il cuore del Padre di tutti. Questo processo non è possibile senza passare attraverso l’<umiliazione> senza la quale rimaniamo prigionieri della falsa immagine di noi stessi che radica in un’immagine errata di Dio: <Mi hai dunque trovato, o mio nemico?> (21, 20). 

A questa reazione di Acab potremmo accostare la parola del Signore Gesù applicandolo prima che a noi stessi allo stesso Padre dei cieli: <amate i vostri nemici e pregare per quelli che vi perseguitano> (Mt 5, 44). Di fatto ciò che fa la differenza è la capacità di cambiare e di lasciarsi cambiare persino dal nemico e da tutte quelle situazioni che, a primo acchito, ci sembrano nemiche del nostro comodo e un vero attentato alle nostre apparenze. In realtà è sempre possibile cambiare, è sempre possibile crescere, è sempre possibile riscattare ciò che abbiamo non solo venduto, ma talora persino svenduto in un momento d’ira o di paura. Questo naturalmente vale per noi, vale per gli altri, vale persino per il Signore Dio. Il primo e fondamentale passo è passare dall’equivalenza farisaica all’eccesso cui ci obbliga il Vangelo per non svendere mai la nostra coscienza, ma essere capaci di verità e di giustizia.

Confinanti

XI settimana T.O.

Le parole di Acab sono un vero commento esistenziale alle parole che il Signore Gesù ci rivolge nel Vangelo: <Cedimi la tua vigna; ne farò un orto, perché è confinante con la mia casa> (1Re 21, 2). Conosciamo tutti la triste storia di Acab e di Nabot che verrà fatto ingiustamente condannare da Gezabele perché il re possa coronare il suo sogno di allargare la sua proprietà e confermare il suo potere dispotico: <Quando sentì che Nabot era morto, Acab si alzò per scendere nella vigna di Nabot di Izreel a prenderne possesso> (21, 16). La risposta che Nabot aveva opposto alla richiesta regale suona così: <Non ti cederò l’eredità dei miei padri!> (21, 4). Sembrerebbe proprio che la reazione di Nabot non abbia nulla in comune con l’esortazione del Signore Gesù che insegna ai suoi discepoli qualcosa di estremamente grave: <Ma io vi dico di non opporvi al malvagio> (Mt 5, 39). Proprio la prima lettura ci aiuta ad accogliere questa parola del Signore Gesù con grande serietà evitando però ogni superficialità.

Ciò che il Signore insegna ai suoi discepoli cerca di radicalizzare nella loro sensibilità e nel loro vissuto la fedeltà all’alleanza con Dio che ha di mira la pace nel cuore e nelle relazioni. Il modo per arrivare a ciò è quello di evitare di imboccare la strada senza uscita della vendetta e della contrapposizione gratuita: <Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio” e “dente per dente”> (5, 38). La parola del Signore ci libera dalla costrizione di dover fare delle cose o assumere degli atteggiamenti come se fossero “dovuti” e senza poter più fare appello alla propria libertà e al proprio discernimento. Vi sono sempre delle vie possibili e degli atteggiamenti diversi che si possono scegliere con libertà e accettando di pagarne tutte le conseguenze. Nabot si oppone alla costrizione dispotica di Acab e paga con la vita. Paradossalmente se Nabot avesse ceduto per paura, in realtà, non sarebbe stato l’uomo libero che il Signore Gesù ci chiede di diventare aiutandoci a sottrarre il nostro cuore e la nostra mente alla fatalità delle situazioni e delle relazioni.

Noi tutti siamo nella vita dei “confinanti” con la vita degli altri e noi tutti non siamo solo storia, ma siamo anche geografia! Abbiamo bisogno di alcuni spazi entro i quali non solo vivere ma nei cui limiti regoliamo e riveliamo il nostro modo di convivere. Portiamo nel cuore l’esortazione del Signore Gesù: <Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle> (5, 42). Al contempo non possiamo e non dobbiamo mai piegarci alla violenza pur rispettando <il malvagio> (5, 39) concedendogli lo spazio di cui ha bisogno per esistere, senza pertanto lasciarci trascinare nella sua logica o lasciarci asservire a motivo della paura. La Liturgia di quest’oggi con grande sapienza non ci offre soluzioni, ma ci apre gli occhi sugli orientamenti che non sono delle regole alternative alle antiche, ma un principio da applicare con saggezza, novità e imprevedibilità ogni giorno per non spostare i confini, ma per trasformarli in valichi.

Piccolo seme

XI Domenica T.O.

Paolo sollecita i cristiani di Corinto alla fiducia. Non si tratta di un ingenuo ottimismo, ma della consapevolezza di camminare verso un futuro che illumina il presente, anche quando può risultare faticoso o insensato. Se talora possiamo percepire l’amarezza dell’esilio – quando ad esempio sperimentiamo lo smarrimento del vivere – rimaniamo certi che la meta del nostro pellegrinaggio è il Signore. In Lui troveremo finalmente riposo, come gli uccelli dimorano all’ombra di un albero o tra i suoi rami. Questo futuro atteso non ci fa evadere dal tempo in cui viviamo e dalle sue responsabilità; al contrario, ci consente di rimanervi con l’impegno della speranza, tipico di chi sa di dover camminare ancora nella fede, non nella visione. Il Signore, continua Paolo, darà a ciascuno la ricompensa delle opere compiute. Non si tratta tanto di un premio estrinseco, quanto piuttosto della promessa di portare a compimento quello che le nostre mani così spesso sanno soltanto incominciare, senza riuscire a condurre a pienezza. Il Signore compie gli impegni autentici della nostra vita, li fa maturare trasformando un piccolo seme in un grande albero, mentre ciò che non è secondo il bene svanirà come fumo. Paolo ci invita così a condividere la fiducia stessa che ha animato la vita e l’azione di Gesù. Cristo ha vissuto tra noi senza la pretesa di cogliere subito frutti, ma con la pazienza del seminatore, che continua a gettare il seme anche quando sembra improduttivo o troppo debole, certo che esso ha in sé la forza di germogliare e crescere. Con questa immagine del seme Gesù ci parla del regno dei cieli. Il linguaggio delle parabole è sempre sorprendente. Il tema del ‘regno’, infatti, evoca immediatamente suggestioni di potenza, organizzazione, imponenza… Parlando del regno di Dio Gesù ricorre a un’immagine completamente differente: quella del più piccolo di tutti i semi, che non ha nessuna evidenza o apparenza, tanto da marcire nascosto nel terreno; non esige dispiegamento di forze e di impegni, tanto che il contadino può persino dormire, senza comprometterne l’efficacia. Due atteggiamenti colorano così la vita del credente. La capacità di perseverare nella speranza, anche quando nulla sembra accadere, perché tutto avviene nel nascondimento del terreno in cui il seme è sepolto. È il tempo in cui sperimentiamo persino il silenzio di Dio, la sua lontananza. Il Padre sembra non agire; è invece misteriosamente all’opera, nel segreto della storia, e noi, al pari del contadino della parabola, non sappiamo <come>. Il secondo atteggiamento ci rende attenti al quotidiano. È il <più piccolo>a divenire <il più grande>. In tal modo la parabola, più che al futuro, ci invita a vigilare sul presente perché diventi realmente un laboratorio di speranza per noi stessi e per gli altri.

Petit grain

XI Dimanche du T.O. 

Paul sollicite les Chrétiens de Corinthe à avoir confiance. Il ne s’agit pas d’un optimisme ingénu, mais d’une prise de conscience de marcher vers un futur qui illumine le présent, même s’il peut être difficile ou insensé. Si alors nous pouvons percevoir l’amertume de l’exil – quand, par exemple nous expérimentons le mal de vivre – nous demeurons certains que le but de notre pèlerinage est le Seigneur. En Lui, nous trouverons finalement le repos, comme les oiseaux demeurent à l’ombre d’un arbre ou entre ses branches. Ce futur attendu ne nous évade pas du temps où nous vivons, ni de ses responsabilités ; au contraire, il nous permet d’y rester avec l’engagement de l’espérance, typique de celui qui sait devoir marcher encore dans la foi, non dans la vision. Le Seigneur, poursuit Paul, donnera à chacun la récompense des oeuvres accomplies. Il ne s’agit pas tant d’un prix extrinsèque, mais plutôt de la promesse de porter à son accomplissement ce que nos mains savent si souvent seulement commencer, sans réussir à conduire à sa plénitude. Le Seigneur accomplit les engagements authentiques de notre vie, les fait mûrir en transformant une petite graine en un grand arbre, alors que ce qui n’est pas conforme au bien, s’évanouira comme de la fumée. Paul nous invite ainsi à partager la même confiance que celle qui a animé la vie et l’action de Jésus. Christ a vécu parmi nous, sans la prétention de cueillir tout de suite des fruits, mais avec la patience du semeur qui continue à jeter la semence même quand cela semble improductif ou trop fragile, avec la certitude qu’elle a en elle la force de germer et de croître. Par cette image de la graine, Jésus parle du Règne des Cieux. Le langage des paraboles est toujours surprenant. Le thème du ” Règne “, en fait, évoque immédiatement des suggestions de puissance, d’organisation, de grandeur…En parlant du Règne de Dieu, Jésus recourt à une image complètement différente : celle du plus petit de tous les grains qui n’a aucune évidence ou apparence si ce n’est de moisir caché dans le terrain ; il n’exige aucun déploiement de force et d’engagements, de telle façon que le paysan peut même dormir, sans en compromettre l’efficacité. Deux attachements colorent ainsi la vie du croyant. La capacité de persévérer dans l’espérance, même quand rien ne semble arriver, car tout arrive dans les profondeurs du terrain où le grain est enseveli. C’est le temps où nous expérimentons aussi le silence de Dieu, son éloignement. Le Père semble ne pas agir ; et, pourtant, il oeuvre mystérieusement, dans le secret de l’Histoire, et nous, comme le paysan de la parabole, nous ne savons pas ” comment “. Le second attachement nous rend attentifs au quotidien. C’est le ” plus petit ” qui devient ” le plus grand “. De telle façon, la parabole, plus que dans le futur, nous invite à veiller sur le présent pour qu’il devienne réellement un laboratoire d’espérance pour nous-mêmes et pour les autres. 

Affatto

X settimana T.O.

La parola del Signore non lascia spazio ad alcuna ambiguità e sembra quasi non lasciare scampo a nessuna possibilità per rimediare una qualche consolazione che non faccia i conti con una reale capacità di coinvolgimento nelle posizioni che la vita ci impone di assumere: <Ma io vi dico: non giurate affatto> (Mt 5, 34). Punto e basta! In tal modo il Signore ci richiede una disciplina esigente riguardo all’uso della parola, soprattutto quando le condizioni ci fanno inclinare ad un uso precipitoso e inadeguato della parola quasi per trovare scampo dalla paura di non essere all’altezza delle situazioni che ci troviamo a vivere o che siamo costretti, nostro malgrado, ad attraversare. La disciplina che il Signore ci richiede deve nascere dal cuore dove siamo chiamati a coltivare sentimenti fattivi fondati sulla lealtà nelle nostre umane relazioni che non hanno bisogno di altre garanzie e tantomeno di giuramenti. Di questa lealtà nella relazione troviamo un’icona magnifica nella prima lettura nel momento in cui tra Elia ed Eliseo si crea un legame di discepolanza che non ha bisogno di nessun giuramento, ma si basa sulla stima a una lealtà affidabilissime: <Va’ e torna, perché sai che cosa ho fatto per te> (1Re 19, 20).

Non avere bisogno di fare <giuramenti> significa dare alla propria parola un peso che nasce dal cuore e dalla responsabilità nel portare le conseguenze di quanto viene proferito dalla bocca che parla – o dovrebbe parlare! – dalla pienezza del cuore. Appoggiarsi sull’autorità del <cielo> e della <terra>, di <Gerusalemme> fino a mettere a repentaglio la propria <testa>, sono formule che per il Signore Gesù, pur conservando la loro apparenza di solennità, rischiano di evidenziare un vuoto profondo di fiducia in se stessi e di fiducia negli altri. Il Signore ci invita ad usare la parola come luogo di impegno assumendo così la stessa attitudine divina che, con la sua parola franca, crea e continuamente ricrea le possibilità della vita con il suo perdono e la sua misericordia. Se entriamo in questo respiro – semplice e immediato – che anima il dinamismo di ogni creazione e di ogni vocazione, allora avremo in noi la stessa prontezza di Eliseo.

Quest’uomo, intento al suo lavoro e coinvolto nelle sue relazioni, accoglie la chiamata senza troppe parole, ma con gesti chiari e limpidi che non hanno bisogno di giuramenti: <Si alzò e seguì Elia, entrando al suo servizio> (1Re 19, 21). Al profeta Eliseo ben si addicono le parole esigenti e chiarificatrici del profeta Gesù: <Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”; “No, no”; il di più viene dal Maligno> (Mt 5, 37). Alla scuola della liturgia della Parola di quest’oggi possiamo porre un po’ più di attenzione al nostro modo di fare uso della parola e, soprattutto, siamo invitati a chiederci se è ancora aperto il canale di collegamento tra la bocca e il cuore, al fine di dare alle nostre parole una consistenza di verità che radica nella disponibilità a rispondere, con la vita, di quello che diciamo con la bocca.

Radice

X settimana T.O.

La parola del Signore Gesù non vuole sostituirsi alle “dieci parole” consegnate da Dio a Mosè sul Sinai ma – al contrario – va alla radice di quello che era il desiderio di Dio per l’umanità nel momento in cui – dopo averlo creato – lo accompagnava nel cammino di relazione con lui attraverso il dono della Legge. Riflettendo con acume sull’economia della storia della salvezza Ireneo di Lione nel suo Contro le eresie, dice che: <La legge è stata promulgata dapprima per gli schiavi, per educare l’anima per mezzo delle cose esteriori e corporali, conducendola, in un certo senso come per mezzo di una catena alla docilità ai comandamenti… perché ormai egli seguisse Dio senza catene> (IV, 13, 2).

Da questo punto di vista la parola apparentemente così cruda del Signore non è che l’invito a far radicare sempre di più nel nostro cuore la libertà di essere all’altezza di noi stessi: <Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te> (Mt 5, 29). Così pure la parola che regola la relazione d’amore e di intimità tra l’uomo e la donna – simbolo che rimanda ad ogni relazione che si voglia umana – non vuole essere un baluardo legale ma riportare continuamente alle motivazioni originarie del cuore: <Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore> (5, 28). Come Elia <sul monte > (1Re 19, 9) alla fine <si coprì il volto con il mantello> (19, 13) per vedere non più con gli occhi ma per sentire attraverso il silenzioso ascolto di cui il Signore Dio lo rende partecipe, così anche noi davanti al mistero cui ogni relazione rimanda e di cui è segno siamo invitati ad ascoltare e a convertirci. Infatti, il Signore passa nelle nostre vite sempre attraverso l’altro che si fa commensale della nostra esistenza.

Per questo la sfida non è tenere fede ai legami in modo esteriore e legalistico, ma convertirsi continuamente al desiderio dell’altro fino a sapere “tagliare” (Mt 5, 30), nel senso proprio di potare, il nostro desiderio perché sia umanizzato. Un modo è quello di ritrovare la donna non come oggetto di concupiscenza, ma come sorella nel cammino di umanizzazione. Questo stupendo progetto non si può realizzare senza la capacità di mutilare il nostro naturale egoismo per far crescere in noi l’ordine dell’amore che non può darsi senza un certo amore dell’ordine. L’esperienza di Elia sul monte può così diventare una cifra per imparare la via della mistica delle relazioni umane: non volere più vedere perché si vuole solo e sempre ascoltare. Questo testo così sottile, così santo e così vero non parla solo della relazione riuscita tra l’uomo e Dio, ma pure di una possibile riuscita delle nostre relazioni umane: Non vediamo più Elia, <il suo volto raccolto nella notte del suo mantello>1 fa sì che sia raggiunto dal divino appello del silenzio: <Ascolta Elia, ascolta!>. Questo ascolto di Dio nel <mormorio di un vento leggero> (1Re 19, 12) è il luogo di ogni ascolto, di ogni fedeltà, di ogni umanità.


1. C.-H. ROCQUET, Elie ou la conversion de Dieu, Lethielleux, Paris 2003, pp. 130-131.